Archive for ottobre 2003

31 ottobre 2003

Le nuvole


Vanno
vengono
ogni tanto si fermano
e quando si fermano
sono nere come il corvo
sembra che ti guardano con malocchio


Certe volte sono bianche
e corrono
e prendono la forma dell’airone
o della pecora
o avvdi qualche altra bestia
ma questo lo vedono meglio i bambini
che giocano a corrergli dietro per tanti metri


Certe volte ti isano con rumore
prima di arrivare
e la terra si trema
e gli animali si stanno zitti
certe volte ti avvisano con rumore


Vanno
vengono
ritornano
e magari si fermano tanti giorni
che non vedi più il sole e le stelle
e ti sembra di non conoscere più
il posto dove stai


Vanno
vengono
per una vera
mille sono finte
e si mettono li tra noi e il cielo
per lasciarci soltanto una voglia di pioggia.


(Fabrizio De André)

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28 ottobre 2003

L’anticristo e gli errori del pendolo


Intervista con l’Anticristo


Prologo


Mi chiamo Juan Francisco Delgado e sono un giornalista investigativo. Il mio settore di ricerca è il mondo dell’occulto. Quando nel mio paese uscì il romanzo Il pendolo di Foucault di Umberto Eco ci furono molte polemiche e di diverso genere. Nessuno, però, sembrava essersi accorto dei gravi errori concettuali e numerologici contenuti nel testo.


Nel libro viene analizzato un documento riguardante il Piano di Rinascita dei Templari. Ad un certo momento un personaggio del romanzo, il colonnello Ardenti, dichiara: “Allora: nella notte di San Giovanni, trentasei anni dopo la carretta di fieno. I Templari destinati alla perpetuazione dell’ordine sfuggono alla cattura nel settembre 1307, su una carretta di fieno. A quei tempi l’anno si calcolava da una Pasqua all’altra. Dunque il 1307 finisce verso quello che secondo il nostro computo sarebbe la Pasqua del 1308. Provino a calcolare trentasei anni dopo la fine del 1307 (che è la nostra Pasqua 1308) e arriviamo alla Pasqua del 1344. Dopo i trentasei anni fatidici, siamo nel nostro 1344. Il messaggio viene deposto nella cripta in un contenitore prezioso, come suggello, atto notarile di un qualche evento che si è compiuto in quel luogo, dopo la costituzione dell’ordine segreto, la notte di San Giovanni, e cioè il 23 giugno 1344”.


Questo passo presenta dei gravi errori concettuali rispetto al documento che viene presentato nel testo. L’episodio della carretta di fieno si verifica il 12 settembre 1307 e se facciamo trascorrere trentasei anni giungiamo nel 1343. Il riferimento alla Pasqua non è applicabile in questo contesto, poiché si applica solamente ai mesi di gennaio, febbraio, marzo e parte di aprile. Dato che l’accadimento si è verificato nel mese di settembre ci troviamo nel 1307. Inoltre dal documento (ma anche da un commento del colonnello Ardenti) appare evidente che ci si riferisce a San Giovanni evangelista, l’autore dell’Apocalisse. La notte di San Giovanni evangelista cade fra il 26 e il 27 dicembre, mentre quella di San Giovanni Battista cade fra il 23 e il 24 giugno. Il riferimento alla notte di San Giovanni Battista è quindi errato. Pertanto l’esatto calcolo ci fornisce come data la notte fra il 26 e il 27 dicembre del 1343.


Poi nel documento si afferma che ci sono sei cavalieri ogni venti anni in sei luoghi, uno per ogni luogo. Così otteniamo un totale di trentasei in 120 anni. Inoltre si devono verificare sei appuntamenti, in sei località diverse che prendono 720 anni. Infatti dopo 120 anni si deve aprire il primo messaggio con sigillo e anche i rimanenti messaggi con sigillo vanno aperti l’uno dopo l’altro e a distanza di 120 anni l’uno dall’altro. Il calcolo matematico che riguarda il numero complessivo dei cavalieri si presenta di estrema semplicità: basterà moltiplicare i trentasei cavalieri per sei volte, ottenendo così un totale di 216 cavalieri. Ma vediamo ora che cosa troviamo scritto nel libro: “Trentasei cavalieri per ciascuno dei sei posti, fa 216 la cui somma interna fa 9. E siccome i secoli sono 6, moltiplichiamo 216 per 6 e abbiamo 1296, la cui somma interna fa 18, vale a dire tre per sei, 666”. Appare evidente che questa frase è completamente errata e va riscritta nel seguente modo: Sei cavalieri per ciascuno dei sei posti, fa 36 la cui somma interna fa 9. E siccome gli anni sono 720 (720:120=6), moltiplichiamo 36 per 6 e abbiamo 216, la cui somma interna fa 9.


Infine nel documento, nell’ultima riga riguardante il Piano dei Templari, si dice: “3 volte 6 prima della festa della Grande Meretrice”. Abbiamo appena appurato che i sei appuntamenti, dal primo al sesto luogo con cinque passaggi, prendono 720 anni, dal 1343 al 2063. Inoltre il documento dichiara, senza ombra di dubbio, che il 3 volte 6 (666) si manifesta prima della festa della Grande Meretrice. Ma nel libro il colonnello Ardenti fa notare un gioco numerologico in cui la somma dell’anno 1944 (data ovviamente errata) dà 18, numero che è dato da tre volte sei, cioé 666. Quindi il 1944 è il 666, infatti Ardenti dichiara: “Il seicentosessantasei, anno della Bestia, è il duemila in cui trionferà la vendetta templare, l’Antigerusalemme è la Nuova Babilonia,…”. Quindi al 666 andrebbe sostituito il 1944 e la frase andrebbe letta nel seguente modo: Il 1944, anno della Bestia, è il duemila in cui trionferà la vendetta templare. Questo concetto, del tutto errato, ci viene confermato dallo stesso Ardenti quando afferma: “…ed ecco perché il 1944 è l’anno del trionfo della Grande Pute, la grande meretrice di Babilonia di cui parla l’Apocalisse!”. A questo punto appare evidente che nel testo si dichiara che il 1944 è l’anno del trionfo della Grande Pute quando nel documento il 3 volte 6 (666), l’errato anno 1944, precede la festa della Grande Meretrice. La contraddizione è quindi evidente oltre, ovviamente, all’errore del computo del tempo che porta all’anno 1944 in cui dovrebbe concludersi il Piano dei Templari.


In definitiva su questa base di errori si sviluppa l’intera vicenda del romanzo, infatti nel libro troviamo scritto: “…che non può essere che l’alba del 24 giugno, giorno di San Giovanni, festa del solstizio d’estate…”. Ma tutti sanno che il 24 giugno è la notte di San Giovanni Battista, mentre il solstizio d’estate cade fra il 21 e il 22 giugno. Inoltre anche l’editore, nella presentazione del libro, viene coinvolto negli errori del professor Eco, infatti dichiara: “Si svolge la notte fra il 26 e il 27 giugno…”. Ma seguendo il filo del racconto Casaubon giunge nella casa di campagna di Belbo la sera del 25 giugno 1984 dove si intrattiene fino a notte inoltrata. Quindi questa parte del racconto si svolge la notte fra il 25 e il 26 giugno. Ovviamente considerando che non si tratta di San Giovanni Battista ma di San Giovanni evangelista il tutto, a livello temporale, va traspositato. In poche parole: l’episodio del Conservatoire accade la notte di San Giovanni evangelista, cioé il 27 dicembre e Casaubon giunge nella casa di campagna di Belbo la sera del 28 dove si intrattiene fino a notte inoltrata, cioé la notte del 29. E qui, verso le prime ore del mattino, il racconto si interrompe (il romanzo rimane in sospeso, non si conclude).


Da tutto ciò e anche da altri errori che rilevai mi sembrava che il libro fosse stato scritto da uno scrittore mediocre oppure pazzo, non certamente dal rinomato professor Umberto Eco, l’autore del famoso libro Il nome della rosa. Mi sembrava veramente impossibile eppure gli errori erano lì, sul libro davanti a me. Per un momento credetti che quegli errori fossero stati introdotti apposta, ma per quale fine? Non lo sapevo e così decisi di abbandonare la mia indagine.


Scoperte inquietanti


Passarono degli anni e un giorno, casualmente, mi capitarono tra le mani tre libri: La Magia di Atlantide, La Magia Rossa e La Magia Stellare di Frank G. Ripel. I libri erano stati editi, nella versione spagnola, dalla Editorial Kier ma l’edizione originale era stata fatta in Italia dalle Edizioni Hermes. Questo nome mi ricordava qualche cosa: il Progetto Hermes, la collana di testi esoterici di cui si parlava nel libro Il Pendolo di Foucault di Umberto Eco. Così mi misi a leggere i libri del Ripel e ripresi la mia indagine che avevo abbandonato anni prima.


La prima sconcertante scoperta la feci leggendo La Magia di Atlantide. Nel libro si rivelava che l’Umbilicus Mundi (l’Ombelico del Mondo) si trovava in Italia e più precisamente nella città di Trieste. Ero sorpreso! Tutta la vicenda raccontata nel romanzo di Eco si incentrava sulla localizzazione del Centro del Mondo che dava il potere di dominare e dirigere tutti i flussi tellurici del pianeta. Mi sorse un dubbio. Sapevo che il romanzo di Eco era stato edito nel 1988 e allora feci controllare gli anni di edizione dei libri del Ripel. I primi due erano stati editi in Italia nel 1985, mentre il terzo nel 1986. Mi chiesi: “Umberto Eco aveva preso spunto dai libri del Ripel per costruire il suo romanzo?”. Non dovetti aspettare a lungo per darmi una risposta.


Analizzai, in contemporanea, il libro di Eco e quelli del Ripel e un giorno feci una scoperta sbalorditiva. Alcune frasi riportate nel libro di Eco erano state copiate dal libro intitolato La Magia Rossa. Non c’erano più dubbi: il professor Camestres (un personaggio del libro di Eco) era in realtà Frank G. Ripel. E per la prima volta incominciai a capire. Il nome Camestres è un nome composto da Cames e Tres, e nel libro di Eco, a proposito della Tres, si dichiara: “Una società che si propone di ristabilire finalmente i contatti con le cavallerie spirituali di fedi diverse”. Dunque Camestres è il personaggio-chiave. Chi l’avesse scoperto avrebbe potuto risalire a Frank Ripel. A questo punto mi rimaneva soltanto una domanda a cui dovevo darmi una risposta: “Chi è veramente Frank Ripel?”.


L’incontro


Nei mesi successivi mi procurai tutti i libri di Frank Ripel editi dalle Edizioni Hermes. Più leggevo più rimanevo affascinato. La più potente organizzazione esoterica esistente al mondo aveva rivelato se stessa e il suo Capo Frank Ripel non ne faceva alcun mistero. Dovevo assolutamente incontrarlo, ma non sapevo come. Avevo scritto alla Casa Editrice ma non avevo ricevuto alcuna risposta. Poi un giorno, navigando in Internet, ricevetti delle importanti informazioni. Ero pronto a partire per l’Italia, destinazione Trieste.


L’incontro avvenne in un noto caffè della città e dopo le cortesie e i saluti formali iniziammo a conversare. Gli esposi tutta l’indagine che avevo condotto fino a quel momento. Lui mi confermò tutto quanto e mi fece delle strabilianti rivelazioni.


D: Leggendo l’ultimo capitolo del libro di Umberto Eco appare evidente che il racconto si interrompe. Inoltre mi è sembrato che Eco possa essere identificato in Pim (il soprannome dato da Lia a Casaubon, poiché egli le aveva puntato l’indice con il pollice alzato e le aveva fatto: “Pim.”), l’io narrante. Lei che cosa ne pensa?


R: Sì, in effetti Pim è Umberto Eco. Ricordo che anni orsono, dato che mi ritrovai introdotto nel romanzo nelle vesti del professor Camestres, mi presi la libertà, per gioco, di concludere il racconto. La conclusione del romanzo venne anche pubblicata in una rivista esoterica a cui avevo rilasciato una intervista. Ma ora, se ha piacere, potrei fornirle una rivisitazione della conclusione del racconto. Allora: vogliamo giocare nuovamente con il Pendolo e porre fine a questa storia una volta per tutte?


Gli risposi che ero felice di poter ascoltare la conclusione definitiva della storia raccontata nel libro di Eco.


Parla l’Anticristo: come sappiamo il racconto si interrompe verso le prime ore del mattino del 29 Dicembre. L’anno, però, è il 2000. E da questo punto fermo riprendo e concludo il racconto.


Il Sole sta per sorgere e Pim è lì ad attendere, affacciato alla finestra, la sua attesa sembra senza fine. I membri della Tres dovrebbero arrivare, vengono a prenderlo. Si era illuso di essere spettatore, aveva lanciato il sasso e nascosto la mano, ma era caduto nella trappola. La prima parte del suo progetto era andata secondo i piani, ma la seconda andava secondo il Piano che ormai non gli apparteneva più. Lui e gli altri avevano tentato di cambiare il testo del romanzo del mondo e il mondo li riprendeva nelle sue trame, nel suo intreccio, che non avevano deciso.


Poi, all’improvviso, gli appare un uomo con la barba, il professor Camestres. Cames…tres, dice Pim con voce rotta dall’emozione. Per un istante chiude gli occhi e li riapre, ma davanti a lui non c’è nessuno. Si sente intontito e catatonico non ha alcuna garanzia che quello che gli è appena accaduto sia realmente accaduto. Il dubbio, come un serpente, si insinua nella sua mente. Forse tutta la vicenda che si era svolta in quell’anno non era altro che uno stato allucinatorio o forse era realmente accaduta. Oppure, ancora, forse in tutta quella storia la verità si era mescolata con la falsità e se così era dove stava il vero e dove il falso?


Rimase lì, per alcuni minuti, senza riuscire a dare una risposta ai suoi perché e poi, di colpo, capì. Per lui non poteva esserci alcuna risposta, quale risposta poteva esserci per uno che, come lui, credeva soltanto a ciò che era percepibile tramite i cinque sensi? Per lui non poteva esistere una realtà separata, una realtà al di fuori della stretta materialità. Allora, in quel silente momento, comprese. Lo aveva da sempre saputo che era “umano, troppo umano”. Sì, lo sapeva che l’esperienza del Numinoso non poteva durare a lungo senza sconvolgere la mente, la sua mente, pur sempre duale e binaria come un computer. In quel momento qualcosa cedette in lui, provò la sensazione che la sua anima gli venisse strappata dal petto e si chiese che cosa lo attendesse, ma soltanto una parola riecheggiò nella sua mente: “Follia”. Ma la follia era ciò che da sempre aveva temuto di più nella sua vita, più della morte stessa. No! Disse a se stesso e con la determinazione di chi è immerso nel baratro della pazzia si avviò verso la finesta: l’aprì e poi fu il nulla.


Così Pim fece tonf.


Concluso il racconto gli espressi il mio parere personale. Gli dissi che, secondo me, era veramente pericoloso giocare con il Pendolo. Lui mi rispose che era pericoloso soltanto per coloro che non conoscevano bene le regole del gioco.


D: Che cosa significa conoscere bene le regole del gioco del Pendolo?


R: Significa, prima di tutto, conoscere bene la regola della sua oscillazione e poi conoscere come manipolare le menti e, di conseguenza, le azioni degli uomini.


D: Mi può fare un esempio pratico di ciò che ha appena affermato?


R: Certamente. Prima le avevo detto che anni orsono avevo rilasciato una intervista ad una rivista esoterica. Nell’intervista dichiarai che nel capitolo 44 del libro di Umberto Eco, dove si parla del professor Camestres, è riscontrabile l’inserimento di un dato errato che è la chiave che svela l’effettivo intento del professor Eco e il fine che si prefiggeva con la pubblicazione del libro. Poi, alcuni anni dopo, feci in modo di far girare la voce su questa questione affinché giungesse all’orecchio di chi volevo. Infatti quando venne pubblicata la versione economica del libro trovai una unica presunta correzione di stampa e di errori di stampa ce n’erano diversi, come ad esempio quando troviamo scritto Liber I invece di Liber T. Se si fa una rivisitazione di un testo per correggere gli errori non è possibile che venga rilevato soltanto uno su molti. In pratica al posto di Liber AM vel Legis era scritto, correttamente, Liber AL vel Legis. Come ben sa il Liber AM vel Legis è il Testo Sacro che ho ricevuto. Il fatto che avessero corretto, unicamente, quell’errore dimostrava che non si trattava di un effettivo errore di stampa, ma bensì di un errore introdotto volutamente. In effetti erano caduti nella mia trappola. Non solo mi dimostrarono che non si trattava di un vero errore ma non era neanche il dato errato a cui mi riferivo. E questo pende come la spada di Damocle sul capo di Umberto Eco.


D: Si potrebbe dire che ha attuato un doppio trucco?


R: Vedo che ha compreso come si possano facilmente manipolare le fragili menti umane e così indurre gli uomini ad agire secondo il proprio volere.


D: E per quanto riguarda la regola dell’oscillazione del Pendolo?


R: Ah! Questo per un’altra volta.


D: Nei suoi libri Lei si identifica nella Grande Bestia 666 e successivamente, come sviluppo iniziatico, nel Gran Dragone Scarlatto (la Bestia Selvaggia dalle Otto Teste e Tredici Corna), l’Anticristo.


R: Sì è vero. Io sono il Re del Mondo, l’Anticristo dei cristiani storici. Presto la Terra cambierà e una Nuova Alba sorgerà.


Copyright © 1998 – 2002 by Frank G. Ripel
Sito ufficiale:
http://www.frankripel.org


(tratto da http://www.geocities.com/arpocrate/iview.html)

27 ottobre 2003

“Io sono l’uomo, c’è scritto, che attraversa ogni giorno per dieci anni un incrocio vicino a casa sua e non di precedenza. Sono l’uomo che, in questi dieci anni, assiste ad almeno tre potature vede che c’è un segnale degli alberi che coprono il segnale con le loro fronde, e ogni volta riflette lungamente su quanto poco basti, dopotutto, per rendere ignoto un panorama familiare, e intanto continua a non vedere quel segnale. E sono il padre che buca regolarmente quell’incrocio insieme al figlio, in macchina e qualche volta addirittura anche in Vespa, tenendoselo ben stretto tra le gambe dopo avergli calcato in testa il caschetto non omologato comprato a Porta Portese, convinto di proteggerlo come nessun altro al mondo potrebbe fare. Quell’uomo sono io. Ma sono anche il figlio che non è andato d’accordo con il padre, naturalmente per colpa del padre, e che non si è mai domandato chi fosse veramente il padre. Sono il marito che si è sforzato di non tradire la moglie, come se al suo matrimonio potesse accadere soltanto quello, e non si è accorto che la moglie lo tradiva. Sono il fratello che ha criticato la sorella, le idee politiche della sorella, le amicizie della sorella, i fidanzati della sorella, il marito della sorella, convinto di avere sempre ragione, e ora non fa una vita tanto diversa dalla sorella. Sono lo zio di tre nipotini che hanno soggezione di lui. Sono l’uomo che alle cene racconta sempre le stesse cose. Sono l’uomo che non abbellisce la propria casa pur avendo i soldi per farlo. Sono l’uomo che quando vede una pistola cerca un poliziotto, l’uomo che dona gli assegni senza girarli. Io sono l’uomo che smette di fumare e poi ricomincia. Sono lo scacchista che promette mirabilia e poi smette di giocare perché non riesce a sopportare le sconfitte. Sono l’uomo dalla memoria formidabile che sta perdendo la memoria. Sono lo scrittore per ragazzi che ruba le idee a destra e a sinistra, e che sostiene di non voler essere nulla più di questo, ma mente, perché lo vorrebbe eccome…”


La forza del passato, Sandro Veronesi

27 ottobre 2003

Eneide IX, 456-471
…L’elmo tradì l’incauto
Eurialo nell’ombra pallida della notte
splendendo a un raggio di luna. Quel brillìo fu notato.
Volcente d’in mezzo ai suoi grida forte: “Alto là!
Dove andate? Perché siete in marcia a quest’ora?
Chi siete?”. Nessuna risposta: i due corrono in fretta
verso il bosco sperando nel buio…
L’ombra densa dei rami e il carico del bottino
impacciavano Eurialo, la paura lo inganna;
perde la strada…
(Traduzione di Cesare Vivaldi)

27 ottobre 2003

Eccolo che riappare… là… guardate!
Io l’affronto, dovesse incenerirmi!
(Allo spettro)
Arrèstati, illusione!
S’hai suon di voce e uso di parola,
parla! Se c’è da fare buona cosa
che possa a te recare alcun conforto
e grazia alla mia anima, favella!
Se tu del tuo paese sai il futuro
ed esso sia siffatto che, a saperlo,
si possa scongiurarlo, oh!, te ne prego,
parla! O se tu, da vivo,
hai nascosto nel seno della terra
tesori, per rapina o estorsione
a te venuti, ché per ciò voi spiriti
si dice andiate spesso errando in morte, dillo! Fermati e parla!…
(Shakespeare, Amleto)

25 ottobre 2003

Dei desideri alcuni sono naturali e necessari, altri naturali e non necessari, altri né naturali né necessari e originati da vaga opinione.


(Epicuro)

24 ottobre 2003

Narrare come


Il narratore collettivo, Jeffrey Eugenides


La mattina che si uccise anche l’ultima figlia dei Lisbon (stavolta toccava a Mary: sonniferi, come Therese) i due infermieri del pronto soccorso entrarono in casa sapendo con esattezza dove si trovavano il cassetto dei coltelli, il forno a gas e la trave del seminterrato a cui si poteva annodare una corda. Scesero dall’ambulanza, con quella che come al solito ci sembrò una lentezza esasperante, e il più grasso disse sottovoce: «Mica siamo in tivù, gente: più presto di così non si può». Stava spingendo a fatica le apparecchiature per la rianimazione accanto ai cespugli cresciuti a dismisura, sul prato incolto che tredici mesi prima, all’inizio di quella brutta storia, era perfettamente curato. Ad aprire la serie era stata Cecilia, la minore, tredici anni appena, che si era tagliata le vene nella vasca da bagno come uno Stoico. Quando la trovarono, a galla in quella pozza rosea, gli occhi gialli di un’invasata e il corpo minuto che emanava l’odore di una donna adulta, aveva un’aria così placida che i due soccorritori, spaventati, erano rimasti immobili, come stregati. Ma poi la signora Lisbon aveva fatto il suo ingresso, gridando, e la realtà concreta della stanza aveva ripreso il sopravvento: c’era del sangue sul tappetino, e il rasoio del signor Lisbon chiazzava l’acqua del water in cui era immerso. I due infermieri estrassero Cecilia dal bagno caldo, che aggravava l’emorragia, e le applicarono un laccio emostatico sul braccio. I capelli bagnati le ricadevano sulla schiena; mani e piedi erano già cianotici. Non pronunciò nemmeno una parola, ma nel disgiungerle le mani si scoprì che stringevano su quel seno in boccio un’immagine plastificata della Vergine.
Era Giugno, la stagione delle crisope, l’epoca dell’anno in cui le spoglie di quegli insetti effimeri ricoprirono la città. Levandosi a nugoli dalle alghe che vivono nelle acque inquinate del lago, vanno ad annerire finestre, ad ammantare automobili e lampioni, a tappezzare i docks municipali e a ornare di festoni il sartiame delle barche a vela: una schiuma volante, brunastra, con il dono dell’ubiquità. La signora Sheer, una vicina, ci disse di aver visto Cecilia il giorno precedente al tentativo di suicidio. La ragazza era ferma sul bordo del marciapiede, con il solito vestito da sposa: un modello antiquato con l’orlo sfrangiato. Stava contemplando una thunderbird avviluppata in un manto d’insetti. «Faresti meglio a prendere una scopa, cara» le aveva detto la signora Sheer. Cecilia l’aveva fissata con quel suo sguardo penetrante da asceta. «Sono morti» aveva risposto. «Vivono soltanto ventiquattr’ore. Nascono, si riproducono e schiattano. Non hanno neanche il tempo di nutrirsi.» E cacciando una mano in quella cortina schiumosa di insetti aveva tracciato le proprie iniziali: C.L.



On the morning the last Lisbon daughter took her turn at suicide – it was Mary this time, and sleeping pills, like Therese – the two paramedics arrived at the house knowing exactly where the knife drawer was, and the gas oven, and the beam in the basement from which it was possible to lie a rope. They got out of the EMS truck, as usual moving much too slowly in our opinion, and the fat one said under his breath, “This ain’t TV, folks, this is how fast we go.”


 


*


 


Da Middlesex


 


I was born twice: first, as a baby girl, on a remarkably smogless Detroit day in January of 1960; and then again, as a teenage boy, in an emergency room near Petoskey, Michigan, in August of 1974. Specialized readers may have come across me in Dr. Peter Luce’s study, “Gender Identity in 5-Alpha-Reductase Pseudohermaphrodites,” published in the Journal of Pediatric Endocrinology in 1975. Or maybe you’ve seen my photograph in chapter sixteen of the now sadly outdated Genetics and Heredity. That’s me on page 578, standing naked beside a height chart with a black box covering my eyes.


My birth certificate lists my name as Calliope Helen Stephanides. My most recent driver’s license (from the Federal Republic of Germany) records my first name simply as Cal. I’m a former field hockey goalie, longstanding member of the Save-the-Manatee Foundation, rare attendant at the Greek Orthodox liturgy, and, for most of my adult life, an employee of the U.S. State Department. Like Tiresias, I was first one thing and then the other. I’ve been ridiculed by classmates, guinea-pigged by doctors, palpated by specialists, and researched by the March of Dimes. A redheaded girl from Grosse Pointe fell in love with me, not knowing what I was. (Her brother liked me, too.) An army tank led me into urban battle once; a swimming pool turned me into myth; I’ve left my body in order to occupy others — and all this happened before I turned sixteen.


But now, at the age of forty-one, I feel another birth coming on. After, decades of neglect, I find myself thinking about departed great-aunts and -uncles, long-lost grandfathers, unknown fifth cousins, or, in the case of an inbred family like mine, all those things in one. And so before it’s too late I want to get it down for good: this roller-coaster ride of a single gene through time. Sing now, O Muse, of the recessive mutation on my fifth chromosome! Sing how it bloomed two and a half centuries ago on the slopes of Mount Olympus, while the goats bleated and the olives dropped. Sing how it passed down through nine generations, gathering invisibly within the polluted pool of the Stephanides family. And sing how Providence, in the guise of a massacre, sent the gene flying again; how it blew like a seed across the sea to America, where it drifted through our industrial rains until it fell to earth in the fertile soil of my mother’s own mid-western womb.



22 ottobre 2003

Nuova fanfola: E gnacche alla formica


Io t’amo o pia cicala e un trillargento


ci spàffera nel cuor la tua canzona.
Canta cicala frìnfera nel vento:
E gnacche alla formica ammucchiarona!

Che vuole la formica con quell’umbe
da mòghera burbiosa? È vero, arzìa
per tutto il giorno, e tràmiga e cucumbe
col capo chino in mogna micrargìa.

Verrà l’inverno, sì, verrà il mordese
verranno tante gosce aggramerine,
ma intanto il sole schìcchera giglese
e sgnèllida tra cròndale velvine.

Canta cicala, càntera in manfrore,
il mezzogiorno zàmpiga e leona.
Canta cicala in zìlleri d’amore:
E gnacche alla formica ammucchiarona!


Su http://www.stefanobollani.com/music/02.mp3 è possibile ascoltare una versione della fanfola musicata da Altomare&Bollani

21 ottobre 2003

Ancora fànfole e riflessioni di Bartezzaghi



Il lonfo non vaterca né fluisce


e molto raramente barigatta,
ma quando soffia il bego a bisce bisce


sdilenca un poco, e gnagio s’archipatta.
È frusco il lonfo! È pieno di lupigna
arrafferia malversa e sofolenta!
Se cionfi ti sbiduglia e t’arrupigna
se lugri ti botalla e ti criventa.


Eppure il vecchio lonfo ammargelluto
che bete e zugghia e fonca nei trombazzi
fa lègica busìa, fa gisbuto;
e quasi quasi in segno di sberdazzi
gli affarferesti un gniffo. Ma lui zuto
t’alloppa, ti sbernecchia; e tu l’accazzi.



La dissezione della lingua


Il primo progetto di Noam Chomsky (linguista, ma anche pensatore politico di idee assai radicali) è stato infatti quello di espellere la questione del senso dall’orizzonte della descrizione linguistica, e di elaborare una teoria “completamente non semantica della struttura grammaticale”. Il senso? Un’impurità: la parte soggettiva, sfuggente, paradossale della lingua. Se non avesse significato, la lingua potrebbe essere descritta esattamente, fino ai minimi componenti. E così Chomsky è arrivato a formulare per motivi scientifici un’idea che altri hanno avuto per motivi invece poetici: l’idea che esistano enunciati “ben formati” che rispettano le regole grammaticali di una lingua anche se sono privi di significato. È a questo tipo di lingua che appartengono le frasi che sono servite al gruppo di studio coordinato dal linguista Andrea Moro per identificare le aree del cervello interessate alla comprensione linguistica: frasi come “Il gulco gianigeva le brale”. Se questi linguisti vogliono continuare sullo stesso piano potrebbero usare i versi di Fosco Maraini. Lo scrittore e orientalista ha infatti una poco nota produzione di poesie da lui chiamate “metasemantiche” di grande e ilare bellezza: “Il lonfo non vaterca né gluisce / e molto raramente barigatta / ma quando soffia il bego a bisce bisce / sdilenca un poco, e gnagio s’archipatta”. Quello che affascina i linguisti è la possibilità che la lingua funzioni anche con parole senza senso. In effetti se Maraini avesse scritto: “Il lonfo non vatercano né gluiscono”” certamente si sarebbe pensato a un errore. Anche in una lingua inventata, dunque, ci sono errori di grammatica. O – se si preferisce – si può commettere un errore di grammatica ancora prima di aver incominciato a dire qualcosa di comprensibile. Il lonfo gnagio si archipatta, i lonfi gnagi si archipattano: il carburatore delle declinazioni funziona perfettamente anche se l’albero semantico non trasmette nessun significato ai pneumatici lessicali. Un bel nome per questo genere di esperimenti è stato trovato dal poeta Valerio Magrelli, che ha parlato di “lingua sosia”. Magrelli commentava alcune poesie di Julio Cortázar, scrittore argentino che usava un suo fantasioso italiano per scrivere sonetti probabilmente d’amore: “Simonetta, la fosca malintesa / chiude le rame inaltri fino al nardo. / Magari i tuoi allunghi di leopardo / montano al valle, dove sta la chiesa”. Ma certamente questo secondo esempio mette qualche dubbio: infatti mentre Maraini usa una grande maggioranza di parole inesistenti, Cortázar accosta in modo assurdo (anche se grammaticalmente ben formato) parole che esistono. E dunque una parvenza di senso pare potervi essere.


La grammatica anima il senso


Proprio su questo punto Noam Chomsky ricevette l’obiezione maliziosa, e certamente intelligente, del linguista russo Roman Jakobson. In uno dei suoi Saggi di linguistica generale Jakobson analizzò un famoso esempio di Chomsky: “Le idee verdi senza colore dormono furiosamente”. Come in un controinterrogatorio di Perry Mason, Jakobson ribalta le conclusioni di Chomsky e dimostra che proprio nella grammaticalità della frase sta anche la sua possibilità di senso: “Noi vi isoliamo un soggetto al plurale, “idee” del quale ci si dice che ha un’attività, “dormire”. Queste relazioni grammaticali danno vita a una frase dotata di senso che può essere sottoposta a una prova di verità…”. L’analisi di Jakobson dimostra le possibilità di interpretare in modo figurato enunciati come “idee verdi senza colore”: “L’espressione “verde incolore” è sinonimo di “verde pallido” e produce l’effetto un po’ epigrammatico di un apparente ossimoro”. Per quanto riguarda l’epiteto: “idee verdi”, Jakobson trova precedenti letterari: un verso di Andrew Marvell, “verde pensiero in una verde ombra” e una metafora di Tolstoj: “un orrore rosso, bianco e quadrato”. Ma se le idee possono essere verdi, e il verde può essere senza colore, le idee verdi senza colore possono dormire? Certo che sì, gigioneggia Jakobson: “In senso figurato ‘dormire’ può significare essere in uno stato paragonabile al sonno, inerzia, letargo, torpore… ‘il suo odio non si addormentò mai’ Perché, dunque, non si dovrebbe poter dire delle idee di qualcuno che esse dormono? E infine perché l’attributo ‘furioso’ non potrebbe rendere l’idea di una frenesia di sonno?”. Il gioco di Jakobson è quello di aprire le porte alla letteratura: attraverso l’interpretazione degli usi figurati la nozione di nonsenso diventa problematica: e come tutti i bravi meccanici sanno, le strade del mondo sono tante e una volta che una macchina viene messa sulla strada non è possibile prevederne perfettamente il funzionamento. Per capire il funzionamento del linguaggio bisogna smontarlo, togliere dei pezzi. Gli usi figurati e i significati secondari sono i primi che saltano, lussi da intellettuali. Ma poi bisogna togliere anche i significati primari: perché distrarci con un cane vero e proprio, quando possiamo parlare del più docile lonfo che, lo ricordo ancora, non vaterca né gluisce? L’unico problema è che è inevitabile immaginarselo, questo lonfo: decidere per esempio che si tratta di un docile animale, magari di colorazione verde pallido. Anche le parole senza senso hanno poteri evocativi, e la lingua sosia qualcosa finisce per esprimerlo. La separazione più difficile è proprio quella degli elementi di espressione dagli elementi di contenuto: perché ogni volta che si prende un pezzo di lingua e si decide: “Qui c’è solo espressione”, quel pezzo si anima come Pinocchio e incomincia a generare senso. Sebbene raramente, persino il lonfo talvolta barigatta.

20 ottobre 2003

Il mio nuovo tormentone: Come combinare le unità linguistiche e le fànfole


Nella combinazione delle unità linguistiche esiste una scala ascendente di libertà. Nella combinazione dei tratti distintivi in fonemi, la libertà dei singoli parlanti è nulla; il codice ha già stabilito tutte le possibilità che possono essere utilizzate in una data lingua. La libertà di combinare i fonemi in parole è limitata, in quanto circoscritta alla situazione marginale della creazione di parole. Nel modellare le frasi sulle parole, il parlante è meno vincolato. Infine, nella combinazione delle frasi in periodi, si allenta l’azione delle regole sintattiche vincolanti e si dilata sostanzialmente, per ogni parlante, la libertà di creare nuovi contesti, sebbene, anche in questo caso, non si debbono sottovalutare i numerosi tipi di frasi stereotipate (Jakobson, 1966, p. 26).


Il giorno ad urlapicchio di Fosco Maraini


Ci son dei giorni smègi e lombidiosi


col cielo dagro e un fònzero gongruto


ci son meriggi gnàlidi e budriosi


che plògidan sul mondo infrangelluto;


ma oggi è un giorno a zìmpagi e zirlecchi


un giorno tutto gnacchi e timparlini


le nuvole buzzìlano, i bernecchi


ludèrchiano coi fèrnagi tra i pini;


è un giorno per le vànvere, un festicchio


un giorno carmidioso e prodigiero,


è il giorno a cantilegi, ad urlapicchio


in cui m’hai detto “t’amo per davvero”.