Archive for novembre 2003

La poesia di Sylvia …

30 novembre 2003

La poesia di Sylvia Plath


Ieri ho fatto uno schizzo chirurgico della stufa della serra e di qualche vaso di fiori. Una consolazione sorprendente. Devo conoscerla meglio, quella serra è una miniera di soggetti. Innaffiatoi, zucche e zucchette di ogni genere. Cavoli decapitati a testa in giù dalle travi, le foglie esterne viola verminoso.
Attrezzi: rastrelli, zappe, scope, pale. La superba identità delle cose.
(dai diari)

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27 novembre 2003

Percorsi nel pensiero e nel pensare: Thomas Kuhn


di Diego Fusaro


(tratto da http://www.filosofico.net/kuhn.htm)


L’ impostazione fornita da Popper al problema della conoscenza scientifica ha portato l’attenzione sul suo processo di crescita attraverso la dinamica della formulazione e della critica delle teorie. Dal che è emersa la consapevolezza che per comprendere la natura della conoscenza scientifica non è sufficiente esaminare la struttura logica interna delle teorie, ma bisogna investigare anche il modo in cui esse si sono affermate o sono state abbandonate nel corso della storia: di qui la necessità di intrecciare la considerazione epistemologica con la storia della scienza. Questa impostazione ha avuto risonanza soprattutto grazie all’ opera del filosofo statunitense Thomas Kuhn (nato a Cincinnati nel 1922 e morto nel 1996), intitolata La struttura delle rivoluzioni scientifiche (1962). Professore di storia della scienza all’ università di Princeton, e autore di un volume su La rivoluzione copernicana (1957), Kuhn si è reso conto che il cammino della scienza procede non per accumulazioni, secondo una crescita continua, ma attraverso rivoluzioni . Le rivoluzioni, però, rappresentano soltanto momenti di eccezione rispetto a quella che egli chiama scienza normale , ossia una pratica di ricerca “stabilmente fondata su uno o più risultati raggiunti dalla scienza del passato, ai quali una particolare comunità scientifica, per un certo periodo di tempo, riconosce la capacità di costruire il fondamento della sua prassi ulteriore”. La scienza normale è, dunque, caratterizzata da un consenso sulla validità di questi risultati, i quali vengono ad assumere la veste di paradigmi , ossia di modelli che determinano quali sono i problemi e i metodi legittimi e danno, quindi, origine e tradizioni di ricerca scientifica: tali sono, per esempio, l’astronomia tolemaica o quella copernicana o la meccanica newtoniana. I paradigmi non sono regole rigide, ma devono avere due caratteristiche: devono essere abbastanza nuovi da attrarre un gruppo stabile e sufficientemente ampio di seguaci, distogliendoli da forme di attività scientifica che contrastino con essi e devono essere abbastanza aperti da consentire di risolvere altri problemi. La scienza normale, che si costituisce su questa base, più che mirare a produrre novità, cerca di risolvere rompicapo (puzzles) entro le procedure riconosciute. Essa è opera collettiva e cumulativa: estende la conoscenza dei fatti che il paradigma indica come particolarmente rivelatori, confrontando i fatti con la teoria , e procede ad articolare ulteriormente il paradigma mediante esperimenti. Contrariamente a quanto sostiene Popper, gli scienziati, stando a Kuhn, normalmente non si dedicano a controlli severi delle teorie. Questo può cominciare quando sorgono novità insospettate, che si presentano come anomalie rispetto al paradigma: tale per esempio è stata la scoperta dell’ossigeno. Kuhn considera un luogo comune, privo di consistenza storica, l’idea che una teoria sia invalidata mediante un suo confronto diretto con fatti o osservazioni e che questo conduca al suo abbandono. In realtà, i mutamenti di più vasta portata emergono soltanto con l’invenzione di nuove teorie, in quanto una teoria che ha raggiunto lo stato di paradigma viene riconosciuta invalida soltanto se esiste un’alternativa disponibile. Così è avvenuto, per esempio, per il sistema tolemaico con la nascita di quello copernicano. Solo in questi momenti avviene una crisi e una rivoluzione, ossia la sostituzione di un paradigma con uno nuovo. In tal modo, Kuhn respinge ogni concezione della storia come processo continuo di assorbimento e ampliamento dei risultati precedenti; egli considera, pertanto, la teoria della relatività di Einstein e il sistema di Newton incompatibili, in quanto paradigmi che “dicono cose differenti sugli oggetti che popolano l’ universo e sul comportamento di tali oggetti”. Il che significa che il mutamento di paradigmi non riguarda soltanto singoli settori, ma comporta una trasformazione dell’intera struttura concettuale, con la quale gli scienziati guardano il mondo. Questa transizione non è istantanea; in analogia con le rivoluzioni politiche, Kuhn mette in rilievo che tra i paradigmi s’ingaggia una lotta e che la scelta di uno di essi non è mai risolvibile soltanto facendo ricorso alle argomentazioni logiche e all’ esperimento. Essa comporta, infatti, una decisione su quali problemi sia più importante risolvere e questo implica un riferimento a valori. La vittoria di un paradigma dipenderà, allora, dalla sua forza persuasiva nell’ottenere il consenso della comunità scientifica. All’opera di Kuhn sono state mosse accuse di relativismo e irrazionalismo, in quanto elimina la verità e la discussione razionale come criteri determinanti nella scelta tra le teorie. Da esse, Kuhn ha tentato di difendersi in vari saggi raccolti in La tensione essenziale (1977). Egli ha continuato a ribadire l’incommensurabilità fra le teorie, che guardano il mondo diversamente e usano le stesse parole in modo diverso, ma indicano vari criteri non arbitrari di scelta fra le teorie, quali l’accuratezza, la coerenza, la semplicità, la fruttuosità. Su questa base, egli ha riconosciuto la legittimità di parlare di progresso scientifico , ma con l’avvertenza che, come avviene nella teoria darwiniana dell’evoluzione, tale progresso deve essere misurato non rispetto a un fine prefissato, ma rispetto a quel che precede: il progresso consiste nell’ allontanamento da stadi più primitivi, meno ricchi e meno complessi, di ricerca. Dopo La struttura delle rivoluzioni scientifiche , che è stato uno dei libri più recensiti e più discussi nella filosofia del Novecento, Kuhn non solo ha scritto altri libri importanti ma in un dialogo serrato con i maggiori filosofi della scienza, ha approfondito e modificato i suoi iniziali punti di vista. Kuhn, fino dal 1957, pose mano all’ambizioso progetto di introdurre nella filosofia e nella cultura del secondo Novecento una nuova immagine della scienza. Se la storia della scienza, scriveva allora, non fosse più considerata un deposito di aneddoti, potrebbe produrre una trasformazione decisiva nell’immagine della scienza dalla quale siamo dominati. La storia alla quale pensava Kuhn non doveva più “rispondere a domande formulate in base agli stereotipi antistorici ricavati da manuali scientifici”, doveva richiamarsi allo stile e al tipo di approccio ai problemi presenti in grandi storici come Alexandre Koyré e Arthur Lovejoy. I concetti scientifici – troviamo scritto ne La rivoluzione copernicana – “sono idee e come tali sono oggetto della storia del pensiero”. Lo storico, affermava ancora Kuhn, “deve acquisire un lessico che in alcuni punti differisce sistematicamente da quello corrente al suo tempo”. Come il suo fratello-nemico Paul K. Feyerabend, Thomas Kuhn era una mente libera. A entrambi la storia apparve come “una realtà più ricca di contenuto, più varia, multilaterale, viva, astuta di quanto anche il migliore storico e il migliore epistemologo non riescano a immaginare”. Nel caso di Kuhn, è la storia della scienza ad offrirsi come luogo di confronto delle tesi epistemologiche: la storia doveva essere considerata “come qualcosa di più che un deposito di aneddoti o una cronologia”, si diceva in La struttura delle rivoluzioni scientifiche (1962), non poteva ridursi a serbatoio di esempi che confermassero l’immagine del progredire del sapere per congetture e confutazioni (del resto, proprio Popper ci ha spiegato che chi cerca conferme le trova sempre). La scienza dimentica facilmente il proprio passato, tende ad interpretarlo alla luce del presente, sulla base del “paradigma” del giorno; si finisce così per veicolare l’idea che la scienza proceda in modo lineare e cumulativo, da antichi precursori a futuri eredi. Ma, se proviamo a leggere gli scritti scientifici del passato inseguendone la coerenza interna e nel loro contesto culturale, scopriamo che non sempre gli antichi concetti si riferivano alle stesse realtà a cui si rivolgono oggi. Ãˆ come se, prima di Copernico o di Einstein, si guardasse il mondo in modo diverso da oggi, si vedesse un’anatra là dove noi vediamo un coniglio, per riprendere la figura ambigua, resa nota dagli studiosi della Gestalt e ripresa nelle Ricerche filosofiche di Wittgenstein. Proprio questi mutamenti percettivi, questi slittamenti di significato, ci impongono di riconoscere l’esistenza di rivoluzioni scientifiche: la storia delle scienze è percorsa da fratture, da discontinuità, e la variazione di un paradigma trasforma i fatti stessi presi in considerazione (l’energia e la materia non sono più la stessa cosa dopo Einstein). Non esiste dunque una base comune, un identico mondo osservabile, che possa fungere da terreno di confronto fra le teorie; dall’attenzione filologica alla storia delle scienze emergeva così quella nozione di incommensurabilità fra teorie o paradigmi, a cui negli stessi anni giungeva Feyerabend. Gran parte della riflessione successiva di Kuhn, fino alla morte nel 1996, cercherà di chiarire tale nozione, come attestano i saggi raccolti in Dogma contro critica, due dei quali risalgono ai primi anni Sessanta, gli altri agli anni Ottanta e Novanta. Il libro (con prefazione di Paul Hoyningen-Huene, a cura di Stefano Gattei, edito da Cortina) comprende anche due lettere in cui un Feyerabend ancora popperiano commenta le bozze della Struttura delle rivoluzioni scientifiche: ci viene così restituito il dialogo che avrebbe dovuto svolgersi al Bedford Colloquium del 1965 (il convegno da cui avrà origine il volume ormai classico Critica e crescita della conoscenza Feltrinelli), in cui all’intervento di Kuhn, “Dogma contro critica”, avrebbe dovuto seguire quello di Feyerabend (assente per motivi di salute), dal titolo rovesciato, Critica contro dogma. Le obiezioni di Feyerabend scivolano spesso dall’ambito teorico a quello in senso lato politico, anche col ricorso alla nozione marxiana di ideologia; da esse emerge l’immagine di Kuhn come indagatore della “scienza normale” più che di teorico delle rivoluzioni, un’immagine che le opere successive (si veda in particolare il saggio che dà il titolo alla raccolta La tensione essenziale, Einaudi) finiranno per confermare. Il “necessario preliminare” alla rivoluzione kuhniana è il dogmatico rispetto delle norme accolte dalla comunità, l’osservanza rigorosa di un paradigma che caratterizza la scienza normale: “lo scienziato produttivo, per essere un innovatore …, deve essere un tradizionalista cui piace giocare complicati giochi secondo regole prestabilite”. La garanzia del successo delle comunità scientifiche è la resistenza al nuovo, l’adesione al “pensiero convergente”: la spregiudicata ricerca della verità, il “pensiero divergente”, flessibile e critico, assolve la sua funzione nella fase rivoluzionaria, ma solo l’accettazione di quanto appreso nel corso dell’addestramento professionale consente di scorgere quali anomalie intaccano le teorie dominanti. Le discontinuità che spezzano la linearità apparente del cammino delle scienze sorgono solo sullo sfondo di una tradizione di ricerca consolidata; come nel lessico della teoria delle catastrofi di Thom, è la stabilità strutturale a preparare il terreno della morfogenesi. Per Kuhn, è l’abbandono del discorso critico a segnare la transizione alla scienza matura, nella quale si è formata una ortodossia indiscussa; per Feyerabend, solo disponendo di paradigmi alternativi le anomalie diventano avvertibili. Meglio dunque la proliferazione di teorie che possano reciprocamente criticarsi piuttosto della “normalità” di un consenso dogmatico; “rivoluzione permanente” è lo slogan con cui Feyerabend, radicalizzando l’ideale dei controlli critici di Popper, si avviava a far scivolare il criterio liberal della proliferazione di concezioni verso l’anarchismo del “tutto va bene”. La “società chiusa” degli scienziati normali appare incompatibile con la società libera (o aperta), che dovrebbe fare della città della scienza il modello della democrazia; per il Feyerabend popperiano di quegli anni la falsificabilità o controllabilità resta comunque il criterio per distinguere fra scienza e follia, fra adesione critica e dogmatismo. I saggi raccolti in Dogma contro critica permettono inoltre di apprezzare un significativo mutamento nella scatola degli attrezzi kuhniani: il lessico della psicologia (gestaltica o piagetiana) e della sociologia cede il passo a quello della linguistica e della critica letteraria (anche per la vicinanza con Noam Chomsky, al Mit di Boston, dove Kuhn insegna dal ’79). Se i paradigmi forniscono i filtri, gli a priori della conoscenza (era proprio Kuhn a proclamarsi “un kantiano con categorie mobili”), l’incommensurabilità non è più conseguenza dei modi diversi di percepire il mondo, ma dell’adozione di differenti vocabolari concettuali: diviene una sorta di intraducibilità. Le rivoluzioni mutano la struttura lessicale, e dunque cambiano i sistemi di classificazione, la tassonomia utilizzata dagli scienziati; gli oggetti vengono ridistribuiti secondo categorie differenti, la Terra e la Luna entrano in nuove relazioni di somiglianza dopo Copernico, la caduta dei gravi entra in nuovi insiemi di fenomeni dopo Galileo. Pur non esistendo una possibilità completa di traduzione, la comunicazione fra paradigmi resta garantita da una condizione analoga al bilinguismo: “lo storico diventa bilingue”, consapevole che per alcuni termini non si dà traduzione ottimale, che bisogna ricorrere a perifrasi, ad imperfette corrispondenze. Dalla storia delle scienze Kuhn entra così in un labirinto teorico su cui la filosofia, in particolare di tradizione analitica, si è a lungo soffermata negli ultimi decenni, basti pensare a Putnam e a Quine. Lo storico delle scienze è un narratore che deve dare inizio al suo racconto preparando la scena, cioè descrivendo le convinzioni e specificando il vocabolario degli attori del passato; “come gli altri insegnanti di lingue”, lo storico deve affrontare problemi di traduzione, nella consapevolezza che nelle scienze, come in letteratura, le difficoltà di traduzione hanno la stessa causa, cioè l’incapacità del linguaggi di conservare le relazioni strutturali fra le parole. Cambiando lingua, mutano anche le relazioni fra le cose. Era Kuhn stesso a proclamarsi sostenitore di un “kantismo postdarwiniano”. Popper utilizzava la metaforica darwiniana della competizione e della selezione per spiegare l’evoluzione delle teorie scientifiche. Il Kuhn degli anni ottanta appare contemporaneo della teoria degli equilibri punteggiati: sviluppo scientifico ed evoluzione biologica condividono lo stesso modello, uno schema di ramificazione ad albero, dove l’aspetto rilevante non è il processo di mutazione, ma quello di speciazione. Gli episodi rivoluzionari sono spesso associati ad un incremento delle specializzazioni nella scienza; i fatti sono interpretati secondo una grana via via più fine, grazie ad una struttura lessicale più minuziosa, ma il rischio è di rinchiudersi in nicchie sempre più isolate. Il progresso nella scienza è sempre accompagnato da una perdita, da un restringimento di settori e competenze, che limita la comunicazione; ma tale progresso non è un cammino verso la verità, un crescente approssimarsi alla corrispondenza con la realtà. Possiamo dire soltanto a partire da che cosa procediamo; la kantiana cosa in sé resta inconoscibile.


*


La transizione da un paradigma in crisi ad uno nuovo, dal quale possa emergere una nuova tradizione di scienza normale, è tutt’altro che un processo cumulativo, che si attui attraverso un’articolazione o un’estensione del vecchio paradigma. […]. Questi esempi ci guidano verso il terzo e più fondamentale aspetto dell’incommensurabilità tra paradigmi in competizione. In una maniera che sono incapace di spiegare ulteriormente, i sostenitori di paradigmi opposti praticano i loro affari in mondi differenti. […] I due gruppi di scienziati vedono cose differenti quando guardano dallo stesso punto nella stessa direzione. Ciò però, vale la pena ripeterlo, non significa che essi possano vedere qualunque cosa piaccia loro. Entrambi guardano il mondo, e ciò che guardano non cambia. Ma in alcune aree essi vedono cose differenti, e le vedono in differenti relazioni tra loro. […]. Per la stessa ragione, prima che possano sperare di comunicare completamente, uno dei due gruppi deve far l’esperienza di quella conversione che abbiamo chiamato spostamento di paradigma. Proprio perché è un passaggio tra incommensurabili, il passaggio da un paradigma ad uno opposto non può essere realizzato con un passo alla volta, né imposto dalla logica o da un’esperienza neutrale. Come il riordinamento gestaltico, esso deve compiersi tutto in una volta (sebbene non necessariamente in un istante), oppure non si compirà affatto. […] Il trasferimento della fiducia da un paradigma a un altro è un’esperienza di conversione che non può essere imposta con la forza.


(T. Kuhn, La struttura delle rivoluzioni scientifiche, Einaudi, Torino, 1978, p. 109-112)

27 novembre 2003

Editori che emergono bene: Nutrimenti


homepage: http://www.nutrimenti.net/catalogo.htm


in libreria:


Nawal El Saadawi
Una figlia di Iside

L’autobiografia di Nawal El Saadawi



A causa delle sue battaglia contro l’oppressione delle donne arabe, Nawal El Saadawi è stata cacciata dal ministero della Sanità ed ha subito la persecuzione delle autorità religiose. Arrestata nel 1981, è stata rilasciata solo dopo l’assassinio di Sadat. A metà degli anni ’90 è stata costretta all’esilio perché il suo nome è apparso nella lista della morte di un gruppo fondamentalista. L’ultima persecuzione nel 2001, quando solo una grande mobilitazione internazionale l’ha salvata da un processo per apostasia e da una incredibile condanna al divorzio coatto.


La memoria e le parole sono le armi che Nawal El Saadawi, scrittrice e psichiatra egiziana, utilizza per ribellarsi ad una società in cui la nascita di una femmina equivale ad una sventura. Una figlia di Iside è il racconto dell’infanzia e della gioventù della femminista più famosa nel mondo islamico.
“Questo libro coraggioso – ha scritto Doris Lessing – ci parla di una civiltà in cui le donne sono considerate una sfortuna in famiglia, subiscono la clitoridectomia, sono obbligate a sposarsi bambine.
Un libro che tutti dovremmo leggere.”

24 novembre 2003

La poesia di Sylvia Plath


 


Tulips


 


The tulips are too excitable, it is winter here.
Look how white everything is, how quite, how snowed-in.
I am learning peacefulness, lying by myself quietly
As the light lies on these white walls, this bed, these hands.
I am nobody; I have nothing to do with explosions.
I have given my name and my day-clothes up to the nurses
And my history to the anaesthetis and my body to surgeons.

They have propped my head between the pillow and the sheet-cuff
Like an eye between two white lids that will no shut.
Stupid pupil, it has to take everything in.
The nurses pass and pass, they are no trouble,
They pass the way gulls pass inland in their white caps,
Doing things with their hands, one just the same as another,
So it is impossible to tell how many there are.

My body is a pebble to them, they tender it as water
Tends to pebbles it must run over, smoothing them gently.
They bring me numbness in their bright needles, they bring me sleep.
Now I have lost myself I am sick of baggage –
My patent leather overnight case like a black pillbox,
My husband and child smiling out of the family photo;
Their smiles catch onto my skin, little smiling hooks.

I have let things slip, a thirty-year-old cargo boat
Stubbornly hanging onto my name and address.
They have swabbed me clear of my loving associations.
Scared and bare on the green plastic- pillowed trolley
I watched my tea-set, my bureaus of linen, my books
Sink out of sight, and the water went over my head.
I am a nun now, I have never been so pure.

I didn’t want any flowers, I only wanted
To lie with my hands turned up and be utterly empty.
How free it is, you have no idea how free –
The peacefulness is so big it dazes you,
And it asks nothing, a name tag, a few trinkets.
It is what the dead close on, finally; I image them
Shutting their mouths on it, like a Communion tablet.

The tulips are too red in the first place, they hurt me
Even through the gift paper I could hear them breathe
Lightly , through their white swaddlings, like an awful baby.
Their redness talks to my wound, it corresponds.
They are subtle: they seem to float, though they weigh me down,
Upsetting me with their sudden tongues and their colour,
A dozen red lead sinkers round my neck.

Nobody watched me before, now I am watched.
The tulips turn to me, and the window behind me
Where once a day the light slowly widen and slowly thins,
And I see myself , flat, ridiculous, a cut-paper shadow
Between the eye of the sun and the eyes of the tulips,
And I have no face, I have wanted to efface myself.
The vivid tulips eat my oxygen.

Before they came the air was calm enough,
Coming and going, breath by breath, without any fuss.
Then the tulips filled it up like a loud noise.
Now the air snags and eddies round them the way a river
Snags and eddies round a sunken rust-red engine.
They concentrate my attention, that was happy
Playing and resting without committing itself.

The walls, also, seem to be warming themselves.
The tulips should be behind bars like dangerous animals;
They are opening like the mouth of some great African cat,
And I am aware of my heart: it opens and closes
Its bowl of red blows out of sheer love of me.
The water I taste is warm and salt, like the sea,
And comes from a country far away as health.


 


 


Tulipani


 


I tulipani sono troppo eccitabili, è inverno qui.


Guarda come tutto è bianco, come tutto è calmo, e innevato qui.


Sto imparando a conoscere la pace, si posa accanto a me con la stessa calma


con cui la luce scivola su questi muri bianchi, su questo letto, su queste mani.


Io non sono nessuno; non ho niente a che vedere con le esplosioni.


Ho affidato il mio nome e i miei abiti alle infermiere,


la mia storia all’anestesista e il mio corpo ai chirurghi.


 


Mi hanno sorretto la testa tra il cuscino e la piega del lenzuolo


come un occhio tra due palpebre bianche che rimarranno aperte.


Stupida pupilla, deve sorbirsi tutto.


Le infermiere passano ripetutamente, non disturbano,


passano come fanno i gabbiani verso l’entroterra con le loro cuffie bianche,


con mani affaccendate, l’una identica all’altra,


tanto che è impossibile distinguere quante sono.


 


Il mio corpo è un sasso per loro, vi attendono come l’acqua


Tende ai ciottoli sui quali deve scorrere, levigandoli gentilmente.


Mi portano il torpore nei loro aghi lucenti, mi portano il sonno.


Ora ho perso me stessa, sono stanca di portare pesi –


La mia ventiquattrore di pelle verniciata come un portapillole nero,


mio marito e mio figlio che sorridono dalla foto di famiglia;


i loro sorrisi si agganciano alla mia pelle, come piccoli ganci sorridenti.


 


 


Ho lasciato scivolare via cose, io una chiatta di trenta anni


Testardamente attaccata al mio nome e indirizzo.


Hanno ripulito i miei affetti passandoci sopra una spugna


Atterrita e nuda sulla barella di plastica verde


Ho visto la mia teiera, i miei comò con la biancheria, i miei libri


sparire dal mio sguardo, e l’acqua mi ha inondato la testa.


Sono una monaca ora, mai sono stata così pura.


 


Io non volevo nessun fiore, volevo soltanto


stare stesa con i palmi rivolti in alto ed essere tutta vuota.


Come si è liberi, non puoi capire come si è liberi –


La pace è così grande che ti abbaglia,


e non chiede nulla, un’etichetta con un nome, pochi aggeggi.


È la fine a cui tendono i morti; me li figuro


inghiottirsela come l’ostia della comunione.


 


I tulipani sono troppo rossi, mi fanno male.


Anche da dentro la carta da regalo riuscivo a sentirli respirare


Lievi, avvolti dalla bianca fasciatura, come un bambino odioso.


Il rosso parla alla mia ferita, si corrispondono.


Sono infidi; sembrano galleggiare, benché mi tirino verso il fondo,


sconvolgendomi con le loro lingue lascive e il loro colore


una dozzina di piombi rossi intorno al mio collo.


 


Nessuno badava a me, ora sono sorvegliata.


I tulipani si rivolgono a me e alla finestra alle mie spalle


dove una volta al giorno la luce si espande e si assottiglia,


e io vedo me, grassa, ridicola, ombra di pupazzo ritagliata


tra lo sguardo del sole e lo sguardo dei tulipani,


e non ho volto, ho voluto cancellarmi,


i tulipani vividi divorano il mio ossigeno.


 


Prima che i tulipani arrivassero l’aria era abbastanza regolare


andava e veniva, respiro su respiro, senza alcun scompiglio.


poi l’hanno riempita di rumore fastidioso.


Ora l’aria si rompe e vortica come un fiume


si rompe e vortica su una macchina affondata, rossa e arrugginita.


Catalizzano la mia attenzione, che prima era lieta


di giocare e riposare senza impegnarsi.


 


Anche le pareti sembrano riscaldarsi


I tulipani dovrebbero stare dietro alle sbarre, come bestie feroci.


Si aprono come le fauci di un gigantesco felino africano


e io mi accorgo del mio cuore; apre e chiude


la sua ampolla di rossi bocci per amore mio.


L’acqua che assaggio è calda e salata, come il mare,


e viene da un paese troppo lontano, come la salute.


 

20 novembre 2003

Recensioni: Quello che rimane, Paula Fox, Fazi Editore




…e sospirò per la forza di una memoria che era in grado, nello spazio di un respiro, di cancellare la distanza fra una bambina mezza addormentata e l’adulta esausta, come se, pensò, fossero occorsi tutti quegli anni per salire le scale fino ad arrivare al letto




Da misteriosi oblii editoriali rispunta il romanzo Quello che rimane, uscito per la prima volta negli Stati Uniti nel 1970 (titolo originale: Desperate Charachters), rimasto fuori catalogo per decenni e finora mai tradotto in Italia. Le malelingue borbottano che, come al solito, il caso letterario è stato costruito ad arte: una volta scoperto che Paula Fox sarebbe la nonna naturale di Courtney Love, Jonathan Franzen la definisce la più grande scrittrice americana contemporanea e J.T. Leroy la intervista per un mensile patinato. Mai come stavolta il consiglio è tapparsi le orecchie e ignorare gli schiamazzi pubblicitari: immergersi in questo libro richiede silenzio.
È l’ambigua Brooklyn degli anni Sessanta. Da una parte, ci sono i pionieri della borghesia benestante, tra cui Sophie e Otto Bentwood. Dall’altra, un sottoproletariato sudicio e arrogante che vomita contro i muri delle case di chi, come i Bentwood, non conosce la povertà. Non è un caso che proprio un homeless del mondo animale, un gatto randagio, morda una mano a Sophie. Durante i giorni successivi, la donna non smette di pensare a quel morso. Sente la mano gonfia e dolorante ma non si decide a curarla. Alterna terrore e indolenza, rassegnazione e fuga. La ferita diventa una feritoia sull’anima, uno sguardo dentro l’ovattato mondo di una quarantenne silenziosa, apparentemente fredda e lontana da tutto. Sophie soffoca in sé stessa e nei valori a cui si aggrappa senza convinzione. Attraversa, senza viverla, la rarefazione del suo matrimonio. Nessuna scelta le dà sollievo, nessun luogo la accoglie. Impotenza e autodistruzione la sopraffanno, diventando la metafora politica della classe sociale a cui appartiene.
Più ancora della trama, si incide nell’anima lo stile di Paula Fox. Come scrive Franzen nell’introduzione, le sue frasi “sono piccoli miracoli di concisione e precisione, minuscoli romanzi loro stesse”. Rigorosa, essenziale, implacabilmente sensibile, la scrittrice indaga l’ottusità di dialoghi senza soggetto, la malinconia di eventi senza parole. Calibra i termini con una maestria propria solo dei grandi autori. Ogni gesto è significativo, nessuna descrizione è ridondante. La delusione, la vulnerabilità di Sophie e del suo mondo vengono fuori da particolari mai casuali.
Sono pagine di suspence, introspezione, analisi sociale e appunti sul fallimento di un matrimonio. Si arriva alla fine del libro pieni di una tristezza sorda, travolti da spietata rassegnazione. Ma con la consapevolezza di avere letto un romanzo che racconta la vita nella sua autenticità, mai edulcorata, mai falsata. E non è solo inquietudine o malinconia. Quello che rimane, dopo avere girato l’ultima pagina, è la sensazione di essere stati storditi dalla bellezza del vero.


(Nadia Terranova)

18 novembre 2003

Narrare come: Dawn Powell, The Golden Spur

Uno

La carta da lettere dell’albergo era azzurro Wedgwood come la tappezzeria sulle pareti, delicatamente stampata in rilievo con un cimiero d’oro e un motto, IN VIRTU VINCI, un bel pensiero per un albergo, qualsiasi cosa volesse dire. Era anche di qualità. Un tipo di carta così potrebbe trasformare chiunque in uno scrittore, se ciò fosse possibile.
Prese il pacco intero dalla scrivania e lo infilò in valigia con gli altri fogli, insieme al pigiama, la camicia, il portacenere con il monogramma dell’Hotel De Long, alcuni asciugamani e un raffinato sapone alla lavanda. Peccato che erano rimaste solo due cartoline dell’albergo. Chiunque avesse visto l’immagine della hall del De Long, magnificata tanto da essere irriconoscibile, impreziosita da fiori tropicali, tappeti orientali, divani, e paggi in livrea, avrebbe infatti pensato che dietro le palme nei vasi si nascondevano seducenti sirene e favolosi avventurieri. La sera prima, in realtà, Jonathan aveva visto solo qualche vegliardo e dei signori decrepiti che procedevano zoppicando, o su sedie a rotelle, attraverso le modeste hall. Scelse, in ogni caso, di credere alle cartoline. Quella era la città come l’aveva immaginata, e avrebbe voluto averne molte per poterle spedire e camuffare così lo squallore degli alloggi che l’avrebbero ospitato.
Ne indirizzò una alla signorina Tessie Birch, R.F.D., Silver City, Ohio.
“Cara zia Tessie. Non ho avuto tempo per congedarmi. Scriverò di nuovo quando avrò più indizi. J.”.
La sua finestra si apriva su un cortile ed era a un palmo da quelle di fronte; si scorgeva però, incuneata, la strada sottostante da dove saliva il ronzio soddisfatto della città, una mistura di campane, motori rombanti, fischi, edifici in costruzione, e altri che venivano buttati giù. Il palcoscenico era pronto, l’orchestra accordava gli strumenti, e fra un attimo sarebbe toccato a lui, pensò Jonathan. Stranamente non provava panico, come se gli anni passati dietro le quinte lo avessero preparato a interpretare il ruolo della star. Era piuttosto come se fosse stato liberato da un lungo esilio in una terra straniera per tornare finalmente nel suo paese. A una finestra dall’altra parte del cortile scorse un giovanotto biondo seduto alla scrivania, che si lisciava con indolenza i capelli e sorrideva come per un bel segreto. Quella figura si mosse, e Jonathan si rese conto che la finestra era uno specchio e il giovane con il segreto era lui.

© 2000, Fazi Editore

18 novembre 2003

18 novembre 2003









La poesia dei tecnicismi
T.F. Marinetti


Manifesto della poesia futurista


Dopo avere bevuto in velocità rombi e tonfi di motori a scoppio batteria di idrovore e motoaratrici fuor dall’incubo delle abolite paludi Pontine immenso prodigio geometrico e policromo di neonate messi sature di sole e fulgidi canali che infilzano l’orizzonte i futuristi Benedetta Brizzi Di Gese Carta Masnata Scrivo Scurto Sibò Trecca illustrano nel salone palestra della G.I.L. di Littoria questi principi.


Compito della poesia e delle arti è sempre quello di idealizzare l’universo verbalizzarne riplasmandone e sonorizzandone i pensieri le forme i colori i suoni i rumori i profumi e i tattilismi


Coll’avvento soprannaturale della macchina l’universo si è arricchito della velocità aritmetica geometrica algebrica di un lavoro che si sforza di essere sempre più autonomo sganciato


Nuovo compito della poesia e delle arti nell’Italia Imperiale Fascista figlia della Guerra Veloce quello di organizzare con proficua distribuzione d’intuiti e sforzi creativi quindi a gruppi corporativamente l’idealizzazione dei singoli lavori concettuali amministrativi manuali meccanici


Il nostro tempo Italiano è caratterizzato da un forte patriottismo guerriero che diventa religione della Patria da un forte tormento economico e da un forte tecnicismo meccanico chimico organizzativo


I ventenni cerebrali tristi di non aver partecipato alla preparazione ideologica sentimentale ed eroica dell’Impero rifugiano la loro orgogliosa volontà delusa in un sapiente pessimismo sezionante


l ventenni istintivi sfogano la loro bella febbre di creazione nello sport e nella poesia tradizionale


I ventenni potenti ed equilibrati abbracciano il tecnicismo meccanico chimico con fede futurista nell’Impero creatore e con sicura ispirazione trasfiguratrice ed esaltatrice


Senza la sovrapposta retorica delle verbalizzazioni e plastiche e musiche usate e senza l’ormai rancida simbologia dell’aratro dell’aquila della falce dell’incudine del martello abolita dagli aeroplani seminatori dalle centrali elettriche dai magli idraulici e dalle motoaratrici vogliamo direttamente scavare ogni lavoro nella sua tipica tecnica e nella sua tipica produttività per estrarne i brividi della poesia


Quindi a gruppi corporativamente alcuni idealizzano chimica e industria (Marinetti nel Poema della luce tessuta Folgore in Sensazione fisica di materia Notari in Romanzo d’un bilancio di podestà Buzzi in Popolo canta così Farfà in Tuberie e Tenerezze fresatorie Tullio d’Albisola in Cerantiche Civello in Aviazione) altri idealizzano commerci finanza e agricoltura (Azari nell’Impiegato di banca Marinetti nel Poema del Porto di Rotterdam Marinetti Buzzi Govoni Masnata Scurto nei poemi su Gli affari del Porto di Genova Scurto nel Poema della risaia Giardina in Quand’ero pecoraio e Buccafusca in Tecnica d’una cordata) altri idealizzano la tecnica di guerra (Marinetti nell’Aeropoema del Golfo della Spezia e nel Poema Africano della 28 Ottobre il maestro Pratella nell’Aviatore Dro il maestro Giuntini in Battaglia di terra mare cielo il maestro Brizzi nella Gioia dei mitraglieri e orgoglio dei chimici) Pino Masnata idealizza l’anatomia nella Poesia dei ferri chirurgici


Forse per la incapacità dei poeti passatisti che tentarono di elogiare il lavoro questo è tuttora avvolto in una sensibilità di asprezza fatica noia sacrificio teso a rallegrarsi per il tubo di scappamento della vacanza domenicale


Esiste una specie di poesia romantica della domenica alla quale bisogna contrapporre una poesia del quotidianismo metallurgico chimico aratore ragioniere giuridico ecc


Ma bisogna anche abbandonare il tema impreciso del lavoro subito assorbito dalla retorica ed entrare nel vivo delle tecniche diverse con i relativi utensili ispiratori ognuno con la sua nomenclatura da vivificare e con la relativa sensibilità specializzata destinata se si vuole a stemperarsi sulla vita e sugli ambienti circondanti d’ogni lavoratore


Dapprima vi saranno i poeti rivelatori e abbellitori dei singoli tecnicismi ma si giungerà presto a tale potenza di ispirazione scaturente da ogni tecnica che un giorno i lavoratori e i loro utensili sprizzeranno fuori autopoeti a scintille


Obiezione prevedibile si metterà in dubbio la possibilità di nobilitare un certo numero di lavori giudicati prosaici monotoni grigi quindi privi di poesia


I futuristi rispondono non fu difficile ai poeti del passato estrarre poesia dalle rovine dalle paludi malariche dal deserto e dalla donna


È indiscutibile che una bella donna è per se stessa un vivo poema interessante ma da questo primo stato d’ammirazione all’altezza siderale dove talvolta i poeti collocano la donna vi è una esagerazione che dimostra la potenza miracolosa della fantasia


In quanto al deserto che significa in realtà un vuoto arido e monotono non esiste fuori di esso maggiore prova dei poeti che seppero inventare uno speciale turismo letterario arricchendo di poesia fatiche tediose assoluta mancanza di varietà di colori e di forme disperate malinconie sotto le stelle puzzo nauseante di bivacchi e tende fra i cammelli assenza di comode ritirate presenza degli sterchi mancanza di dissetanti dissenteria in agguato indolenzimento degli arti noia di conversazioni annoiate dall’assoluta ripetizione delle poche emozioni visive


Questa sensibilità infelice ci sembrava tollerabile prima di Vittorio Veneto è assurda nell’Impero


Valutiamo nella antologia recentissima “Splendore della Poesia Italiana” a cura di Corrado Covoni le diverse percentuali dei motivi ispiratori di tutta la poesia italiana e troviamo l’80% di amore platonico volutamente e sistematicamente infelice disperato deluso il 10 per cento di agonia tisi rovine e paludi il 10 per cento di eroismi militari cantati da incompetenti sedentari


Quasi non esiste poesia della gioia concretata dell’amore conclusivo della guerra combattuta del lavoro personalmente raffinato


Per raggiungere un’efficacia la poesia dei tecnicismi deve nel magnificare ogni singolo lavoro manifestare le seguenti qualità 1° ottimismo antinostalgico 2° semplicità antiretorica 3° originalità 4° varietà 5° intensità 6° dinamismo 7° sintesi 8° tipico tattilismo 9° tipico olfattismo 10° tipico rumorismo

17 novembre 2003

Alexander Trocchi (manifesto Tecnica del colpo di mondo, 1963)


«Non siamo desiderosi di impadronirci dello Stato, come Trotzky e Lenin, ma di impadronirci del mondo […]. Quello di cui bisogna impadronirsi non ha dimensioni fisiche né rapporto con i colori delle stagioni. Non è un porto, una capitale, un’isola […] quello di cui dobbiamo impadronirci siamo noi stessi. […] con calma, senza indignazione, attraverso una sorta di ju-jutsu spirituale che ci appartiene in virtù della nostra intelligenza, dobbiamo modificare, correggere, compromettere, deviare, corrompere, corrodere, rivoltare; essere gli ispiratori di quella che possiamo chiamare l’insurrezione invisibile».
«L’uomo sta disimparando a giocare, l’hanno convinto che il lavoro è sacro, solo perché il suo lavoro permette ai padroni di giocare».

17 novembre 2003

Narrare come: Leonard Cohen, Il gioco preferito

La giovane madre di Breavman dava la caccia alle rughe con due mani e uno specchio che ingrandiva.

Quando ne trovava una consultava una fortezza di oli e creme schierati su un vassoio di vetro e sospirava. La ruga veniva unta senza fede.

«Questa non è la mia faccia, non la vera faccia».

«Mamma, dov’è la tua vera faccia?».

«Guardami. È così che sembro?».

«Dov’è? Dov’è la tua vera faccia?».

«Non lo so, in Russia, quando ero una ragazza».

Lui tirò giù dallo scaffale l’atlante enorme e cadde insieme al volume. Setacciò le pagine come un cercatore d’oro, finché non la trovò, tutta la Russia, pallida e vasta. S’inginocchiò su quelle distanze finché i suoi occhi si confusero e i laghi, i fiumi e i nomi diventarono una faccia incredibile, vaga, bellissima e facile da perdere.

La cameriera dovette trascinarlo a cena. Un viso di donna galleggiava sopra l’argenteria e il cibo.