Archive for dicembre 2003

Personaggi con il vo…

24 dicembre 2003

Personaggi con il volto: Umberto Eco




“Collezionare libri è come fare l’amore con una capra”


Bibliofili o bibliomani? Un viaggio fra le manie degli amanti dei libri



Collezionare libri: una passione come tante, che pare oltretutto possedere una sua intrinseca nobiltà, il culto del sapere, la raccolta di un bagaglio universale per la mente. Eppure, a dirla tutta, anche la bibliofilia può contemplare degli elementi patologici, quella devianza tipica del collezionismo che porta ad amare esclusivamente l’oggetto, a volerlo possedere e a voler avere, maniacalmente, tutti gli oggetti che insieme a quello possano costituire appunto una “collezione”. Il tema è di quelli che, se affrontati con abilità oratoria, sono in grado di depurare una conferenza di argomento letterario o culturale della “muffa” che spesso respinge o fa assopire i non specialisti. Se poi a parlarne è Umberto Eco, l’esito non può essere diverso da quanto è avvenuto a Più libri più liberi, la Fiera della piccola editoria che si è svolta al Palazzo dei Congressi dell’Eur nella prima settimana di dicembre. Un pubblico giovanissimo, risate, applausi, l’organizzazione costretta a spostare la conferenza in una sala più ampia a causa dell’enorme affluenza.


Umberto Eco è lui stesso un bibliofilo, collezionista di libri rari, ferrato in materia come nessun altro saprebbe esserlo. Ma a differenza dei tanti topi di biblioteca che affollano il mondo della cultura, Eco è anche un uomo presente al suo tempo, capace di discettare di cinquecentine come del prezzo di un paio di Timberland. Una dote che gli consente di affrontare qualsiasi tematica colta con quell’atteggiamento critico e autocritico dell’uomo che sa osservare, e si sa osservare dall’esterno. Così il monologo sui “piaceri e rischi della bibliofilia” è diventato, nelle mani di Eco, un abile e variopinto excursus nel mondo degli amanti del libro, dei protagonisti di quella nobile passione che però, appunto, può diventare – per usare le parole dello scrittore piemontese – “un morbo come quello del giocatore di roulette, che si rovina per continuare a giocare attendendo sempre l’uscita del numero magico”. Esemplare in questo senso è il caso dei “ladri di libri”, una rara specie di cleptomani la cui mania, in tempi come questi in cui il valore di un libro è considerato ben poca cosa, provoca giustamente una sana dose di ilarità. “Persone di buona condizione economica e di alta levatura intellettuale”, precisa Eco, che amano coltivare “il gusto del furto di libri”. Come quel tale conte Guglielmo Libri (nomen omen), insigne matematico dell’Ottocento, che è passato alla storia per essere stato il caso più eclatante di ladro di libri, essendosi portato a casa, da ispettore generale delle biblioteche francesi qual era, ben 40.000 volumi.


Una mania, quella del libro, in special modo quella per il libro antico, che secondo Eco possiede però, anche quando non raggiunge la patologia, un rischio che non appartiene per esempio al collezionismo di opere d’arte. Perché spesso il libro antico, specie quand’è raro, è tutt’altro che appetibile esteticamente, a differenza di un quadro che, prezioso o meno, lo si può comunque mostrare con orgoglio agli amici. Dunque il collezionismo di libri antichi finisce per diventare una sorta di pratica autistica, dalla quale sono esclusi tutti coloro, e sono i più, che di libri antichi non s’intendono. “È come essere specializzati in amplesso con le capre”, sostiene Eco con un gustoso guizzo d’ironia. “Mentre uno può raccontare di aver fatto l’amore con Naomi Campbell e tutti gli altri lo invidiano, non puoi andare a raccontare di aver fatto l’amore con una capra: gli altri ti guardano come se fossi pazzo!”.


Ma la vita di ogni bibliofilo, anche di coloro che bibliomani non lo diventano, è costellata soprattutto di incomprensioni, pari se vogliamo alla perplessità che circonda tutti i collezionisti, piccoli uomini che la vulgata tende spesso a rappresentare come dei solitari, degli scorbutici, a volte perfino affetti da turbe psichiche quando non sessuali (basti pensare al celebre luogo comune del “collezionista di farfalle”…). Ma nel caso dei bibliofili questa incomprensione prende quasi sempre la forma di una domanda: “Quanti libri! Ma li ha letti tutti?”. A vantaggio dei bibliofili come lui, Eco ha voluto perciò suggerire tre possibili risposte. La prima, ereditata dall’amico Roberto Leidi, che possedeva una biblioteca di 20.000 volumi, consiste nell’affermare con fare imperioso: “Molti di più, signore, ne ho letti molti di più!”. Seconda possibilità, “tremenda” secondo Eco, perché tremendamente snob: “No, i 120.000 che ho letto li tengo all’università, questi sono i 50.000 che devo leggere entro il mese prossimo”. Altrimenti, spiazzando l’interlocutore, gli si può rispondere: “Non ne ho letto neanche uno, altrimenti perché li conserverei. Non mi dica che lei conserva le scatolette di carne in scatola dopo averne mangiato il contenuto…!”. Una risposta esemplare, sostiene Eco, “per un imbecille capace di fare questa domanda: uno che immagina che il libro, una volta che si è letto, abbia ormai esaurito il suo fascino”.



(Riccardo Trani, articolo prossimamente pubblicato sul giornale di quartiere Piazza)

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Ritratti: Grazia Che…

22 dicembre 2003

Ritratti: Grazia Cherchi


Chi era Grazia Cherchi



Ricordo di un’amica, Lalla Romano







Conosceva Grazia Cherchi da molti anni?


La conoscevo da molti anni, da quando leggevo la sua rubrica sul Corriere della Sera. Mi ricordo di un ritratto che mi aveva fatto…
Lei diceva che tra di noi si era creata una sorta di fratellanza, di straordinaria affinità, cosa curiosa per la differenza d’età, grande fra di noi, e per il fatto che per lungo tempo non ci eravamo conosciute “di persona”.
Ricordava che qualche volta mi comportavo con lei come io uso fare con molte persone (se appena le conosco e se scrivono qualcosa che mi pare importante): le chiamo al telefono e dico “il tuo pezzo mi è piaciuto”, poi metto giù. Questo era il nostro rapporto. Qualche rara volta ci siamo anche incontrate ma non è mai stato un problema per me vederla o meno di persona, non vado mai a cercare gli amici anche se ci sono persone che mi interessano. Se anche il caso non mi fa incontrare chi vorrei non ho mai cercato nessuno. Così è accaduto questo nostro rapporto.

Un rapporto importante…


I mportante, sì. Tant’è vero che è stato così importante per me che quando lei è mancata il mio annuncio funebre è stato quello che pensavo fin dal momento del nostro incontro e ho scritto semplicemente “tardi ma per sempre”. Questo “tardi” significa soltanto che l’incontro è accaduto tardi nella mia vita e nella mia possibilità di conoscerla e frequentarla, in quanto io vivevo a Milano dal dopoguerra, soltanto in questo senso. Perché sono convinta che quello che è importante nelle nostre vite, nella vita di tutte le persone, accade quando deve accadere, e se è stato fondamentale non bisogna rimpiangere ciò che si è perso, l’essenziale è che sia accaduto.

Un incontro predestinato.


Ricordo la mia frequentazione con Grazia, venuta non molto dopo la perdita di un’altra mia grande amica, una donna poeta, Daria Menicanti. Io credo che ognuno di noi abbia un destino anche perché il destino ce lo facciamo noi stessi, con la nostra persona, le nostre scelte, quello che accade del nostro destino è voluto da noi. Di questo sono profondamente convinta. Perciò si vede che per me era il momento giusto di avere questo incontro, questo avvicinamento con Grazia. Non mi sono mai domandata perché non sia capitato prima. Quando ho provato a domandarmelo ho pensato: forse perché sono la moglie di un presidente di banca, ma è una sciocchezza perché poi lei invece apprezzava molto mio marito, lo conosceva… sciocchezza.

Avevate profonde affinità o si trattava di un’amicizia basata sulle differenze?


Abbiamo scoperto vicendevolmente delle profonde affinità, nonostante la differenza di età, infatti non è quella che distanzia le persone. C’è qualcosa di più importante che fa parte della persona umana e che non dipende dall’età. Quando abbiamo cominciato a vederci sovente ho avuto molto da lei, soprattutto segnalazioni di libri da leggere, normalmente di libri di cui si è parlato poco nelle case editrici, meno noti. Non è mai capitato che mi abbia mandato un libro o me lo abbia segnalato e che questo libro non sia stato per me importante. Questo è già prova della profonda intesa fra noi.
La nostra affinità era così grande che scoprivamo anche aspetti quasi comici della maniera di guardare la vita e le cose. La nostra straordinaria capacità di essere persone pratiche, di non dare valore a certi aspetti della vita che paiono particolarmente apprezzati o apprezzabili nelle donne e così via. Ma non facevamo teorie su questo.
Nel libro [Grazia Cherchi, Scompartimento per lettori e taciturni, Edizioni Feltrinelli, n.d.r.] c’è un’intervista molto bella e c’è uno scritto suo che è stato fatto in seguito al Convegno sulla mia opera, nel 1994. Il pezzo in cui scrisse un mio ritratto molto lusinghiero, ma soprattutto essenziale è anche testimonianza della nostra grande affinità. Ho avuto naturalmente anche altre amicizie femminili, ultima prima di lei, si diceva, Daria Menicanti, con cui c’era un’intesa profonda, telefonate ogni giorno… Ma quella con Grazia ha avuto un aspetto assolutamente diverso.

Avevate amicizie comuni che in qualche modo si ricollegassero tra loro?


Lei era importante per tante altre persone, tante altre persone la interessavano. Non c’era tra queste persone una rete di conoscenze. Una specie di incontro c’è stato ai suoi funerali che ricordo come una cosa straordinariamente bella. Non amo affatto i funerali e le cose funebri, però questo incontro di tante persone, alcune conosciute altre che non conoscevo o che conoscevo solo di nome, questo ritrovamento di tanti in nome di Grazia, l’abbraccio di persone conosciute e dimenticate, di persone che mi hanno ricordato tempi lontani, è stato un insieme che ha segnato profondamente la mia vita. Del resto tutto quello che rimane nella vita è quello che ci ha segnati profondamente. L’incontro con Grazia e anche il mio addio a Grazia è uno di questi momenti. Ho detto “tardi ma per sempre”: per sempre è quello che lei mi ha dato e che forse ha ricevuto, perché era contenta che ci incontrassimo, e avevamo così tanto in comune, addirittura uno stile…
Persino oggi venendo qui mi sono messa questo berretto che metto di solito che dico che è uno “stile Grazia” perché con lei (non che di solito mi preoccupi del mio aspetto in società…) c’era una particolare libertà reciproca. Quando ci davamo appuntamento generalmente lei mi portava un gran mazzo di margherite. Sapeva che mi piacciono molto. Mi comprava al mercato uno di quei mazzi enormi che poi durano moltissimo. Sapevo vagamente che lei aveva tanti altri amici, persone che stimava, che aiutava, che avevano fatto parte della sua vita. Non sapevo però quasi niente, nemmeno della sua famiglia. Non sapevo forse nemmeno che avesse un fratello. Non c’era questo tipo di legame tra noi. Perciò quello che ho detto “tardi ma per sempre” ha un significato esatto. Tardi nel senso che io ero già molto vecchia, avevo già una grande esperienza di vita in tanti sensi. Però le grandi cose che ci accadono nella vita, come accadono sempre, sono quelle che gli scrittori in genere, gli artisti cercano in qualche modo di conservare, nella loro opera, trasfigurandole.

Ancora una volta il destino, un destino costruito, voluto…


Significa proprio questo: questa vita che viviamo sulla terra è un destino, questo destino non è scritto nelle stelle, è fatto da noi, ne siamo gli artefici. Lo credo profondamente, e fa parte di questo anche il fatto che certi incontri straordinariamente importanti e vitali sono brevi, come nel caso dei miei incontri e delle mie frequentazioni con Grazia Cherchi. Non c’è stato mai niente di Grazia che mi abbia dato fastidio. Posso apprezzare molte persone che non sono affatto intellettuali, questo risulta anche dalle mie opere: il personaggio forse più importante dei miei libri è quello che dà nome al romanzo “Maria” dove parlo di una donna che è stata governante, domestica nella mia casa per tanti anni. Ma Grazia era un’amica intellettuale e le donne intellettuali mi piacciono moltissimo, ma non è detto con queste persone io senta subito un’affinità. Mentre questo mi è capitato con Grazia. L’unico momento però in cui si è formata una sorta di famiglia intorno a lei è stato quello dei suoi funerali. Più che funerali sono stati un grande momento di vita, di formazione.

Il tema della memoria. Perché si è ripreso in questi ultimi anni così tanto il tema della memoria, del ricordo, perché è rinato il valore del ricordo, al di là delle singole commemorazioni come quella appunto di Grazia Cherchi?


Certe cose dipendono un po’ anche dalle mode, diventano mode, cioè, magari con il pretesto che è la fine secolo, la fine millennio… Sono sciocchezze perché per ogni vita c’è una fine che non è fine secolo o fine millennio. Ho parlato parecchio della memoria, perché i miei libri sono basati parecchio sulla memoria. Penso si debba distinguere tra due tipi di memorie: la memoria nel senso grande che è ricchezza per l’umanità, e i ricordi che sono personali, che hanno una loro dignità, ma che non sono niente, sono aneddoti, pettegolezzi, in questo senso la memoria non è niente. Difatti adesso proliferano libri di memorie perché raccontano fatterelli, questo non ha niente a che fare con la vera memoria. L’arte è sempre un’astrazione, non solo l’arte astratta, anzi l’arte astratta è molto intellettualistica. L’arte astrae dalla vita un significato: se lo scrittore dentro di sé ha qualcosa da dire, lo dice attraverso una vicenda se è un narratore, oppure attraverso la poesia… Però tutto ciò rientra sempre nella memoria dell’umanità. Soltanto in questo senso esiste la memoria, perciò noi possiamo leggere le poesie di Saffo come fossero state scritte adesso.

(tratto da http://www.cafeletterario.it/interviste/romano.html)


A Grazia Cherchi
un’amica che non c’è più
e che fino all’ultimo
mi è stata vicina in questo libro
come in tutti i miei libri
con i suoi consigli, la sua allegria, la sua intelligenza.

Stefano Benni, Elianto


Grazia ha telefonato
Finalmente mi hai mandato
un vero romanzo
asciutto e stringato
Grazia, da mesi di dirtelo tento
era la lettera d’accompagnamento

Stefano Benni, La Repubblica 16 settembre 2000


Grazia Cherchi era una signora molto minuta con una faccia bellissima un po’ da sarda un po’ da india amazzonica, molto caustica con quelli che non amava, molto dolce con quelli che amava, molto rispettata anche dai suoi nemici, che magari le scrivevano delle perfidie però quando la vedevano abbassavano gli occhi… e poi era una persona che leggeva tantissimo, aveva una grande passione per i libri. Aveva scelto di non scrivere lei in prima persona, le sarebbe piaciuto perché aveva, come tutti noi, una sua vanità ma, invece ha preferito aiutare degli scrittori giovani a crescere, a diventare scrittori maturi e l’ha fatto con tanti. Lo faceva con dolcezza ma spietatamente, criticando molto, non era affatto remissiva, non accettava tutto, ma incoraggiava a migliorare, dedicava a questo lavoro moltissimo tempo. Avrebbe sicuramente potuto guadagnare di più facendo la critica accademica, ma era troppo indipendente e troppo poco premiaiola e ipocrita.
Era anche una persona con una grande ironia, e si vedeva nei suoi scritti, però aveva una fiducia illimitata, quasi ingenua, nella possibilità della gente di crescere e questa era la sua dote più bella. A volte prendeva a mano degli scrittori che avevano un talento molto grezzo, sui quali si capiva che c’era da lavorare molto, però accettava questa sfida, esattamente il contrario di quello che fa l’editoria. L’editoria pubblica subito il libro del giornalista o del cretino televisivo, dell’improvvisato sociologo, un libro che già si vende – si vendicchia – subito (perché poi in realtà alla fine i libri che durano sono altri). Se l’editore vede un libro che è appena un po’ sghembo, un po’ strano dove c’è “da metterci le mani” spesso rinuncia, magari preferisce un libro subito riconoscibile, nel senso che è copiato da un modello: adesso vanno i gialli, tutti sfornano e pubblicano gialli. Lei affrontava degli scrittori magmatici – i miei all’inizio erano probabilmente libri con molti difetti di abbondanza – e poi ti aiutava, non riscriveva una riga, però ti spronava, ti faceva capire che dovevi faticare di più: ecco in questo era assolutamente anomala nel panorama dell’editoria, in questo suo cercare sempre delle sfide difficili. Io non ero una sfida facile all’inizio perché ero uno scrittore, credo, con un certo talento ma pieno di deviazioni, ridondante, pieno di dubbi e tutte le volte che scrivo un libro è come se sentissi la sua voce che mi prende in giro, che mi ammonisce. Grazia Cherchi era questo.


(da un’intervista a Stefano Benni)

La poesia di Sylvia …

19 dicembre 2003

La poesia di Sylvia Plath


 


Il carceriere


 


I miei sudori notturni ungono il piatto della sua colazione.


Il solito fondale di nebbia azzurra viene spinto al suo posto


con su i soliti alberi e pietre sepolcrali.


È tutto qui quel che sa escogitare


lo scuotichiavi?


 


Sono stata drogata e violentata.


Per sette ore strappata alla ragione


e cacciata in un sacco nero


dove mi rilasso, feto o gatto,


leva delle sue fantasie notturne.


 


Qualcosa se n’è andato.


La mia capsula di sorriso, il mio zeppelin rosso e blu


mi precipita da un’altezza spaventosa.


Col guscio fracassato


mi offro distesa al becco degli uccelli.


 


Oh, piccoli succhielli—


Quanti fori riempiono già questo giorno di carta!


Lui mi spegne addosso le sigarette,


sostenendo che sono una negra con le zampe rosa.


Io sono io. Non è abbastanza.


 


La febbre goccia e mi si rapprende nei capelli.


Mi si contano le costole. Che cosa ho mangiato?


Menzogne e sorrisi.


Non è possibile che il cielo sia di quel colore,


l’erba dovrebbe incresparsi al vento.


 


Tutto il giorno, lavorando alla mia chiesa di fiammiferi spenti,


sogno qualcuno del tutto diverso.


E lui, per questa ribellione,


mi fa male, lui,


con la sua corazza di falsità,


 


le sue eccelse, fredde maschere di amnesia.


Come sono finita qui?


Criminale imprecisata,


muoio con varietà—


impiccata, affamata, bruciata, appesa a un uncino.


 


Lo immagino


impotente come un tuono lontano,


alla cui ombra ho mangiato la mia razione fantasma.


Vorrei che fosse morto o partito.


Ed è questo, sembra, l’impossibile.


 


L’esser libera. Cosa farebbe il buio


senza febbri da mangiare?


Cosa farebbe la luce


senza occhi da accoltellare, e lui


cosa farebbe, cosa, cosa, senza di me?


 



(17 ottobre 1962)

Recensioni dal passa…

15 dicembre 2003

Recensioni dal passato: La cazzaria di Antonio Vignali




The Anathomy Lessons

by Judith Thruman

Sixteenth-century sexual transgressions.

Issue of 2003-12-08
Posted 2003-12-01

In 1525, Antonio Vignali, a young Sienese nobleman, founded a lofty-minded humanist society that he called, with boyish irreverence, the Academy of the Stunned (Accademia degli Intronati). The commandments of its motto—“Pray, Study, Rejoice, Harm No One, Believe No One”—were honored selectively. The Intronati were an élite cenacle of scholars who shared a devotion to vernacular literature; passionate republicanism tempered by contempt for the common man; flamboyant misogyny qualified by awe for women’s supposedly insatiable sexual appetites; hatred of clerical hypocrisy; youthful Weltschmerz; and a fervor for sodomy that, at least in Vignali’s case, bordered on the evangelical. The academy convened on Sundays, behind closed doors, to discuss philosophy, music, law, poetry, and language, and to critique its members’ work. It appears that quite a bit of member exercise took place also, as is the case at all frat parties, however exalted. The Intronati made a specialty of scandalous theatrical productions (one of their several affinities with the fin-de-siècle Decadents who orbited Oscar Wilde and the coteries that formed around d’Annunzio, Artaud, and Cocteau). Nevertheless, or perhaps therefore, they acquired an illustrious reputation that they still enjoy. Their most famous collaborative effort was “Gl’Ingannati” (“The Deceived”), a comedy with a cross-dressing heroine that influenced Shakespeare’s “Twelfth Night.”


Sometime between 1525 and 1527, Vignali wrote a radically obscene satire on politics and sex that he called “La Cazzaria.” The sixteenth century was a golden age of the outré, particularly in France and Italy, and this slight opus, the length of a novella, took the form of a mock-Platonic, mock-scholastic dialogue narrated mostly by disembodied genitals. The manuscript was intended for private circulation among like-minded freethinkers, but someone—friend or foe, it isn’t clear—pirated a copy and had it printed without the author’s consent, crippling Vignali with a notoriety that he didn’t outlive. He went into exile a few years later and published nothing else in his lifetime.


Centuries passed, and “La Cazzaria” was more or less forgotten, though a few copies were conserved in the dirty-book archives of various august institutions and in the collections of libertine bibliophiles. One was unearthed about ten years ago in a Spanish house that was being demolished. Two sixteenth-century editions found their way to the Enfer at the Bibliothèque Nationale in Paris—a restricted room legendary among French schoolboys (and the object, in fantasy, of more midnight break-ins than the vault at Fort Knox). Another copy settled into the bowels of the Vatican, and a nineteenth-century French translation was bequeathed to the British Library. There, in the early nineteen-nineties, Vignali’s work was discovered by a graduate student at Columbia—Ian Frederick Moulton—who was doing research on Renaissance erotica. Even at the end of the twentieth century, credentialled readers who had wangled entrée to the “Private Case” (a collection of pornography donated by the Victorian erotomane Henry Spencer Ashbee, the author of “My Secret Life”) were, Moulton notes, obliged to consult its contents at a special desk close to the librarians, presumably with both hands in view. Moulton has translated “La Cazzaria” into English for the first time, as “The Book of the Prick” (Routledge; $18.95). His exemplary introduction is nearly as long as the text itself and twice as worthwhile. It provides the historical perspective and intellectual sobriety missing from what Moulton tactfully describes as a “learned, but childish,” fable that is, even by the most liberal modern standards, a complete gross-out—though probably not to anyone who has tuned in to Howard Stern.


Cazzo is the vulgar Italian word for the male organ, hence the title, whose “closest English rendering,” Moulton writes, “is probably ‘cockery’—but that is too close to ‘cookery.’ . . . ‘Prickery’ might work, but it lacks the specificity of the Italian word. In English, ‘prick’ is a word with many meanings; in Italian, ‘cazzo’ can mean only one thing. In the text, I have translated ‘cazzo’ as ‘cock,’ but ‘Book of the Cock’ sounds like it might have something to do with poultry, so for the working English title, I settled on ‘Book of the Prick.’” Anglo-Saxon sexual slang, however, has a much harsher impact on the ear than its mellifluous Romance counterpart, and equivalent terms don’t carry the same charge. The percussive monosyllables and/or double final consonants of cock, balls, shit, dick, buttocks, jerk-off, prick, cunt, and fuck have a blunt, expletive force that isn’t rendered by (and betrays the puckish delicacy of) cazzo, potta, culo, fica, scopare, merda, coglioni, and cacca. The verbs incazzare and inculare, especially used reflexively, are certainly rude, but hardly so heavy-handed as “to take it up the ass.” It’s the difference, perhaps, between Ariel’s nimble tongue and Caliban’s thick one.



It would be satisfying, if only for the worthy Moulton’s sake, to report that “La Cazzaria” is a masterpiece rescued from obscurity by a feat of heroic exegesis, but, even making allowances for the nuances inevitably lost in translation, a masterpiece is something shapelier and more solid than an extended riff, however much fun it is. Vignali’s antic prose staggers in and out of coherence like a student video ad-libbed as it is shot, and it also reminded me of the scatological graffiti, most of it in Latin, that one finds in the catacombs of Roman churches, and which seems to have been etched into the stone expressly to deflate, for future generations, the mystique of antiquity.


The animator of “La Cazzaria” is a priapic scholar steeped in the classics who refers to himself by Vignali’s own nom de plume, Arsiccio Intronato. Arsiccio means “burned,” as in scorched by lust, and when the dialogue begins he is intent on seducing a younger academician named Sodo Intronato—the pseudonym of Vignali’s friend Marcantonio Piccolomini. Sodo is laughably ignorant of human anatomy and plumbing, and of nearly all sexual matters, including such basics as “why kissing feels good”; “why women have periods”; “why the crotch is hairy”; and “why jerking off was invented,” not to mention such headier questions as “why monks invented confession” (to ascertain if there were any “secrets in the art of fucking” they didn’t know) and, on a slightly more elevated note, “why no one today has profound knowledge” (people are too busy “making money, dominating others, and similar things . . . because wealth has placed its feet on virtue’s neck”). The conversation is introduced by a letter from a third member of the confraternity, Il Bizzarro, who claims to have borrowed this “naughty” text while waiting impatiently in Arsiccio’s study for a “filthy, succulent, and smutty” wench his host has promised to serve up. “Although our Arsiccio has always shown himself to be an enemy to women in all his affairs,” Il Bizzarro writes, “he is nonetheless as eager for their secrets as a monkey is for crayfish.”


The conceit of a found manuscript was a convention of the Platonic dialogue. Castiglione, for example, employs it for the “Book of the Courtier,” and it briefly occurred to me that Moulton’s account of finding a sensational text with an arcane publishing history written by a sex-crazed proto-Foucault was the conceit of a postmodern novel. In this case, it promises rather more in the way of esoteric revelation than the text delivers, partly because Sodo is such a dimwit, and partly because Vignali’s fable runs on raw nerve rather than imagination.


In a seventeenth-century history of the Intronati, Vignali was described as a “brilliant spirit” who “was accounted almost a monster because of his deformed body.” (The writer doesn’t specify the nature of the deformity.) He apparently fathered two legitimate sons, but extant documents make no mention of a wife. His work flaunts his preference for pliant youths of his own class. Homosexual camaraderie in general and man-boy love in particular flourished in Renaissance Tuscany, as it tends to in cultures that worship women’s purity by keeping them locked up. Moulton makes an interesting analogy between the “hyper-intellectual” machismo of Vignali and his circle and that of the (mostly) hyper-heterosexual Spanish artists of the nineteen-thirties, whose graphic forays into coprophilia and masturbation (Dali), priapism (Picasso), and perversity (Buñuel) were also part of a revolt against orthodox Catholicism, and an impulse to take refuge in absurdity and surrealism from an increasingly repressive and chaotic political climate. Intronato can mean “deaf” as well as “stunned” (though, with a little poetic license, one might also translate it as “stoned,” and the rambling tone of “La Cazzaria” leaves the impression that Vignali dashed it off in a state of intoxication). But the name, Moulton tells us, was an ironic reference to the spiritual battering that refined characters endure in periods of civic violence and instability. Siena’s independence was being menaced externally by the competing forces of the Hapsburg Empire and the Valois of France, and from within by the murderous intrigues among the five hereditary factions (monti) that ruled the Republic.


Despite the fact that his own noble family belonged to the preëminent Monte dei Nove, Vignali made them the villains of a parable that a less faithful translator might have been tempted to entitle “Genital Farm.” Drawing ironically upon accounts by Livy and Plutarch of a speech by the Roman senator Menenius Agrippa to a revolutionary mob (which Shakespeare, a little later, and without the irony, cribbed for a scene in Act I of “Coriolanus”), he dramatizes the internecine struggles that were wasting his city as a tale of warring body parts, though not the head, belly, and limbs of the classical version. Arsiccio describes to Sodo how the Big Cocks and their prideful consorts, the Beautiful Cunts, once formed a dominant party that tyrannized a coalition of the lesser-endowed: the Little Cocks and their allies, the Ugly Cunts and Assholes, whose plot for a democratic revolution was betrayed by the cowardly and opportunistic Balls. In the course of the fable, the victors reassert their mastery and wreak their revenge with the kind of atrocious violations that recent history has reclaimed from the realm of Sadean fantasy. But then, Arsiccio continues, at the urging of a wise if bloodthirsty seeress known as the Great Cunt of Modena, the vanquished negotiate their differences in a fraternal fashion, and strike back at their oppressors, who are, in turn, slaughtered or dispersed. “I will say this about the Big Cocks,” Modena concludes. “It is very possible they have taken refuge with some foreign power, from where, in a short time, seeing our discord, they may return to ruin and destroy each of us.” Her moral is a little vague, though it seems sound: the phallus represents power without a conscience; it cannot, therefore, be trusted; while it sometimes lies low, you can’t keep it down.

Vignali lived at a moment not without a certain cautionary relevance to the present, in which the avidity of a privileged generation shaking itself free from fundamentalism coexists with profound anxiety at the prospect of losing that insouciance to a dictatorship of the right-thinking. Rabelais and Aretino are probably the best known of the many pungent writers working in the same mode. They, as Moulton puts it, “revel in bodily functions, both sexual and digestive.” He also cites the poet Lorenzo Venier, the author of “La Puttana errante” (“The Wandering Whore”), and Niccolò Franco, whose political diatribes in verse employed “shocking, sexualized invective to attack their enemies.” “La Cazzaria,” he continues, “never mentions Machiavelli directly, but it is not hard to sense his influence” in the conception of the state both as a much violated woman and a “female body” of “abiding and unfathomable strength . . . which no man can completely control.”

Though Vignali is more extreme than the least inhibited of his contemporaries, and less artful and lucid than the greatest of them, he shares their rebellious impulse to subvert the sanctimony of pedants, the cruelty of the potent, the authority of patriarchs, and the prestige of virtue; to challenge the medieval dualism of mind and body; and to dose his readers with a bitter aphrodisiac grown in that fertile mire of carnal knowledge which, he believes, nourishes the blood of a secular body politic. “No matter how ugly and vulgar a thing is,” Arsiccio argues, “it is more ugly and vulgar” not to understand it. Almost three hundred years before Sade, Vignali conflates enlightenment with corruption, and, in one of the earliest and, it has to be said, most repellent test cases for free speech, he asserts a quintessential civil liberty, one that becomes more precious as it grows more fragile: the freedom to offend.


(http://www.newyorker.com/critics/books/?031208crbo_books1)


*


“Qual de le cose create è la più degna? Se tu vorrai rispondere saviamente, tu dirai: l’huomo; che sai che la sacra e la prophana scrittura vuol così. Hora sta forte: qual dunque è la più degna parte della Philosophia? Di necessità segue che sia quella parte che cerca le più degne cose, e così quella è posta intorno a la cognizione de l’huomo: conciosia dunque che questo huomo non possa essere senza il cazzo, come chiaro è, a forza bisogna mettere il cazzo per chiuder la potta e ‘l culo esser le prime cose che si denno imparare. Del mescolamento poi de la potta, del cazzo e del culo, ne segue la cognizione del fottere e del bugerare; e così si viene allargando la scienza”.

La poesia di Sylvia …

12 dicembre 2003

La poesia di Sylvia Plath: un inedito


(Senza titolo)



Mi sporgo verso il cielo


E potrei caderci se


Qui non mi reggessero


Le intelligenti briglie della mia identità,


Il dolce nauseante odore femminile


Dietro le opache tende d’un profumato


Boudoir – pallida luce arancio.


Lenta, accurata grazia – seduzione,


Ossessione, liquide secrezioni,


desiderio che rotea in flussi mensili,


Sorrisi imbellettati e labbra languide,


Occhi annebbiati e carne bianca. Altro


Non è che adipe, latte di linfa,


Grasso su seni e cosce e, dentro,


solo il serpente torto delle ovaie,


Il tessuto nervoso dell’utero,


Ricettivo sempre, colmo del fluido


Attivo d’una passione opposta, dopo


L’apice, droga ipnotica,


L’eterno ricordare, il curvarsi,


Rilassando le membra. I frutti passivi


D’una passione morta marciscono, crescono


Nell’addome. Ella si disfa


In una fragrante e tiepida pozza. Musica


Non c’è più dolce d’una traballante, cigolante


Carrozzina, del familiare


Odore della soffici feci brune indurite


Sui diaspri. Quanto in fretta si trasferisce


Il proprio Io a quello del bambino e, consolate


Da speranze e sogni vicari,


Volutamente si cede alla decadenza


Del corpo, all’eventuale passaggio


Della carne alla zolla, alla disintegrazione


Della mente, delle ghiandole creatrici di tutto


Quel che mai siamo state. Rido vedendo


Le gonnelline bianche, le fasce dorate,


Le luci rosse delle macchine, ferme


Lungo strade notturne, immerse nelle furtive


Tenebre – le labbra, sottili e pallide, piene e


Affamate, s’incontrano, si dissetano al


Cieco incendio. Amputate gli organi sessuali.



(tratto dal sito http://www.transference.org.uk/)

La poesia di Sylvia …

11 dicembre 2003

La poesia di Sylvia Plath: Favola delle ladre di rododendri

Passeggiavo per il giardino delle rose deserto
nel parco pubblico; a casa sentivo il bisogno
della presenza di una sola rosa per immaginare
tutte le altre nel rigoglio dei colori.

La testa di leone di pietra incassata nel muro
gocciolava la sua saliva di un verde pigro
nella vasca di pietra. Recisi
un bocciolo arancione, lo misi in tasca. Quando

ebbe aperto il suo arancione nel mio vaso
e regredì a paonazzo sfatto, ne scelsi uno rosso,
sgombrando la coscienza col dirmi che derubavo
il parco di meno rosso di quanto non facesse
l’appassire.

La fragranza muschiata mi allietava il naso, il rosso
l’occhio,
il velluto dei petali le dita:
riflettei sulla poesia che traevo in salvo
dall’aria cieca, da una completa eclissi.

Ma oggi, con un bocciolo giallo in mano,
mi sono arrestata agli schianti improvvisi
nel boschetto di alloro. Nessuno si avvicinava.
Uno spasimo ha afferrato i cespugli dei rododendri:

tre ragazze, intente, strappavano a bracciate
frasche
color ciliegia e rosa dai rododendri,
ammassandole su giornali distesi.
Coglievano sfrontate, non rallentate da alcun
rimorso.

E non hanno smesso sotto la mia occhiata severa.
Ma mi son chiesta poi, la mia rosa un’accusa,
che cosa si riduca a nulla: il furtarello di fronte alla
rapina
o la raffinatezza di fronte all’amore.

Il mestiere dell’edi…

11 dicembre 2003

Il mestiere dell’editor: Italo Calvino e Andrea De Carlo


Credo di avere cominciato a diventare scrittore leggendo, da bambino. È lì che  ho scoperto il piacere e il privilegio di staccare i contatti con il mondo che avevo intorno e andare altrove, in una dimensione più libera e vasta, dove le leggi del tempo e dello spazio non contano. Poco alla volta mi è venuta voglia di restarci sempre più  a lungo, e leggere non mi è bastato più. È stato allora che ho cominciato a trasformarmi da lettore in scrittore. Del resto, lo scrittore e il lettore sono ai due lati di una stessa attività, dove è molto difficile distinguere una parte attiva e una passiva come in altre forme di comunicazione. Treno di panna è il mio primo romanzo pubblicato, ma in realtà è il terzo che ho scritto. I primi due erano tentativi, iniziati senza l’ambizione di costruire un romanzo.
Semplicemente ero andato avanti pagina dopo pagina, finché mi ero trovato molto oltre i racconti brevi che scrivevo da quando ero al liceo. Poi ho scritto Treno di panna, e finalmente mi è sembrato di avere trovato un mio stile e una mia prospettiva, come uno si rende conto a un certo punto di avere trovato la sua voce. L’ho cominciato in inglese, perché allora vivevo a Los Angeles e lì si svolgeva la storia, poi sono tornato in Italia e l’ho ripreso da capo in italiano.  Ho provato a mandarlo ad alcuni editori, e nessuno mi ha  risposto, neanche con una lettera standard di rifiuto. Poi un amico mi ha suggerito di mandarlo a Italo Calvino, che oltre a essere un grande scrittore era uno dei consulenti della casa editrice Einaudi. Mi ricordo di questa conversazione in una casa di campagna vuota e arroventata nel mezzo dell’estate: l’idea che Calvino potesse leggere il mio libro e trovarlo interessante mi sembrava incredibilmente remota. Invece qualche mese dopo Calvino lo ha letto davvero. Ha anche scritto una quarta di copertina, dove diceva alcune cose vere su quello che stavo cercando di fare.


Se non ci fosse stato l’incontro con Italo Calvino, non credo che avrei continuato a scrivere. Scrivere senza avere qualcuno che poi legge è una delle attività più frustranti che esistano, credo che a lungo andare possa anche portare alla pazzia. Un libro senza lettori è molto peggio di un quadro non venduto, che può lo stesso essere appeso a un muro e guardato da chi passa. Un libro senza lettori è solo una pila di fogli inchiostrati chiusa in un cassetto, lo sfogo egocentrico e maniacale di chi l’ha scritto. Non ho mai creduto agli scrittori che dicono di scrivere solo per se stessi. Se uno scrive lo fa perché ha voglia di mettere in circolo le sue domande, ricevere risposte o altre domande, alimentare un circuito,
non sentirsi solo.

(Andrea De Carlo, tratto dal sito www.andreadecarlo.net)


 


*


 


La giovinezza è tante cose, anche una particolare acutezza dello sguardo che afferra e registra un enorme numero di particolari e sfumature; un’insaziabilità degli occhi che bevono lo spettacolo del mondo multicolore ingigantito come attraverso la lente d’un teleobbiettivo e lo depositano come frammenti miniaturizzati nella memoria. E’ questa la giovinezza che Andrea De Carlo racconta: la storia d’un ragazzo italiano piombato a Los Angeles non sa neanche lui perché e che cerca d’arrangiarsi con mestieri occasionali, è seguita attraverso tutto quello che capita nel raggio dei suoi occhi attenti e imperturbabili, ed è per questa via che ci è reso il suo procedere in un mondo estraneo muovendosi un po’ a caso e un po’ a decisioni improvvise, e i suoi rapporti con le ragazze e gli amici che si svolgono senza che egli si fermi a rifletterci sopra e a definirli.


Niente di più; se qualcosa traspare dei suoi pensieri sono solo sensazioni e reazioni immediate, di soddisfazione o di fastidio o di attrazione: la superficie della coscienza che sfiora un mondo tutto in superficie. Quel che c’è sotto, le motivazioni vere e le intenzioni ultime e i tormenti segreti, possiamo magari cercare di intuirli come per le persone che ci passano continuamente accanto nella vita.


Oggi ci imbattiamo spesso in una scrittura giovanile in cui domina lo sfogo degli stati d’animo, i rimescolamento interiore, il dramma esistenziale: nati da un’esigenza di sincerità assoluta questi testi di solito non ci dànno che un repertorio di clichés e di espressioni generiche: schemi verbali che nascondono più di quanto non esprimono. Andrea De Carlo è tutto il contrario: proiettato come è sul «fuori» non è escluso che egli riesca a farci intravedere qualcosa del «dentro». Forse perché sa correre il rischio di scoprire che «dentro» potrebbe esserci il vuoto; ma si tratterebbe comunque d’un vuoto tutto particolare, e il suo problema sarebbe sempre quello di darcene un’immagine precisa. Non a caso, Andrea De Carlo, prima di affrontare il romanzo, ha cercato di esprimersi con la fotografia; scrivendo sembra voler sostituire la penna all’obbiettivo fotografico; e la sua scrittura, lontana da ogni modello letterario, può richiamare alla mente i quadri dell’«iper-realismo» americano. La densità di concretezza delle sua Los Angeles nei paesaggi di freeways e di parcheggi, nei ristoranti italiani coi camerieri messicani, nelle ville delle dive del cinema, sconfina impercettibilmente nel senso d’irrealtà che invade le menti dominate dall’idea ossessiva della lotta per il successo.



 


Italo Calvino, quarta di Treno di panna, Einaudi, Torino, 1981

EVENTI Howard Marks…

7 dicembre 2003

EVENTI


Howard Marks


Giovedì 11 dicembre ore 15-18


Il Coordinamento Canapai presenta: Conferenza stampa-dibattito, presso la Facoltà di Scienze della Comunicazione


via Salaria 113

ore 21.00 Howard Marks incontra il csoa Forte Prenestino:
Baducata Etnica, Cabaret Antipro,Frees-co, Circo Metafisico, proiezione del video MDMA “siamo fatti cosi” di Polivisioni

Personaggi con il vo…

7 dicembre 2003

Personaggi con il volto: Howard Marks ovvero Mr Nice


L’AVVENTUROSA STORIA DI MR NICE
Mettete dell’erba nei vostri cannoni
Una vita per l’hashish, da Oxford a Kabul. E ora in libreria
di Alberto Dentice



Howard Marks-Mr Nice




Mr Nice è uno dei tanti pseudonimi utilizzati da Howard Marks, nei suoi trent’anni di sfolgorante carriera come trafficante di hashish e marijuana. Per la Dea (Drug enforcement agency), il dipartimento di droga degli Stati Uniti, Marks resta un pericoloso criminale. Ma per oltre 500 milioni di consumatori abituali di cannabis in tutto il mondo, è una specie di guru che ha fatto dello spinello un’arte, un combattente impegnato in prima linea sul fronte della battaglia per la legalizzazione delle droghe leggere.
Lo dimostra il successo internazionale riscosso dalla sua autobiografia, Mr Nice, uscita in Inghilterra nel 1997 e pubblicata adesso in Italia dalle Edizioni Socrates. E centinaia di conferenze spettacolo, affollate come un concerto rock, che il nostro tiene da anni in giro per il mondo. Mr Nice racconta le rocambolesche avventure di questo ex professore di fisica a Oxford, la sua iniziazione al fumo nella Swinging London degli anni ’60, la sua brillante carriera di trafficante di hashish per conto del M16, il servizio segreto di Sua Maestà britannica, e della Cia, fino all’arresto da parte della Dea e alla detenzione, per sette anni, in uno dei più duri penitenziari degli Usa.
Una carriera meravigliosamente fumata, quella di Marks, oggi un simpatico, affascinante 56enne con una faccia da rockstar di successo (è nato a Kenfing Hill, nel Galles). Era avviato a un brillante futuro accademico, proprio mentre in Inghilterra, tra il 1967 e il ’68, i Beatles e i Rolling Stones sfornavano l’adeguata atmosfera psichedelica alla contestazione studentesca. «Mi resi conto che quando ero sotto l’influenza della marijuana, le mie lezioni su Liebniz e Spinosa riuscivano meglio», scrive Marks, ricordando con ineffabile sense of humor la scoperta che in un certo qual modo gli fu fatale. Di lì a qualche anno, Marks divenne infatti non solo un indefesso fumatore di cannabis («L’unico deterrente al dilagare dell’eroina»), ma anche un esperto nei mille modi di trafficare hashish. Nascondendolo dentro gli speaker degli amplificatori di gruppi rock inglesi in tour negli Stati Uniti, stivato nei cargo provenienti dal Libano e dal Marocco, portato in aereo in valigia da funzionari diplomatici afghani, pakistani, nepalesi.
Non parliamo di chili, ma di quintali. Il colpo più grosso: un carico di 15 tonnellate di erba colombiana fatto arrivare a N. Y. Accumulando nel frattempo una fortuna valutata milioni di sterline e un numero impressionante di false identità: Mr Hugues, Albi, perfino Marco Polo. È sotto questo nome, come ricorda la biografia, che il Nostro operò a lungo, tra Pakistan e Afghanistan, con la copertura della Cia e dell’M16, per finanziare gli afghani contro l’invasore sovietico.
«Era chiaro che, a partire dall’84, l’hashish afghano rivenduto in Europa e Stati Uniti proveniva dai mujaheddin», rivela il libro. Seguendo le avventure di Mr Nice viene alla luce il diabolico intreccio tra il commercio clandestino dell’hashish, i servizi segreti, il traffico d’armi e perfino la mafia. Resta da chiedersi, dopo aver letto questa biografia, che fine hanno fatto i miliardi andati letteralmente “in fumo” in tutti questi anni.


(L’Espresso 13 dicembre 2001)


*


Cominciavo a essere a corto di passaporti, di quelli che avrei potuto usare. Intendevo andare a San Francesco, qualche settimana dopo, per ritirare parecchie centinaia di migliaia di dollari da qualcuno interessato a sfruttare le proprie conoscenze, sia con me che con un compiacente funzionario della dogana statunitense, che lavorava nel settore importazioni dell’aeroporto internazionale di San Francisco.
Alcuni anni prima ero stato dichiarato l’uomo più ricercato della Gran Bretagna, un trafficante di hashish con documentati legami con la mafia italiana, la Brotherhood of Eternal Love, l’Ira e i Servizi Segreti Britannici. Una nuova identità era vitale.

Personaggi con il vo…

3 dicembre 2003

Personaggi con il volto: Aldo Busi


 


D: Tra gli scrittori che l’hanno maggiormente ispirata, quali hanno influito sul suo stile, quali sulla sua poetica e quali sulla sue scelte di vita?


Busi: Scelte di vita, nessuno; adoro l’uomo Oscar Wilde per la sua assoluta generosità e coraggio, molto meno per i suoi scritti; sono stato un lettore onnivoro sin da piccolino (e i libri dovevo conquistarmeli nelle case altrui, perché nella mia c’era solo il «Calendario di frate Indovino»; non credo, però, che ci sia stato un solo italiano che abbia avuto su di me una qualche influenza, Lucrezio e Petronio e Marziale e Giovenale a parte (dicono alcuni miei critici anche Sallustio e Seneca, ma perchè li hanno letti loro, non io); ammiro Sterne, Flaubert, Rimbaud, Melville, Hawthorne, Cervantes, Proust (non tutto: lo ammiro troppo per ammirarlo tutto, non è necessario non trovare un difetto per essere sicuri di essere di fronte al genio); uno stile non si può mediare da nessuno, non è questione di nascita, di suggestione, di pedagogia, di cultura: direi che è lo stile del proprio sangue. Io ne ho uno, solo perché il mio sangue, come la mia testa, è mio, e questa è affermazione che calzerebbe per pochi altri (suvvia, sono poche le teste che non sono avvitate sul collo di un altro): dico grazie a tutti quelli che vi hanno contribuito (anche con le dovute malattie veneree, bruscolini), ma la memoria vera dello scrittore sta nella sua gratitudine a pari passo con il suo sistematico oblio. Non credo neppure di poter lasciare «nipotini», il mio stile è tale, non credo si possa imitare, perchè, di sintagma in sintagma, resta una meraviglia imprevedibile per me per primo.


Non stancatevi di leggermi, anzi, cominciate: almeno essere stati italiani per qualcosa!


Seminario sulla gioventù
incipit


«Che resta di tutto il dolore che abbiamo creduto di soffrire da giovani? Niente, neppure una reminiscenza. Il peggio, una volta sperimentato, si riduce col tempo ad un risolino di stupore, stupore di essercela presa per così poco, e anch’io ho creduto fatale quanto poi si è rivelato letale solo per la noia che mi viene a pensarci. A pezzi o interi non si continua a vivere ugualmente scissi? E le angosce di un tempo ci appaiono come mondi talmente lontani da noi, oggi, che ci sembra inverosimile aver potuto abitarli in passato».


Seminario sulla gioventù Ã¨ uscito nella nuova edizione dell’agosto 2003 completamente riveduta e accompagnata da una Postfazione dell’autore, da una Nota di Piero Bertolucci e dal Seminario sulla vecchiaia.


“Mi sono deciso a riscrivere Seminario sulla gioventù a quasi vent’anni dalla sua prima apparizione […] (anche) per stanchezza verso le migliaia di lettori non lettori che ne hanno decretato il trionfo […] continuando accanitamente a cercarvi un’autobiografia che non c’è mai stata”. C’è un atteggiamento sbagliato nel lettore non lettore che si sorprende interessato alla ricerca della veridicità (cosa mai sarà?) di ciò che leggono, che si impegna a cercare fra le parole corrispondenze a fatti realmente accaduti. Forse il non lettore è proprio chi di fronte a Cappuccetto Rosso chiude il libro perché un lupo non può parlare. Forse il non lettore è proprio chi di fronte alla menzogna dell’arte quasi si indigna perché pretende verità inesistenti. C’è una cosa che quei lettori dovrebbero rileggere. Quelle parole di Barbino a proposito di Henry de Montherlant: “E poi, temo che come uomo non m’interessi affatto. Sarebbe la prima volta che un artista interessante sia anche un uomo interessante.”