Il mestiere dell’edi…

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Il mestiere dell’editor: Italo Calvino e Andrea De Carlo


Credo di avere cominciato a diventare scrittore leggendo, da bambino. È lì che  ho scoperto il piacere e il privilegio di staccare i contatti con il mondo che avevo intorno e andare altrove, in una dimensione più libera e vasta, dove le leggi del tempo e dello spazio non contano. Poco alla volta mi è venuta voglia di restarci sempre più  a lungo, e leggere non mi è bastato più. È stato allora che ho cominciato a trasformarmi da lettore in scrittore. Del resto, lo scrittore e il lettore sono ai due lati di una stessa attività, dove è molto difficile distinguere una parte attiva e una passiva come in altre forme di comunicazione. Treno di panna è il mio primo romanzo pubblicato, ma in realtà è il terzo che ho scritto. I primi due erano tentativi, iniziati senza l’ambizione di costruire un romanzo.
Semplicemente ero andato avanti pagina dopo pagina, finché mi ero trovato molto oltre i racconti brevi che scrivevo da quando ero al liceo. Poi ho scritto Treno di panna, e finalmente mi è sembrato di avere trovato un mio stile e una mia prospettiva, come uno si rende conto a un certo punto di avere trovato la sua voce. L’ho cominciato in inglese, perché allora vivevo a Los Angeles e lì si svolgeva la storia, poi sono tornato in Italia e l’ho ripreso da capo in italiano.  Ho provato a mandarlo ad alcuni editori, e nessuno mi ha  risposto, neanche con una lettera standard di rifiuto. Poi un amico mi ha suggerito di mandarlo a Italo Calvino, che oltre a essere un grande scrittore era uno dei consulenti della casa editrice Einaudi. Mi ricordo di questa conversazione in una casa di campagna vuota e arroventata nel mezzo dell’estate: l’idea che Calvino potesse leggere il mio libro e trovarlo interessante mi sembrava incredibilmente remota. Invece qualche mese dopo Calvino lo ha letto davvero. Ha anche scritto una quarta di copertina, dove diceva alcune cose vere su quello che stavo cercando di fare.


Se non ci fosse stato l’incontro con Italo Calvino, non credo che avrei continuato a scrivere. Scrivere senza avere qualcuno che poi legge è una delle attività più frustranti che esistano, credo che a lungo andare possa anche portare alla pazzia. Un libro senza lettori è molto peggio di un quadro non venduto, che può lo stesso essere appeso a un muro e guardato da chi passa. Un libro senza lettori è solo una pila di fogli inchiostrati chiusa in un cassetto, lo sfogo egocentrico e maniacale di chi l’ha scritto. Non ho mai creduto agli scrittori che dicono di scrivere solo per se stessi. Se uno scrive lo fa perché ha voglia di mettere in circolo le sue domande, ricevere risposte o altre domande, alimentare un circuito,
non sentirsi solo.

(Andrea De Carlo, tratto dal sito www.andreadecarlo.net)


 


*


 


La giovinezza è tante cose, anche una particolare acutezza dello sguardo che afferra e registra un enorme numero di particolari e sfumature; un’insaziabilità degli occhi che bevono lo spettacolo del mondo multicolore ingigantito come attraverso la lente d’un teleobbiettivo e lo depositano come frammenti miniaturizzati nella memoria. E’ questa la giovinezza che Andrea De Carlo racconta: la storia d’un ragazzo italiano piombato a Los Angeles non sa neanche lui perché e che cerca d’arrangiarsi con mestieri occasionali, è seguita attraverso tutto quello che capita nel raggio dei suoi occhi attenti e imperturbabili, ed è per questa via che ci è reso il suo procedere in un mondo estraneo muovendosi un po’ a caso e un po’ a decisioni improvvise, e i suoi rapporti con le ragazze e gli amici che si svolgono senza che egli si fermi a rifletterci sopra e a definirli.


Niente di più; se qualcosa traspare dei suoi pensieri sono solo sensazioni e reazioni immediate, di soddisfazione o di fastidio o di attrazione: la superficie della coscienza che sfiora un mondo tutto in superficie. Quel che c’è sotto, le motivazioni vere e le intenzioni ultime e i tormenti segreti, possiamo magari cercare di intuirli come per le persone che ci passano continuamente accanto nella vita.


Oggi ci imbattiamo spesso in una scrittura giovanile in cui domina lo sfogo degli stati d’animo, i rimescolamento interiore, il dramma esistenziale: nati da un’esigenza di sincerità assoluta questi testi di solito non ci dànno che un repertorio di clichés e di espressioni generiche: schemi verbali che nascondono più di quanto non esprimono. Andrea De Carlo è tutto il contrario: proiettato come è sul «fuori» non è escluso che egli riesca a farci intravedere qualcosa del «dentro». Forse perché sa correre il rischio di scoprire che «dentro» potrebbe esserci il vuoto; ma si tratterebbe comunque d’un vuoto tutto particolare, e il suo problema sarebbe sempre quello di darcene un’immagine precisa. Non a caso, Andrea De Carlo, prima di affrontare il romanzo, ha cercato di esprimersi con la fotografia; scrivendo sembra voler sostituire la penna all’obbiettivo fotografico; e la sua scrittura, lontana da ogni modello letterario, può richiamare alla mente i quadri dell’«iper-realismo» americano. La densità di concretezza delle sua Los Angeles nei paesaggi di freeways e di parcheggi, nei ristoranti italiani coi camerieri messicani, nelle ville delle dive del cinema, sconfina impercettibilmente nel senso d’irrealtà che invade le menti dominate dall’idea ossessiva della lotta per il successo.



 


Italo Calvino, quarta di Treno di panna, Einaudi, Torino, 1981

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