La poesia di Sylvia Plath: Favola delle ladre di rododendri
Passeggiavo per il giardino delle rose deserto
nel parco pubblico; a casa sentivo il bisogno
della presenza di una sola rosa per immaginare
tutte le altre nel rigoglio dei colori.
La testa di leone di pietra incassata nel muro
gocciolava la sua saliva di un verde pigro
nella vasca di pietra. Recisi
un bocciolo arancione, lo misi in tasca. Quando
ebbe aperto il suo arancione nel mio vaso
e regredì a paonazzo sfatto, ne scelsi uno rosso,
sgombrando la coscienza col dirmi che derubavo
il parco di meno rosso di quanto non facesse
l’appassire.
La fragranza muschiata mi allietava il naso, il rosso
l’occhio,
il velluto dei petali le dita:
riflettei sulla poesia che traevo in salvo
dall’aria cieca, da una completa eclissi.
Ma oggi, con un bocciolo giallo in mano,
mi sono arrestata agli schianti improvvisi
nel boschetto di alloro. Nessuno si avvicinava.
Uno spasimo ha afferrato i cespugli dei rododendri:
tre ragazze, intente, strappavano a bracciate
frasche
color ciliegia e rosa dai rododendri,
ammassandole su giornali distesi.
Coglievano sfrontate, non rallentate da alcun
rimorso.
E non hanno smesso sotto la mia occhiata severa.
Ma mi son chiesta poi, la mia rosa un’accusa,
che cosa si riduca a nulla: il furtarello di fronte alla
rapina
o la raffinatezza di fronte all’amore.
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