3, degli editori
A Roma tutto ha un prezzo
Giovenale, Satire
3, degli editori
A Roma tutto ha un prezzo
Giovenale, Satire
Senti chi parla 2…
Bisogna essere assolutamente moderni
Arthur Rimbaud, Una stagione all’inferno
Senti chi parla…
Bisogna prendere speciali precauzioni contro la malattia dello scrivere, perché è un male pericoloso e contagioso
Abelardo, Lettere a Eloisa
Geometrie e forme e determinazioni
Nel pensare succede lo stesso fenomeno che nel disegnare una figura geometrica: qui, benché non ci occorra un triangolo di grandezza determinata, tuttavia lo tracciamo di una grandezza determinata: similmente, chi pensa, anche se non pensa una cosa di quantità determinata, se la pone davanti agli occhi come una quantità , ma la pensa non in quanto quantità .
(Aristotele, De memoria et reminiscentia)
Portami il girasole ch’io lo trapianti
nel mio terreno bruciato dal salino,
e mostri tutto il giorno agli azzurri specchianti
del cielo l’ansietà del suo volto giallino.
Tendono alla chiarità le cose oscure,
si esauriscono i corpi in un fluire
di tinte: queste in musiche. Svanire
è dunque la ventura delle venture.
Portami tu la pianta che conduce
dove sorgono bionde trasparenze
e vapora la vita quale essenza;
portami il girasole impazzito di luce.
E. Montale
Il mondo di Munch e’ anche il mio mondo, oggi
Conosco quelle piccole frasi che hanno l’aria di niente e che, una volta consentite, vi possono appestare tutta una lingua.
(Samuel Beckett, Malone muore)
*
Hanno bocca ma non parlano,
hanno occhi ma non vedono,
hanno orecchie ma non odono,
hanno naso ma non odorano,
hanno mani ma non palpano,
hanno piedi ma non camminano,
la loro gola non emette alcun suono.
(Salmi 115, 5-7)
Continuando a perdersi…
Il palazzo di Atlante
Ludovico Ariosto, L’Orlando Furioso, Canto dodicesimo
8
Di vari marmi con suttil lavoro
edificato era il palazzo altiero.
Corse dentro alla porta messa d’oro
con la donzella in braccio il cavalliero.
Dopo non molto giunse Brigliadoro,
che porta Orlando disdegnoso e fiero.
Orlando, come è dentro, gli occhi gira;
né più il guerrier, né la donzella mira.
9
Subito smonta, e fulminando passa
dove più dentro il bel tetto s’alloggia:
corre di qua, corre di là , né lassa
che non vegga ogni camera, ogni loggia.
Poi che i segreti d’ogni stanza bassa
ha cerco invan, su per le scale poggia;
e non men perde anco a cercar di sopra,
che perdessi di sotto, il tempo e l’opra.
10
D’oro e di seta i letti ornati vede:
nulla de muri appar né de pareti;
che quelle, e il suolo ove si mette il piede,
son da cortine ascose e da tapeti.
Di su di giù va il conte Orlando e riede;
né per questo può far gli occhi mai lieti
che riveggiano Angelica, o quel ladro
che n’ha portato il bel viso leggiadro.
11
E mentre or quinci or quindi invano il passo
movea, pien di travaglio e di pensieri,
Ferraù, Brandimarte e il re Gradasso,
re Sacripante ed altri cavallieri
vi ritrovò, ch’andavano alto e basso,
né men facean di lui vani sentieri;
e si ramaricavan del malvagio
invisibil signor di quel palagio.
12
Tutti cercando il van, tutti gli dà nno
colpa di furto alcun che lor fatt’abbia:
del destrier che gli ha tolto, altri è in affanno;
ch’abbia perduta altri la donna, arrabbia;
altri d’altro l’accusa: e così stanno,
che non si san partir di quella gabbia;
e vi son molti, a questo inganno presi,
stati le settimane intiere e i mesi.
13
Orlando, poi che quattro volte e sei
tutto cercato ebbe il palazzo strano,
disse fra sé: – Qui dimorar potrei,
gittare il tempo e la fatica invano:
e potria il ladro aver tratta costei
da un’altra uscita, e molto esser lontano. –
Con tal pensiero uscì nel verde prato,
dal qual tutto il palazzo era aggirato.
Uomini fatti sterpi
Eneide, libro III
[â¦] Era nel lito
un picciol monticello, a cui sorgea
di mirti in su la cima e di corniali
una folta selvetta. In questa entrando
per di fronde velare i sacri altari,
mentre deâ suoi piú teneri e piú verdi
arbusti or questo, or quel diramo e svelgo;
orribile a veder, stupendo a dire,
mâapparve un mostro: ché, divelto il primo
da le prime radici, uscîr di sangue
luride gocce, e ne fu âl suolo asperso.
Ghiado mi strinse il core; orror mi scosse
le membra tutte; e di paura il sangue
mi si rapprese. Io le cagioni ascose
di ciò cercando, un altro ne divelsi;
ed altro sangue uscinne: onde confuso
vie piú rimasi; e nel mio cor diversi
pensier volgendo, or de lâagresti ninfe,
or del scitico Marte i santi numi
adorando, porgea preghiere umÃli,
che di sà fiera e portentosa vista
mi si togliesse, o si temprasse almeno
il diro annunzio. Ritentando ancora,
vengo al terzo virgulto, e con piú forza
mentre lo scerpo, e i piedi al suolo appunto,
e lo scuoto e lo sbarbo (il dico, o âl taccio?),
un sospiroso e lagrimabil suono
da lâimo poggio odo che grida e dice:
“Ahi! perché sà mi laceri e mi scempi?
Perché di cosà pio, cosà spietato,
Enea, vèr me ti mostri? A che molesti
un châè morto e sepolto? A che contamini
col sangue mio le consanguinee mani?
Ché né di patria, né di gente esterno
son io da te; né questo atro liquore
esce da sterpi, ma da membra umane.
Ah! fuggi, Enea, da questo empio paese:
fuggi da questo abbominevol lito:
ché Polidoro io sono, e qui confitto
mâha nembo micidiale, e ria semenza
di ferri e dâaste che, dal corpo mio
umor preso e radici, han fatto selva”.
A cotal suon, da dubbia téma oppresso,
stupii, mi raggricciai, muto divenni,
di Polidoro udendoâ¦
Divina Commedia, Inferno XIII (16-63)
E âl buon maestro «Prima che più entre,
sappi che seâ nel secondo girone»,
mi cominciò a dire, «e sarai mentre
che tu verrai ne lâorribil sabbione.
Per riguarda ben; sì vederai
cose che torrien fede al mio sermone».
Io sentia dâogne parte trarre guai,
e non vedea persona che âl facesse;
per châio tutto smarrito mâarrestai.
Credâio châei credette châio credesse
che tante voci uscisser, tra quei bronchi
da gente che per noi si nascondesse.
Però disse âl maestro: «Se tu tronchi
qualche fraschetta dâuna dâeste piante,
li pensier câhai si faran tutti monchi».
Allor porsi la mano un poco avante,
e colsi un ramicel da un gran pruno;
e âl tronco suo gridò: «Perché mi schiante?».
Da che fatto fu poi di sangue bruno,
ricominciò a dir: «Perché mi scerpi?
non hai tu spirto di pietade alcuno?
Uomini fummo, e or siam fatti sterpi:
ben dovrebbâesser la tua man più pia,
se state fossimo anime di serpi».
Come dâun stizzo verde châarso sia
da lâun deâcapi, che da lâaltro geme
e cigola per vento che va via,
sì de la scheggia rotta usciva insieme
parole e sangue; ondâio lasciai la cima
cadere, e stetti come lâuom che teme.
«Sâelli avesse potuto creder prima»,
rispuose âl savio mio, «anima lesa,
ciò câha veduto pur con la mia rima,
non averebbe in te la man distesa;
ma la cosa incredibile mi fece
indurlo ad ovra châa me stesso pesa.
Ma dilli chi tu fosti, sì che ân vece
dâalcunâammenda tua fama rinfreschi
nel mondo sù, dove tornar li lece».
E âl tronco: «Sì col dolce dir mâadeschi,
châiâ non posso tacere; e voi non gravi
perchâio un poco a ragionar mâinveschi.
Io son colui che tenni ambo le chiavi
del cor di Federigo, e che le volsi,
serrando e diserrando, sì soavi,
che dal secreto suo quasi ognâuom tolsi:
fede portai al glorioso offizio,
tanto châiâ ne perdeâ li sonni e â polsi.
Cerchi nell’arte
Nino Cordio
La poesia fragile e istantanea delle foglie e della frutta