La poesia di Sylvia Plath
Medusa
Al largo di quella lingua di petrosi tappabocca,
occhi roteati da bacchette bianche,
orecchie che sono coppa alle incoerenze del mare,
tu alberghi la tua testa spaventosa: palla-Dio,
lente di compassione,
con i tuoi accoliti
che agitano le loro cellule impazzite allâombra della mia chiglia
e arrancano come cuori,
rosse stigmate nel centro esatto,
fluttuando nella corrente fino al più vicino punto di partenza,
trascinando le loro chiome nazarene.
Ce lâavrò fatta a fuggire?
La mia mente si rivolge a te
Vecchio ombelico incrostato, cavo transatlantico,
che si mantiene, pare, in miracoloso stato di conservazione.
In ogni caso sei sempre là ,
tremulo respiro allâaltro capo del mio filo,
curva dâacqua che balza in alto
incontro alla mia canna, abbagliante e grata,
e tocca e succhia.
Non ti avevo chiamata,
non ti avevo chiamata affatto.
E invece, invece,
solcando il mare sei venuta fino a me,
grassa e rossa, una placenta
che paralizza lo scalciare degli amanti.
Luce di cobra
che spreme il fiato dalle campanule sanguigne
della fucsia. Io non riuscivo a prendere fiato,
morta e squattrinata,
sovraesposta, come una radiografia.
Ma chi ti credi di essere?
Unâostia della Comunione? Maria piagnona?
Non toccherò un boccone del tuo corpo,
bottiglia in cui vivo,
orrido Vaticano.
Ne ho fino alla nausea di sale bollente.
Verdi come eunuchi, i tuoi desideri
sibilano contro i miei peccati.
Via, via, tentacolo anguillesco!
Non câè niente tra noi.
16 ottobre 1962