Welles e i magnifici Amberson
“Era mago nel senso più autentico del termine, affascinato da giochi di prestigio, illusioni ottiche, contraffazioni, labirinti e specchi che riflettono altri specchi. Era un maestro nel vedere cose che gli altri non riuscivano neppure a scorgere”. Le parole di Gore Vidal, amico intimo e autore di uno splendido necrologio uscito per la prima volta nel 1989 sulla New York Review of Books, disegnano perfettamente l’ironia amara del “mago” Welles, morto all’età di 77 anni per un attacco cardiaco.
Era il 10 ottobre del 1985. Oggi a vent’anni dalla scomparsa, per celebrare il genio mai troppo celebrato di Orson Welles, escono due libri preziosi: It’s all true. Interviste sull’arte del cinema (minimum fax, a cura di Serafino Murri e postfazione di Gore Vidal) e I magnifici Amberson di Booth Tarkington del 1919 (Fandango, nella traduzione di Martina Testa e Adelaide Cioni), il romanzo da cui il regista ha tratto l’omonimo capolavoro (da noi L’orgoglio degli Amberson).
Questo film segnò una svolta decisiva nella tormentata carriera del regista ventiseienne. Welles, che aveva diretto e interpretato Quarto potere e “inventato” la radio, cominciò a essere vittima di dannose interferenze da parte di dirigenti e produttori, e lo rimase per tutta la sua lunga e difficoltosa carriera. Al tempo degli Amberson la casa di produzione Rico era in brutte acque e, temendo un possibile nuovo insuccesso commerciale, obbligò Welles ad andare in Sud America a girare un documentario e prese il controllo della pellicola. Il risultato fu un taglio selvaggio di oltre 50 minuti di girato, mentre alcune scene vennero rigirate o sostituite a quel che restava della prima versione, compreso il forale, che era la scena preferita dal regista e l’unica diversa dal romanzo.
“Loro distrussero gli Amberson, e quel film distrusse me”, dice Welles a Leslie Megahey della Bbc nel 1982. “Non mi sono più ripreso da quell’attacco. Mi avevano promesso che quando fossi andato in Sud America mi avrebbero mandato una moviola e dei montatori, e che avrei potuto finire di montare gli Amberson lì. Ma non lo fecero mai. Lo montarono loro. Non ebbi più un ingaggio come regista per anni”. “Mentre mi trovavo in Sud America”, continua Welles, “tutti a Hollywood pensavano che fossi troppo ‘pessimista’, una parola in voga nella Hollywood di quei tempi. Pessimista. Così tagliarono tutto, ma lo scopo del film era proprio mostrare come tutti i personaggi andavano a rotoli in un modo o nell’altro”.
Nonostante tutto, L’orgoglio degli Amberson rimane un film sublime. Anche se non avremo mai modo di sapere come sarebbe stato il film montato da Welles, visto che le copie del primo girato sono andate perdute, possiamo leggere il romanzo amato dal regista. Premio Pulitzer nel 1924 e best seller negli Stati Uniti, I magnifici Amberson, “è scritto in una lingua ricca e antica che ricorda i passi migliori dell’Edith Wharton dell’Età dell’innocenza”, dice lo scrittore Edoardo Nesi, autore della prefazione al libro, “ed è screziato da una nostalgia struggente per un Ottocento passato e romantico e infinitamente migliore di quel Novecento dei Lumi che stava arrivando”.
Ma perché il romanzo di Tarkington era così amato dal giovane Welles? Per Nesi si tratta soprattutto di un motivo pratico: “Welles conosceva bene il romanzo e di certo lo amava molto, tanto che ne aveva già fatto una riduzione radiofonica. Reduce dal successo – di critica, non finanziario – di Quarto potere gli viene offerto il contratto per un film e deve farlo velocemente, perciò decide di utilizzare qualcosa che conosceva”. Per altri ci sarebbe una forte componente autobiografica: il padre di Welles, come il padre del protagonista del romanzo, è un costruttore di automobili. “Mio padre era anche un grande amico di Booth Tarkington”, racconta Welles. “Quindi c’è uno stretto legame tra quel film e mio padre”. Ma parlare di autobiografismo per Orson Welles è un’operazione inutile, e anche pericolosa. Quello che conta e che continua a sorprenderci è la sua voce imperiosa, geniale, unica. Tanto che Gore Vidal s’immagina di chiamare il numero telefonico e di sentire la sua voce che gli rintrona nell’orecchio dall’al di là. “Ho una fantasia ricorrente: se si provasse a chiamare il numero telefonico di qualcuno nel passato, si ascolterebbe di nuovo una voce familiare. Ho ancora il numero di Orson nel la mia agenda (213-851-8458)… La vita nell’aldilà è a distanza di un numero telefonico. ‘Cosa ti fa pensare che questa sia la vita dell’aldilà?’, dice Orson ridacchiando. ‘È una conversazione registrata’”. Il mago Orson e i suoi giochi di prestigio.
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Valentina Pigmei, Specchio