Archive for ottobre 2005

26 ottobre 2005

La calma trepidante di Veronesi

Caos calmo, come s’intitola il foltissimo romanzo di Sandro Veronesi, ha un innesco brillante. Non mi riferisco tanto all’antefatto ma a quello che diventa, subito dopo, nodo centrale e insieme cornice del libro. Questo Pietro Paladini, manager di una grande multinazionale, trovandosi su una spiaggia del Tirreno dove ha fatto surf, si tuffa per salvare, a rischio della vita, una donna travolta dalle onde. Si dà il caso che, mentre si prodiga per una sconosciuta, sua moglie Laura muoia per un imprevedibile incidente. Il trauma e un inconfessato senso di colpa inducono Paladini a riversare tutte le sue cure sulla figlioletta Claudia. In modo così esclusivo da diventare oggetto di compassionevole riguardo. Per mesi infatti accompagna la figlia a scuola e sta per tutto il tempo delle lezioni ad aspettarla, accanto alla macchina, salutandola quando si affaccia alla finestra durante la ricreazione. (Questa la più felice trovata del romanzo). […] Un affetto che si rivela morboso nella misura in cui cerca di ottundere dolore contro dolore, di sublimare, attraverso l’esibita protezione di lei, una reale incapacità di soffrire, una sostanziale immaturità. Sarà quella bambina di dieci anni a rovesciare il gioco, smascherando il padre che, con l’aria di soccorrerla, ha fatto di lei un protettivo feticcio. […] Il Caos calmo del titolo […] è quello naturale dei bambini, caratterizzato da una fiduciosa irruenza e compostezza, da una serenità che soltanto il confronto con le durezze della vita riuscirà a turbare. Può essere la finta, colpevole tranquillità dei padri che non vogliono crescere e stornano lo sguardo dal tumulto della vita. È, in termini più generali, l’urgenza del dolore e del male che preme sotto la superficie di esistenze apparentemente placate. Questo per dare l’idea di un romanzo in cui è evidente il tessuto concettuale ma che non rinuncia al piacere, […], del raccontare: la rapidità dei dialoghi, la fluidità del monologo interiore, il taglio netto dei personaggi. Mi piace segnalare in particolare le impuntature che introducono il sollievo di un respiro nell’afoso squallore morale, il distacco da un mondo parossisticamente votato al successo, e al superfluo: lo spazio esorbitante concesso alla cura del corpo, alla cultura della canzone e del cinema, alle superstizioni dell’elettronica. […]

Lorenzo Mondo, Tutto libri, La Stampa, sabato 22 ottobre 2005

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26 ottobre 2005

Siamo per te come creature perdute

Ti saluto, incantatrice e amica degli incantatori! Amica dei solitari, amica degli eroi, amica degli amanti. Amica dei buoni e dei malvagi. Complice di misteri notturni. Dimmi: dove c’è complicità non c’è forse già qualcosa che va al di là del semplice «sapere»? Ricordo bene le ore in cui il tuo volto appariva, grande e terribile, alla finestra. La tua luce cadeva nella stanza come quella spada che, appena sguainata, paralizza spettrale ogni movimento. Quando ti levi sulle vaste pietraie ci vedi intorpiditi nel sonno, stretti gli uni agli altri, cerei in volto, simili alle infinite crisalidi bianche sopite negli angoli e nei cunicoli di città formicaio, mentre il vento notturno vaga per le grandi foreste di abeti. Non siamo per te come creature sperdute negli abissi marini, e ancora più remote di esse? Sprofondata in un abisso mi sembrava anche la mia piccola stanza in cui mi ero alzato sul letto, immerso in una solitudine troppo profonda perché esseri umani potessero spezzarla. Mute e immobili le cose apparivano nella luce estranea come creature marine scorte sul fondo sotto un tappeto di alghe. Non sembravano enigmaticamente mutate? E non è la metamorfosi la maschera dietro cui si nasconde il mistero della vita e della morte?

Ernst Jünger, Lettera dalla Sicilia all’uomo nella luna, in Foglie e pietre


Che fai tu, luna, in ciel? dimmi, che fai,
silenziosa luna?
Sorgi la sera, e vai,
contemplando i deserti; indi ti posi.
Ancor non sei tu paga
di riandare i sempiterni calli?
Ancor non prendi a schivo, ancor sei vaga
di mirar queste valli? […]
Pur tu, solinga, eterna peregrina,
che sì pensosa sei, tu forse intendi,
questo viver terreno,
il patir nostro, il sospirar, che sia;
che sia questo morir, questo supremo
scolorar del sembiante,
e perir dalla terra, e venir meno
ad ogni usata, amante compagnia.
E tu certo comprendi
il perché delle cose, e vedi il frutto
del mattin, della sera,
del tacito, infinito andar del tempo. […]

Giacomo Leopardi, Canto notturno di un pastore errante dell’Asia

25 ottobre 2005

Caldo il ritmo, calde le parole di Ferlinghetti

per chi non avesse avuto occasione di leggere la repubblica del 13 ottobre. tempo fa lawrence ferlinghetti era stato a brescia per un reading che aveva enusiasmato il sindaco della città, paolo corsini. grande successo per l’ultimo esponente della beat generation, ma un rimpianto: non aver avuto tempo per visitare i luoghi d’origine della propria famiglia. tornato in italia all’inizio di ottobre per partecipare a un incontro a trento, ferlinghetti approfitta per farsi accompagnare in via cossere, nel centro di brescia, per vedere la casa dove il padre carlo aveva vissuto per alcuni anni insieme a clemence albertine mendes-monsanto. ferlinghetti suona un po’ a caso ai citofoni del civico 20, con la speranza che qualcuno gli apra. una signora anziana esce, lui prova a spiegarsi ma quella non capisce. il portone si richiude. ferlinghetti, deluso, si consola scattando qualche fotografia. ma la signora lo controlla dalla finestra e, insospettita, chiama la polizia. nel giro di dieci minuti arrivano gli agenti, fanno qualche domanda, chiedono i documenti. l’ottantaduenne poeta americano (ma loro non lo sanno, non lo conoscono) è in italia da otto giorni e non ne ha dato comunicazione ufficiale a nessuno. inflessibili, nel rispetto della legge bossi-fini, i poliziotti, come dicono i cronisti di nera, fanno scattare le manette. soltanto l’intervento del sindaco corsini risolverà, qualche ora dopo, l’equivoco. clandestino. abbiamo rischiato di espellere ferlinghetti perché clandestino.

23 ottobre 2005

L’occhio di un piccolo dio

Sono d’argento e rigoroso. Non ho preconcetti.
Qualunque cosa io veda lo ingoio all’istante
così com’è, non velato da amore o da avversione.
Non sono crudele, sono solo veritiero—
L’occhio di un piccolo dio, quadrangolare.
Passo molto tempo a meditare sulla parete di fronte.
È rosa e macchiettata. La guardo da tanto tempo
che credo faccia parte del mio cuore. Ma c’è e non c’è.
Facce e buio si separano ripetutamente.
Ora sono un lago. Una donna si china su di me,
cercando di scoprire in me ciò che realmente è.
Poi si volge a quelle bugiarde, alle candele o alla luna.
Vedo la sua schiena e la rifletto fedelmente.
Lei mi ricompensa con lacrime e un agitare di mani.
Sono importante per lei. Va e viene.
Ogni mattina è sua la faccia che prende il posto del buio.
In me ha annegato una ragazza e in me una vecchia
sale verso di lei giorno dopo giorno come un pesce tremendo.

Sylvia Plath, Specchio, 1961

20 ottobre 2005

Panorama della letteratura italiana contemporanea

«Il Rinascimento è in panne» titolava una settimana fa Le Figaro Litteraire. Con la domanda a seguire: «E se dopo Alberto Moravia, Elsa Morante, Carlo Levi non ci fosse più una letteratura italiana?» E in un articolo il più italiano degli scrittori francesi, Dominique Fernandez, diceva: «La letteratura? Che vuoto, che disastro, dopo la raccolta favolosa dei Pavese, Vittorini, Moravia, Elsa Morante, Calvino, Pasolini, Sciascia, Bassani, Carlo Levi, Primo Levi». Insomma, l’Italia, letterariamente parlando, è tornata a essere una terra di morti? «Via, non esageriamo, il quadro non è così sinistro come dice Fernandez» risponde in un bell’italiano Klaus Wagenbach, 75 anni, fondatore nel 1964 della casa editrice («indipendente» sottolinea) che porta il suo nome, quella che fin dagli inizi nel 1964 si dette daffare per tradurre e far conoscere i nuovi scrittori italiani.  «Oggi c’è Cavazzoni, Celati, Scarpa, Nove. Pochi forse, ma è un fatto normale. È un punto di vista giornalistico, o infantile, quello di pretendere ogni anno la nascita di un nuovo genio. Senza dubbio fu un grande periodo letterario quello di Gadda, Vittoriani, Calvino, ma si deve avere un po’ di pazienza. Anche in Germania è successo lo stesso, ci sono stati due periodi molto fecondi, fra il 1910 e il 1929, da Kafka a Brecht, e quello dal 1959 ai primi anni ’70, Grass, Uwe Johnson fino a Peter Schneider […]».

Ranieri Polese, Il Corriere della Sera, 20 ottobre 2005, pag. 45

20 ottobre 2005

Dove le luci sono sempre accese

L’ospedale, che per tutti e tre è una scoperta, è un paese strano dove le luci non si spengono mai. Tutto è immerso in una luminosità diffusa, al neon. Il sole non sorge e non tramonta. Le porte delle camere sono bucate, c’è un vetro per sorvegliare il sonno dei bambini dominato dalle veilleuse. Pauline impara insieme a noi le regole della sua nuova vita. La neve non è ancora sciolta del tutto. Un certo freddo ne serba le tracce sopra Parigi. La mattina presto, nel buio, attraversiamo il fiume sporco e rappreso del viale. La via è breve, familiare. Passiamo sotto le arcate grigie della metropolitana di superficie, in preda alla deriva ghiacciata del dolore, senza certezze. Risaliamo rue de Sèvres e penetriamo in quella geometria di cubi e mattoni. Gli ospedali sono città segrete ripiegate su sé stesse. Si passa senza vederli perché sono nascosti, come la malattia e la morte agli occhi dei vivi. Si circondano di cancellate, giardini, mura. Scavano attorno a sé un astratto fossato che li isola. O magari è il mondo a proteggersi così, simbolicamente, dal contagio del male?

Philippe Forest, Tutti i bambini tranne uno


Luci potenti, nette. Lampade alogene di un bianco abbagliante. Bianco che scintilla sulle superfici ghiacciate dei tavoli operatori, sui macchinari, sulle pareti nude, sugli strumenti posati nelle conche di metallo. Sulle mattonelle del pavimento. Non c’è nessuna finestra. La luce non deve poter cambiare. Non ci sono variabili d’atmosfera qua dentro. Anche la temperatura è mantenuta costante da un impianto di condizionamento computerizzato. […] Nessun altro posto al mondo può darmi la stessa sensazione di oggettiva perfezione, di calma sottratta al tempo. La verità è qua dentro, non altrove. La sera, uscire di qui e tornare a casa, è precipitare di nuovo nel buio, nella mancanza di senso della vita normale. Nel suo caos asintattico e disperante. Un caos in cui non c’è alcun principio regolatore, in cui io non ho il minimo potere. Tutto quello che capisco e tutto quello che so di saper fare, prende senso soltanto qui, in ospedale.

Simona Vinci, La ragazza angelo

18 ottobre 2005

Dove poggiano i castelli di Rilke

il castello nuovo di duino aurisina, che sopra uno sperone di roccia domina il mare adriatico nei pressi di trieste, era un tempo di proprietà dei principi di thurn und taxis. qui, ospite dei principi nel 1912, rainer maria rilke, dopo un lungo periodo di secchezza, come lo definì lui stesso, compose il ciclo di elegie che da questo luogo prendono nome, le elegie duinesi. in realtà a duino rilke completò soltanto la prima e la seconda elegia e compose l’inizio della terza, della sesta, della nona e della decima. completerà le elegie iniziate a duino e comporrà le altre tra parigi, ronda, in andalusia, e muzot, nel vallese, fra il 1913 e il 1922. un vero tour della poesia, che si concluderà con la pubblicazione dell’opera nel 1923. e forse non è un caso che l’ottava elegia duinese si concluda con questi versi: "ma chi ci ha rigirati così / che qualsia quel che facciamo / è sempre come fossimo nell’atto di partire? come / colui che sull’ultimo colle che gli prospetta per una volta ancora / tutta la sua valle, si volta, si ferma, indugia-, / così viviamo per dir sempre addio". la traduzione è quella di enrico e igea de portu, tratta dall’edizione einaudi, collezione di poesia, 1978.

16 ottobre 2005

Di fronte al mare amaro

Verde ramo libero
da ritmo ed uccelli.
Eco di singhiozzo
senza dolore né labbro.
Uomo e Bosco.
Piango
di fronte al mare amaro.
Nelle mie pupille
due mari che cantano!

Federico García Lorca, Lo specchio ingannevole

15 ottobre 2005

Evola le catene magiche le faceva per davvero

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Julius Evola, Cartolina postale indirizzata a sconosciuto, 1927

15 ottobre 2005

Dove sulla punta del presente

Beata la notte che non finisce.
Immensamente assopiti, beati.
Caldi corpi siamo fioriti nel giorno,
nel tempo dell’angustia rinsecchiti.
Nel numeroso non spargiamo di più gioia
in un solo luogo, paterno, amiamo dimorare.
Dove deporremo l’amore
qui, sulla terra, la nostra fedeltà?
Il passato è irrevocabile
sulla punta del presente barcolliamo.

Novalis, Inni alla notte, VI