Una polemica asburgica
inutile dire che sono completamente d’accordo con la posizione espressa da claudio magris nel suo articolo sul corriere della sera di martedì scorso. cioè che la dittatura del bestseller, denunciata tempo fa dall’agente andrew wylie, non debba in alcun modo inficiare la netta e necessaria separazione tra valore e successo di un’opera letteraria. perché, checché se ne dica (e purtroppo neanche magris ha il coraggio di scriverlo a chiare lettere), il valore letterario è una categoria oggettiva, fondata per gran parte su coefficienti di carattere tecnico, e poi sulla capacità o meno di un’opera di rappresentare in profondità i meccanismi sociali. tutto questo per quanto trovi piuttosto retorico dedicare un’arringa al tema, e un po’ pedante magris quando abbandona il terreno della narrazione e si cimenta nella teoria della letteratura. di questo articolo, però, restano alcune perle che vale la pena di sottolineare, come la definizione che magris dà del codice da vinci, "polpettone pretenzioso", che ci libera finalmente dall’imbarazzo di dover articolare, di fronte a lettori entusiasti e ammirati, la nostra sterile critica al libro. d’ora in poi, con aria di chi la sa lunga, e agitando la mano a scacciare l’aria come una vecchia signora irritata, pronuncerò semplicemente: "il codice da vinci è soltanto un polpettone pretenzioso". magari aggiungendo con arietta snob: "quello lì uno scrittore? ma se sembra un giornalista sportivo della rai!". e poi di magris trovo irrinunciabile, e sempre arricchita di nuovi spunti, quella ieraticità severa e nostalgica che è degli uomini nati nelle terre di confine, e che li porta a pronunciare come un dogma assoluto i principi del relativismo. qui, come altrove, è la vecchia saggezza della defunta mitteleuropa a chiosare il tutto: "comunque, dinanzi ad ogni interpretazione della storia, chi si è formato nel solco della civiltà austro-mitteleuropea continua a diffidare di ogni formula totalizzante, a leggere – e a non leggere – quello che gli pare secondo i propri gusti e capricci; a pensare che se le cose vanno così potrebbero benissimo andare anche altrimenti e che, quando sembra succedere qualcosa di esaltante ed epocale, è meglio limitarsi a borbottare con noncuranza, come musil, ‘è capitato che…’". geniale.
Archive for febbraio 2006
27 febbraio 2006
27 febbraio 2006
Un abbraccio a Luca Coscioni
Ci metto cinque minuti a scrivere una parola, per me ogni parola è importantissima.
Luca Coscioni
26 febbraio 2006
Dormono tutti tranne tu
Sono freddi i giorni e lunghe le notti,
e suona il vento note dolenti,
su vieni e rifugiati contor il mio cuore,
le cose liete ora dormono tutte,
eccetto te, mio piccolo amore!
dorme il gatto vicino al camino,
da tempo i grilli non fanno cri cri,
tutto tace in casa, bambino,
tranne un topino affamato che rosicchia,
ma tu non dormi, perché?
Non badare a quella luce di fuori
È solo la luna che splende,
dietro il vetro grondante di pioggia.
Su piccolino, continua a dormire
Finché non è di nuovo giorno.
Dorothy Wordsworth, Una mamma al suo bambino
23 febbraio 2006
Partono i corsi dell’Oblique Studio
Attesi, sofferti, irrinunciabili per me, partono i corsi dell’Oblique Studio.
1) Princìpi di editoria e tecniche redazionali: corso per aspiranti redattori in case editrici;
2) Perfezionamento per redattori editoriali;
3) Addetto all’ufficio stampa.
Per informazioni telefonate al 06 64465249 o scrivete a redazione@oblique.it
23 febbraio 2006
Strafalcioni a go-go
Imperdibili nuovi strafalcioni sull’Osservatorio.
Una danza che consuma
23 febbraio 2006Quanto mi piace, cara indolente, veder scintillare la pelle
del tuo splendido corpo come se fosse una stoffa ondeggiante.
Sulla tua chioma profonda, dagli acri profumi,
mare odoroso e vagabondo, di flutti azzurri e bruni,
come un vascello che si sveglia al vento del mattino,
la mia anima s’appresta sognante a un cielo lontano.
I tuoi occhi, che nulla rivelano di dolce o d’amaro,
sono due gioielli in cui l’oro si unisce al ferro.
A vederti procedere ritmicamente, bella d’abbandono,
ti si direbbe un serpente che danza in cima a un bastone.
Sotto il fardello della pigrizia il tuo capo di fanciulla
si dondola con la mollezza di un giovane elefante.
E il tuo corpo si piega e si allunga come una bella nave
che bordeggia e tuffa nell’acqua le sue antenne.
Quale flutto ingrossato dallo sciogliersi di ghiacciai grondanti,
quando l’acqua della tua bocca risale ai tuoi denti,
mi pare di bere un vino di Boemia amaro e vittorioso,
un cielo liquido che semina di stelle il mio cuore.
Charles Baudelaire, Il serpente che danza da I fiori del male
20 febbraio 2006
Battaglia nel cielo: fenomenologia del disgusto
la fortuna vuole che ogni mattina, per andare a lavorare, io passi per una strada in cui la lucky red ha acquistato un paio di spazi pubblicitari. così mi ritrovo, di tanto in tanto, a sperimentare la funzione primitiva della pubblicità, non già conferma di qualcosa su cui da settimane la televisione insiste, martella, propone e dispone, ultimo tassello di una complessa azione di convincimento subliminale, bensì stimolo della curiosità, esperimento dell’efficacia di un titolo e di un’immagine, residuo barlume di democrazia del pensiero. su uno di questi cartelloni tempo fa campeggiava una ragazza distesa nuda e un titolo, battaglia nel cielo, tanto attraente quanto, per me, inedito. ancora ignaro della trama, con qualche vaga nozione nel frattempo raccolta sul regista, alcuni giorni fa m’imbarco nell’impresa. lo schermo mi presenta nell’ordine: una fellatio, la notizia di un rapimento, un devastante ritratto per quadri di città del messico, una scena di sesso tra un uomo brutto e una donna che più brutta raramente avevo visto, una scena di sesso tra quello stesso uomo e una ragazza con un bel culo, quella nuda sulla locandina, un omicidio inatteso, un percorso di espiazione in ginocchio, cappuccio in testa, alla volta di un santuario, una morte e, per chiudere il cerchio, una fellatio. esco dal cinema disgustato, il mio meccanismo di autodifesa proietta il disgusto sul film. concludo: un film orribile. ma è tutt’altro che una conclusione. quella musica di sottofondo, quelle scene, quello squallore, quella nudità inerme non mi abbandonano più, continuano a tormentarmi, mi martellano nella testa, mi fanno amaro in bocca. faccio tutto il viaggio di ritorno a casa pensando: se non facciamo qualcosa è la fine, se non facciamo qualcosa tutto sarà questo squallore, questa assenza di umanità, questa indifferenza, questa burocratizzazione dei rapporti umani, questa città di merda che è città del messico, che è roma. il film mi scorre nella memoria come pura sceneggiatura, nessuna concessione allo spettatore, una realtà scarna ritratta senza il filtro della consolazione, senza il rifugio di un’ipotetica salvezza, immobilismo, nessuna speranza di cambiamento che non sia la morte. disgusto appunto. quel disgusto che è la geografia della nostra quotidianità, ma da cui il senso di sopravvivenza ci distoglie, rendendoci complici di una società perversa in cui vige un solo meccanismo di relazione, da una parte chi produce, merce, notizie, valori, dall’altra chi questa merce, queste notizie, questi valori li ingurgita. un film orribile, sì. orribile perché proietta fuori di noi, e impietosamente ce la mostra, la nostra schiavitù.
Silenzio silenzio silenzio
19 febbraio 2006Un uomo in piedi –
Silenzio silenzio silenzio –
nulla più inscrive il sole
e una corona di sonno cresce
intorno a lui
che si è allungato verso l’alto
più in alto
fino alla fine.
Il sonno già cresce nella sabbia
Silenzio silenzio silenzio –
Lui oh lui
lascia la sua sabbia
nel sonno – L’universo blocca il respiro
a lui
che lascia cadere le sue ghirlande
falciate da Dio –
Con tracce d’uomo
dorme la sabbia
eredità dell’amore –
Silenzio silenzio silenzio –
quando uno continua ad allungarsi
La gemma si forma nel sale.
Nelly Sachs, Un uomo in piedi, dedicata a Paul Celan
16 febbraio 2006
“Sono io”, dice lei. “Alla fine, sono sempre io”
Fuori dalla vasca, lui la avvolge in un asciugamano. Lui preme la bocca sulla sua pelle, le racconta storie. Il cuore di lei accelera, l’orologio che ha al polso ticchetta più veloce. Lei comincia a trasformarsi, a cambiare; prima è il coyote, poi una zebra, una giumenta e un uomo. Le sue ossa sono liquide, fluide. Ride, piange in dieci lingue diverse, abbaia e latra. Le mani di lui scivolano sulla sua pelle, il suo manto, la sua pelliccia, le sue scaglie, le sue pinne, caudale e natatoria. Lui succhia le dita dei piedi di un gorilla, bacia l’orecchio di una foca. Lei è grossa e magra, liquida e solida. Si spostano nel tempo: stesi su pellicce in una caverna, su un letto intagliato a mano in un palazzo, nomadi che attraversano il deserto, pionieri in una capanna di legno, sono su una barca, in cima a un grattacielo, sul ghiaccio di un igloo. Le loro cellule si assemblano e dissemblano. Volano attraverso la storia. Lei è una nuvola, vapore ed essenza. Lei è pioggia e cielo ed è sempre inevitabilmente se stessa. “Sei ancora tu?”, chiede lui. “Non so mai se ci sei veramente lì dentro”. “Sono io”, dice lei, ritornando se stessa. “Alla fine, sono sempre io”.
A. M. Homes, Cose che bisognerebbe sapere (traduzione di A. Cioni)
15 febbraio 2006
Tra i narcisi
Arzillo, sghembo e grigio come questi rametti di marzo,
Percy nel suo giaccone blu si china tra i narcisi.
È convalescente da qualcosa ai polmoni.
Anche i narcisi si chinano davanti a una cosa grande
che scuote le loro stelle sulla verde collina dove Percy
stringe a sé la sofferenza dei suoi punti e cammina, cammina.
C’è una dignità in questo, c’è una cerimonialità—
I fiori vividi come bende e l’uomo che sta guarendo.
Si chinano e si raddrizzano: quali attacchi subiscono!
E l’ottuagenario ama i piccoli greggi.
È livido in volto; il vento terribile affatica il suo respiro.
I narcisi guardano verso l’alto come bambini, rapidi e bianchi.
Sylvia Plath, Tra i narcisi
I Narcisi scuotono le loro stelle
al vento verdedorato dell’ultimo bagliore.
La loro felicità non ha peso.
La loro letizia è spirito.
Anche stanotte avrà stelle precarie
sul monte della Luna
e brina d’Aprile.
I Narcisi sono intoccabili
nel fruscio di un film muto
che accelera un ballo
e risa di bambini
alla fine della Grande Guerra.
Le loro faccine sono schiacciate
sotto i grandi e molli fiocchi di un pallido nastro. […]
(Anche nel solenne e gelido
strazio dell’altrui lutto,
saranno al sicuro –
bulbi nella terra
sotto le ciocche della ghirlanda).
Ghirlanda di stelle.
Luci-spiriti nell’orto.
Ted Hughes, Narcisi