10 migliori romanzi di tutti i tempi
Ultimi giorni per votare i 10 migliori romanzi di tutti i tempi. Sul sito di Leonardo Colombati. Qui.
10 migliori romanzi di tutti i tempi
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Sartoria editoriale
Nei film western all’antica, il Settimo cavalleggeri cavalca inquadrato e carica compatto, ma è sempre preceduto da qualche esploratore bizzarro e sensitivo, che si muove su ogni terreno, parla idiomi strani, cammina in notti senza stelle. Anche nel mondo dei libri esiste un mestiere simile: quello dell’esploratore letterario, dello scopritore di talenti. Sulla scena dei giornali non lo vedi quasi mai, eppure è lui che cattura i titoli migliori, coltiva relazioni in cinque continenti e soprattutto sa riconoscere il genio senza aspettare le mode. Roberto (detto Bobi) Bazlen, che chiamavano «l’editore senza casa editrice», era così: nato nel 1902 a Trieste, il suo carisma era tale da fare breccia perfino su Italo Calvino, che lavorava alla Einaudi come editor di narrativa e teneva testa a scrittori come Pavese, Vittorini, Sciascia, Borges. Bazlen gli consigliò di tradurre un libro ostico ma rivelatorio, che lui aveva gia letto in tedesco, L’uomo senza qualità di Robert Musil. E un giorno scrisse a Eugenio Montale una mitica cartolina da Trieste, dicendogli di «fare una poesia» su «una con due gambe bellissime», Dora Markus. Montale, senza batter ciglio, eseguì. Tra le conoscenze di Bobi c’erano un ebreo fuggiasco che aveva impiantato a Milano l’Agenzia letteraria italiana (che oggi gestisce migliaia di autori) e un ambiente che ruotava intorno alla Adelphi di Luciano Foa e a Vanni Scheiwiller, che aveva una minuscola ma influentissima attività editoriale, le edizioni all’Insegna del Pesce d’oro. Bazlen presentò a Foa un giovane ventunenne e promettentissimo, un certo Roberto Calasso, che dalla leggenda editoriale Adelphi non si sarebbe staccato più, per tutta la vita. Ma fu Mario Spagnol, già prima di diventare il timoniere del gruppo editoriale che oggi porta il suo nome (e che raggruppa Longanesi, Corbaccio, Guanda, Salani, Ponte alle Grazie, Tea, Nord, Garzanti e Vallardi), a modernizzare l’editoria italiana definitivamente. Il metodo Spagnol? Eccolo: i libri si fanno per la forza e la leggibilità degli autori e per il pubblico, non per soddisfare i salotti letterari. E oggi chi sono gli scopritori di talenti? La risposta non è difficile, perché a fare chiacchiere sono in molti, ma a saper scegliere sono in pochi, pochissimi. Marco Vigevani è stato direttore della saggistica e della narrativa in Mondadori, e quelli che sono passati da Segrete conoscono il rapporto quasi viscerale che si instaura fra lui e i suoi autori. Così, quando si è messo in proprio, ha creato un’officina che segue e consiglia l’autore in ogni dettaglio. Gli agenti sono ormai dei tecnici del contratto senz’anima e burocratizzati? «No, all’estero semmai sono in crescita personaggi con un passato di casa editrice, come me, che decidono di diventare agenti, ma con un bagaglio di sensibilità e di relazioni con gli autori». Chi non ci crede dovrebbe vedere il modo in cui Marco discute con i suoi protetti (una sessantina, da Elisabetta Rasy a Elena Stancanelli, da Giorgio Bocca a Massimo Piattelli Palmarini) su cosa e come scrivere, e dovrebbe vedere come diventa scuro in volto quando non gli danno retta. Roberto Gilodi è un altro animale da libri di questo tipo: passato da Bollati, e poi da Garzanti, e poi ancora anni alla Einaudi prima di lanciarsi come consulente, parla sottovoce (in tre o quattro lingue) e ascolta molto. Tra gli ultimi acquisti della sua scuderia, Stefano Bartezzaghi e Maurizio Ferraris: «Mi interessano autori che hanno un forte radicamento nella ricerca, ma anche una capacità di tradurre il loro sapere per il pubblico. Non il semplice giornalismo culturale, ma l’aprire la strada a contenuti forti». E la strada non sono solo i libri: oggi lo scouting deve intercettare i temi più innovativi, aiutando l’autore a realizzare anche documentari, sceneggiature, «e saper cogliere tutte le opportunità che può offrire il multimediale». Vigevani e Gilodi non sono gli unici ad aver lasciato una grande casa (pur rimanendo in ottimi rapporti) per correre altre strade: due dirigenti Rizzoli hanno fatto qualcosa di simile, come Benedetta Centovalli, editor della narrativa italiana, che ha recentemente annunciato il suo passaggio alla piccola ma combattiva sigla padovana Alet, e addirittura la direttrice editoriale Rosaria Carpinelli, che lo scorso anno ha lasciato il gruppo (portandosi dietro, tra gli autori prediletti, Alessandro Baricco), per andare alla romana Fandango. Segno che, ogni tanto, un cambiamento di paesaggio e di scala è utile per mantenere attiva la voglia di scoprire e di fare. Anche nell’ultima generazione, poco più che trentenne, le molle del mestiere sono ancora fondamentalmente due, l’intuito e la capacità di rapporto personale con gli autori: «Io pubblico solo autori che sento profondamente, quelli con cui posso fare un pezzo di strada insieme. Magari stimo uno scrittore, ma se non ne sento l’anima e il senso profondo lascio perdere»: dice così Simone Caltabellota, 36 anni, per anni editor della Fazi. E le soddisfazioni non gli sono mancate: dai libri di John Fante a I reni di Mick Jagger di Rocco Fortunato, e ancora Lorenzo Licalzi e il premio Grinzane con Filippo Tuena. Un esempio di successo non pubblicato? «Beh sì, e direi macroscopico: Tre metri sopra il cielo di Federico Moccia, che in seguito ha preso Feltrinelli, perché era un libro che non sentivo. Magari, se lo avessi pubblicato io, non sarebbe andato così bene». Poi Simone ha aperto il marchio Lain: a parte il mega-seller Melissa P., decine di migliaia di copie con Girls di Nick Hellmann, e con lo scandaloso The Surrender di Tony Bentley. Ha un rapporto viscerale con il mestiere anche l’altro ragazzo prodigio dello scouting, Mattia Carratello, dominatore delle fiere del libro internazionali da Francoforte a Londra: uno dei pochi italiani che persino Andrew Wylie, il più potente agente editoriale del mondo, chiama da New York se ha qualcosa di nuovo. Mattia, 38 anni, da giovanissimo ha diretto la Fanucci con la collana Avant Pop, poi ha seguito la narrativa straniera di Einaudi Stile libero, e adesso, con decine di successi editoriali all’attivo, ha compiuto il gran passo: «Apro a Roma una sezione di Neri Pozza, che si chiamerà Bloom: non sarà esattamente una sigla di letteratura contemporanea. Piuttosto una esplorazione di letteratura presente». E promette bene anche l’ultimo arrivato, ancor più giovane ma strutturatissimo: Leonardo Luccone, collaborazioni con Fazi, Minimum Fax, E/o, Nutrimenti e, dopo il bellissimo Libro di Caino di Alexander Trocchi, traduce John Cheever per Fandango. Luccone ha aperto uno studio-agenzia con un gruppo di collaboratori, che si chiama Oblique: «Il limite delle agenzie tradizionali è che spesso invece di portare idee nuove inseguono le idee dell’editore. Noi vogliamo lavorare con pochi editori, dalla scelta del titolo all’assegnazione della traduzione». I maestri del mestiere? «Non c’è dubbio: Leo Longanesi, Bobi Bazlen, Mario Spagnol, Neri Pozza». Come dire: il buon giorno si vede dal mattino.
Alberto Castelvecchi, "Cacciatori di scrittori", Panorama
La poesia di Cavalli e Malavasi
Mercoledì 31 maggio Ennio Cavalli presenterà la sua ultima raccolta di poesie, Libro di sillabe, edito da Donzelli: ore 18,30, Libreria Argonauta, via Reggio Emilia 89. Nell’occasione si parlerà anche della raccolta di poesie uscita postuma di Paola Malavasi, dal titolo A questo servono le lacrime, edita da Interlinea.
Hovvisto
come si può essere tristi quando si è perso tutto, quando non si ha nulla da rimpiangere, nulla da difendere? la mia non è tristezza, è speranza, brividi di speranza, lacrime di speranza, cinismo, frasi taglienti, dolcezza, calore dei sensi, tutto è speranza. le vostre certezze, i vostri corpi luridi o ben lavati, i vostri orari per il pasto e per il sonno, i vostri sorrisi, i vostri hobby, la vostra attenta considerazione delle cose, la vostra identità, le vostre mostre e le vostre conferenze, le vostre astute confidenze, le vostre letture rigeneranti, la vostra abbronzatura, i vostri figli e i vostri cani, le vostre mani, la vostra tristezza, voi e tutto ciò che rigurgitate intorno a voi, andate a farvi fottere.
Quarta di copertina
Giovane Holden o appunti di Smemoranda, manifesto generazionale o egotistico rigurgito liberatorio, esperimento di letteratura della vita o incompleta prova d’esordio: comunque lo si voglia considerare, hovvisto è un libro atipico pur nella sua tipicità diaristica, pur nel suo narrare dal di dentro, dalle viscere, proprio della scrittura adolescenziale, il momento di passaggio della giovinezza nell’età adulta.
Perché hovvisto è il risultato di un’urgenza superiore alla letteratura. L’urgenza di comunicare una scoperta, l’urgenza di pronunciare parole, l’urgenza che si fa, fuori della letteratura, unica letteratura possibile.
Ne emerge il ritratto di una generazione senza riferimenti e senza cultura, di una società trasformata in un mefistofelico ipermercato, di una voragine che inghiotte speranze e ambizioni, e da cui restano immuni unicamente le parole e la consolazione. Un ritratto di cui questo libro è soltanto, o soprattutto, il disegno preparatorio.
Scambio epistolare Luccone-Trani prima della pubblicazione
Caro Riccardo,
scrivo questa lettera dopo una lunga e tormentata riflessione. La scriverò di getto. Avrai tutto ciò che penso.
No, hovvisto non mi è piaciuto. Questa è la prima e unica cosa che devo dire. No, forse è quella che voglio dire per prima perché è ciò che ho maturato leggendo il testo. Leggendolo due volte.
È lo scritto di esordio tipico, è lo scritto di liberazione, è il romanzo senza trama quindi sull’esistenza. È lo scritto che rientra in un filone dei pensanti che hanno qualcosa in più. È il tuo ora, lo è stato il mio, quello di altri. Lo definisci un testamento, ma non lo è. Tu, amico mio, scrivi diversamente. Parli di altro, ti interessa altro, è solo che non vuoi – hai ancora voluto – affrontare la scrittura di un romanzo. Non è un problema di forma. È un problema di liberazione, di necessità di ciò che hai scritto.
Sai cosa è questo tuo lavoro? È lo studio di un personaggio. Sono gli appunti per partire. La penna sarebbe velocissima. Sarebbe un bel personaggio, sei tu. Un anticonformista incompleto, un comunista lussurioso, personaggio in storie immaginarie con personaggi immaginari, uno che preferisce portarsi dietro la protezione, anzi farne una parte di sé. La necessità di nulla, l’essere un buon attore, il rivolgersi alle donne che sono state le donne della propria esistenza (a volte “tu”, altre “voi”, voi altri), la mania di dover apparire diverso.
Nel tuo scritto c’è un vero dilemma o c’è furbizia? Parlo con il tuo personaggio.
Dicevo, sono gli appunti per un romanzo. Le belle pedanterie d’élite, le lezioni, le precisazioni lobotomiche.
Sfoglio le pagine e osservo i segni che ho messo. Mi cade lo sguardo su un “ok”:
“c’è chi imposta la propria esistenza come un lungo cammino verso un obiettivo finale, credere nell’aldilà in fondo non è altro che porsi un traguardo. chi come me si arresta ad ogni crocevia, imbocca sentieri secondari, chiede ospitalità durante il percorso, indugia incantato sul ciglio della strada, torna sui propri passi a ritrovare i paesaggi di ieri, costui non trova alcuna consolazione nella fede. la morte è una sosta come tante altre, non importa se momentanea o definitiva”.
L’hai scacciata la malinconia?
Cos’è che ti spaventa della sicurezza?
“ti ho abbandonato perché sei un mio desiderio ma non sei come me, perché mi completi ma mi rassicuri. (…) ti ho abbandonato perché non puoi fare a meno di essere conforme, io ho la necessità di dissociarmi”.
Ti rivolgi a una donna ma sembra che parli del romanzo.
Preferisco quando parli di Capogrossi, quando affronti i temi apparentemente più scontati.
Tu sei un narratore di sottigliezze, di risvolti, di increspature: uno scrutatore guardingo nel silenzio, aneli un porto nell’oscurità più vicina per metterti comodo e capire, prendere le distanze, riunire le forze. Come Robert Fripp, leader dei King Crimson: tutti i concerti seduto, nell’angolo del palco tanto buio. E allora mi aspetto tessuti palpitanti, stordimento di particolari, insaziabili silenzi. Che giovamento darebbe uno scritto così al panorama letterario italiano!
Nel tuo testo invece non scalfisci alcuna superficie, ci sono degli spunti belli, sì senz’altro, ma una monotonia monocorde: dici cosa ascolti, lo colleghi a sensazioni di film. Mi piacciono cose del tipo: “a volte vorrei mettere una coperta tra me e il mondo, una coperta su un filo come in accadde una notte, io da questa parte a fare tutto il casino che voglio, gli altri di là che non possono lamentarsi, perché ho messo la coperta, ho dimostrato sensibilità”. Non mi piacciono frasi e interventi come: “ho amato il cinema, sì, amo la musica, le arti figurative, ma la mia anima è letteraria, il mio corpo è letterario…”.
Non so se è una buona idea esordire così.
Questo è un libro, anche così com’è, che se fosse pubblicato da uno scrittore affermato, non so, Houellebecq per esempio, avrebbe un successo strepitoso. Ma sarebbe un successo di riflesso.
Te lo chiedi da solo a un certo punto: “quanta retorica, vero?”. Ho il timore che il tuo sia il libro di chi abbia scritto pagine senza un’idea precisa, e abbia continuato – anche compiaciuto per la sua scrittura – ad andare avanti. E così le pagine crescono, si cerca di parlare di tutti i concetti chiave che si hanno in mente (“mi ritrovo a pensare che tutto ciò che sto scrivendo è soltanto solitudine e disperazione”), ma non convince l’impianto.
Non c’è l’impianto, l’architettura anche invisibile.
Ci sono i frame. E da quelli ti dico di ripartire, dai frame, dalle schegge, dalle penombre, dalle grida profonde.
Non scegliere di essere nulla, di parlare di nulla. Non essere “penna che trascorre le giornate scrivendo queste frenetiche considerazioni”. Non funziona. Fanne un personaggio, uno che vive legge e assembla. Se davvero la paura di mostrarti si è dissolta, puoi farlo davvero. Vai e riprenditi lo spazio tra le parole, divora il bianco. Costruisci questo bel personaggio attorno a una storia.
Potresti dire che esistono tanti romanzi senza storia né trama. Potresti dire che credi molto in quello che hai scritto. Ascolterò ogni cosa che mi dirai. E ti dico di più: se deciderai comunque di pubblicarlo io scriverò qualcosa. E non credere che la mia stima diminuirebbe. Ma se davvero queste parole ti spingono a riflettere per un romanzo e a capire cosa vuoi fare, allora sentiti libero di ragionare a voce alta.
Penso a Trani con un romanzo o un saggio pubblicato da un editore di medie o grandi dimensioni.
Un libro di cui si parlerebbe in giro.
Ti abbraccio.
Leonardo
Caro Leonardo,
ho dunque ricevuto la tua lettera. L’ho ricevuta dunque, grazie.
Grazie per aver scritto una lettera, gesto antico perciò affettivo. Grazie per la sincerità, che ti avevo chiesto, che mi aspettavo, ma che fa sempre piacere trovare.
Quando ho letto, ho pensato che non fossi tu a provocarmi, stimolarmi, incitarmi, come vuoi. Ho pensato che forse sono stato io – e forse ingiustamente – a provocare te, a sottoporti un testo di cui conoscevo tutti i limiti, senza avvertirtene, chiedendoti anche di fartene carico, di scriverne. Me ne dispiace, ha vinto – come a volte mi capita – il mio narcisismo.
Perché, vedi, ciò che mi scrivi non mi è nuovo, lo comprendo, lo condivido. Tu parli di “appunti per partire”: d’accordo. Parli di un impianto che “non convince”: d’accordo. Soltanto su una cosa non sono d’accordo, quando dici: “È il tuo ora, lo è stato il mio, quello di altri. (…) È lo scritto di esordio tipico, è lo scritto di liberazione, è il romanzo senza trama quindi sull’esistenza”. Intendiamoci: non che non sia cosciente che hovvisto abbia testa, cuore e gambe come testa, cuore e gambe di tanti scritti d’esordio tipici, come li definisci tu. Ma hovvisto è mio, volontariamente mio e consapevolmente mio. Consapevolmente “appunti per un romanzo”, consapevolmente vomito liberatorio, consapevolmente inadeguato, banale, impubblicabile. Quando l’ho scritto, non volevo scrivere un romanzo, volevo scrivere quello che ho scritto, perché ne sentivo la necessità. La letteratura è fatta della mia carne – l’ho scritto – e in quei mesi del 2002 la mia letteratura non poteva che essere hovvisto.
Scrivi: “Non so se è una buona idea esordire così”. Ma, Leonardo, ci sono tanti successivi esordi, se l’esordio fosse soltanto uno, da non fallire, da confezionare perfetto, varrebbe più qualcosa esordire? Il percorso di uno scrittore non è – così la penso io – l’accumulo progressivo di storie e personaggi e pubblicazioni e recensioni, tutto inutile spesso, tutta carta sprecata, tutte parole al vento. C’è in fondo un solo romanzo che vale la pena di scrivere, e questo romanzo è fatto dei tanti modi in cui la stessa storia e gli stessi personaggi vengono narrati a distanza di anni. Il fatto che hovvisto sia un piano di lavoro non gli nega, secondo me, valore (non parlo di valore letterario, credo che sia chiaro): è un piano di lavoro, il primo abbozzo, il disegno preparatorio, e come tale non poteva e non può essere diverso da quello che è. Il prossimo – quei frame da cui mi inviti a ripartire, il personaggio che vive, legge e assembla, il “romanzo d’esordio” come lo intendi tu – arriverà, già si agita dentro di me, forse ha già un titolo, forse ha già un incipit, forse ha già scene, battute. Ma questo sarà un altro esordio, un’altra fase (“tornerò a vomitare”) e come tale non nega valore, ma ne prende da hovvisto.
Vedi, la mia disponibilità a pubblicare hovvisto non è la presunzione di chi crede di aver scritto qualcosa di compiuto, qualcosa di letterariamente forte, quel “romanzo” di cui parli. È soltanto la disponibilità a lasciare che le mie carte mi abbandonino, se deve accadere che accada, hovvisto non mi appartiene più, se può appartenere a qualcun altro, che sia.
Tutto questo, mi rendo conto, non era scontato, ma la tua lettera mi ha dato la coscienza di averlo dato per scontato. Se dunque alla fine hovvisto sarà pubblicato, non ti chiederò comunque di scrivere qualcosa, perché qualcosa tu lo hai già scritto. E allora sarà hovvisto nudo e indifeso com’è nato, oppure hovvisto più la tua lettera impietosa ed esaltante: hai mai visto un esordio stroncato dal suo prefatore? Superbo.
Un caro abbraccio.
Riccardo
Dopo la pubblicazione di un libro
Il successo è una specie di orribile disastro
peggio di quando ti si brucia la casa, gli echi della rovina
delle travi del tetto che crollano più veloci una ad una
mentre stai lì, testimone impotente della tua dannazione.
Come un beone la fama consuma la casa dell’anima
manifestando che hai lavorato soltanto per lei –
Ah, mai avessi sofferto il suo bacio traditore
meglio restare per sempre nel buio a fallire e andare a picco.
Malcolm Lowry, dopo la pubblicazione di Sotto il vulcano
Primo: la felicità
Credo che l’espressione lettura obbligatoria sia un controsenso; la lettura non deve essere obbligatoria. Possiamo parlare di piacere obbligatorio? Come? Il piacere non è obbligatorio, il piacere è qualcosa che si cerca. Felicità obbligatoria! Anche la felicità va cercata. Io sono stato per vent’anni professore di letteratura inglese all’Università di Buenos Aires e ho sempre consigliato ai miei studenti: se un libro vi annoia, abbandonatelo; non leggete un libro perchè è famoso, non leggete un libro perché è moderno, non leggete un libro perché è antico. Se un libro per voi è noioso, lasciatelo, anche se si tratta del Paradiso Perduto o del Chisciotte – che per me non sono noiosi. Ma se per voi quel libro è noioso, non leggetelo; significa che non è stato scritto per voi. La lettura dev’essere una forma di felicità, quindi io consiglierei agli ipotetici lettori del mio testamento – che non ho intenzione di scrivere – di leggere molto, di non lasciarsi intimorire dalla reputazione degli autori, di continuare a cercare una felicità personale, un piacere personale. Questo è l’unico modo per leggere.
Jorge Luis Borges, anticipazione su TuttoLibri di M. Arias, M. Hadis, La biblioteca inglese, Einaudi
Imbrattiamoci tornando a casa
Stesa a terra pugnalavo il mio miglior amico. Ma gli affari restavano quelli che erano. Risollevavo il miglior amico ed egli mi piantava una grana che non finiva più, luce negli orecchi che non si scandalizzavano. Finiva la gran gloria in una bottiglia di cognac. In una bottiglia di cognac finiva la parabola del pescecane che non ammetteva disordine. L’ascesi era finita ma il gran dio non si sobbarcava facilmente a grandi fatiche inutilmente. Gli alberi tornando a casa erano delicatissimi. Io ero delicatissima tornando a casa! Io giacevo supina come una mosca imbrattata di miele. Lui era il mio re debolissimo, io la sua regina imbrattata di sangue. Tu sei il mio re debolissimo imbrattato di porpora! Chiudiamo un occhio su delle camorre dei pittori. Chiudiamo le palpebre su delle camicette delle signore. Chiudiamo bottega e spariamo. Spariremo nella bruma con la revolverata discesa a terra.
Amelia Rosselli, da Variazioni belliche
Ho cominciato a scrivere
Ho cominciato a scrivere in un ambiente in cui dovevo farlo con pudore. Scrivere, allora, era ancora un impegno morale. Adesso scrivere sembra che spesso non sia più niente. Talvolta me ne rendo conto: scrivere, o è mescolare tutto in un viaggio che ha per destinazione la vanità e il vento, o non è niente; o si mescola tutto in una unità per sua natura indefinibile, o si fa soltanto della pubblicità. Ma molto spesso non ho un’opinione, vedo che tutti gli spazi sono aperti, come se non ci fossero più pareti, come se lo scritto non sapesse più dove andare per nascondersi, per strutturarsi, per leggersi, come se la sua fondamentale sconvenienza non venisse più rispettata, e subito dopo non ci penso più.
Marguerite Duras, L’amante
Ho cominciato a scrivere perché non c’ erano libri su di me. Io non esistevo nella letteratura che avevo letto… questa persona, questa donna, questa nera non esisteva come centro. Ho così avvertito un senso di perdita, di vuoto. Era un profondo e reale bisogno di sopravvivere fisicamente e psicologicamente.
Toni Morrison, in It’s OK to say OK, Conversations from abroad di Sandi Russel
Comincia a fare troppo caldo
Una ventina di giovani – autodefinitisi «antifascisti e antifasciste di Roma» – hanno occupato ieri mattina la casa editrice Castelvecchi di via Isonzo per protestare contro la pubblicazione del libro Occupazioni di destra di Domenico Di Tullio che racconta le Osa, occupazioni a scopo abitativo, organizzate da gruppi estremisti di destra. I giovani "antifascisti", occupati gli uffici, hanno chiesto di incontrare l’editore, e Alberto Castelvecchi ha accettato il confronto. «I ragazzi sono stati estremamente civili e composti tant’è che i miei redattori, nonostante l’occupazione, hanno continuato a lavorare regolarmente» ha detto Castelvecchi.
"Castelvecchi, casa editrice occupata", la Repubblica
L’Ohio di Ben Marcus
"la casa, costruita o annientata. è una composizione lignea su cui sono affissi vetri e pietre, serrature, cavità, la persona. all’interno si troveranno generi alimentari, i tappeti ne scalderanno il pavimento. non sarà mai data una chiara idea dell’ohio, anche se il suo legno sarà levigato e lucidato, i vetri lustrati dalla luce, i buchi appropriatamente liberati, affinché i componenti all’interno possano vedere ciò che si trova all’esterno: il campo vuoto, la strada, la persona che si fa avanti o si immobilizza, desiderando che l’ohio sia vicino".
(da: ben marcus, l’età del fil di ferro e dello spago, traduzione di rossella bernascone, alet)