L’Herbarium di Emily Dickinson
Rocambolesche vicende ereditarie portano un certo giorno le spoglie della storia terrena di Emily Dickinson alla Houghton Library di Harvard. Arrivano enormi bauli con i libri di casa, i dagherrotipi, vari oggetti dell’infanzia, i ritratti dei Dickinson bambini, i manoscritti… E tra il bric-à-brac che accompagna l’esistenza, un Herbarium. Ovvero, un album dalla copertina rigida, di colore verde, che conta sessantasei pagine, in cui una mano esperta ha con cura disposto in mostra 424 esemplari essiccati di fiori e piante da giardino, da prato o da interno, appartenenti a specie autoctone o naturalizzate nelle vicinanze di Amherst, Massachusetts. I grandi fogli vengono ripuliti dalla polvere, e dagli insetti che vi si erano annidati, e si scopre così la bellezza del primo, anzi unico “libro” di Emily Dickinson. La disposizione dei fiori, le combinazioni di foglie e gambi e corolle, le etichette con i nomi propri, per lo più in latino, tutto è incantevole. E oggi perfettamente riprodotto in facsimile dalla casa editrice Elliot. È un regalo meraviglioso per noi appassionati di Emily. Che ci avvicina ancora di più alla poesia. E conferma quel che già sapevamo, e cioè che Emily Dickinson è una scienziata della natura. Una naturalista attenta e scrupolosa, che nell’Herbarium raccoglie non solo esemplari botanici, ma i semi della sua poesia. I fiori essiccati sono ad arte accoppiati perché conversino insieme i più umili e i più sofisticati. Come in quelle sacre conversazioni della pittura rinascimentale, un muto colloquio unisce il gelsomino bianco e il crespino comune, sì che la grazia delicata del primo suggerisce a contrasto la forza tenace del secondo. Emily adora entrambe: sia la forza che la fragilità. Dalla frequenza con cui appaiono nelle sue pagine è chiaro che ama i narcisi, ma anche i gerani, e le margherite. Si identifica con una margherita. E in poesia — la numero 19 — interpreta senza difficoltà la parte della rosa. A volte sbaglia, confonde il toxicodendron radicans con il celastro, chiama la gentiana clausa con il nome di cardo stellato. Sono errori non di incompetenza, ma di distrazione, secondo me. Li fa anche Henry Thoreau nel suo erbario. Lo dico per avvertire che la devozione allo studio di fiori e piante e erbe era comune in quegli anni. Attività poetica, più che femminile per Emily. La quale in tale occupazione si apparenta ai poeti, più che alle donne: a Shakespeare, che ha un vocabolario botanico vastissimo e distingue la cicuta dal crescione e dalla zizzania; e a Keats, che quando poggia i piedi in vetta a un colle riconosce il biancospino e il laburno e la siepe d’avellana e la rosa selvatica… Se i romantici hanno letto Rousseau, che è grande botanico, Emily ha letto senz’altro il grande saggio di Emerson sulla natura. E condivide l’emozione di Thoreau, quando in Walden, di fronte alla primavera, confessa di sentirsi «nel laboratorio dell’artista che creò il mondo». Nel vocabolario trascendentale scienza e teologia si abbracciano. Né dobbiamo dimenticare che Emily è una giovane donna istruita, che si avvantaggia delle migliori scuole. Appartiene non a caso a una famiglia coinvolta nella storia dell’istruzione in America. E nei sette anni trascorsi all’Amherst Academy, fondata dal nonno, dove entrò all’età di nove anni, imparò non solo a leggere, scrivere e far di conto, ma si educò alla filosofia, al latino, alla botanica. Nella convinzione che, grazie alla scienza, l’amore dovuto alla Creazione, in quanto manifestazione dell’Altissimo, si sarebbe rafforzato. E dal cuore sarebbe sgorgata spontanea l’esclamazione di gratitudine a Dio padre, artefice di ogni bellezza. Ma per riuscire a vedere che «il Soprannaturale non è altro che il Naturale rivelato» bisognava applicarsi: la «rivelazione» sarebbe mancata a chi non avesse occhi «preparati». Ecco perché Emily, studentessa non solo scrupolosa, ma intelligente, studia con passione la storia naturale, zoologia e botanica, e impara a distinguere il calice e il sepalo, la corolla, lo stame, il pistillo, il ricettacolo, il pericarpo, il seme. È precisa Emily. Ha una mente lucida, ama il dettaglio. Non usa mai l’immagine del fiore in modo decorativo, evocativo — alla maniera di Wordsworth, per fare un esempio. Semmai, lavora al modo opposto. Osservate la poesia 66: nei primi quattro versi descrive nudamente il processo che porta dal bulbo al fiore, nei tre successivi associa alla metamorfosi del bruco in farfalla. E negli ultimi tre ci lascia perplessi. Sapremo cogliere il simbolo? Sì, se saremo capaci della piroetta metafisica, che stringe in vertiginosa intimità micro e macrocosmo. Ma intanto, sotto i nostri occhi è fiorito un bulbo, è nata una farfalla.
Dalla zolla, così,
d’oro e scarlatto
sorgerà più d’un bulbo
che scaltramente fu nascosto
ad occhi esperti
Dal bozzolo, così,
balzerà più d’un verme
con tanti lieti colori
I contadini come me,
i contadini come te
guardano perplessi.
Poesia 66, 1859 ca
Nadia Fusini, "Il segreto di Emily. Le poesie nascono dai fiori", La Domenica di Repubblica, 25 novembre 2007