Archive for novembre 2007

24 novembre 2007

Le atmosfere sofisticate di Tre volte giugno

Fern, giovane pittrice americana, durante una vacanza in Grecia s’innamora di Paul, attempato e affascinante sir scozzese: un uomo ritratto in se stesso per la morte di una moglie che forse l’aveva tradito e padre di un ragazzo, Fenno, che vive tra inibizioni e desiderio bruciante la propria omosessualità. Sono tre personaggi destinati a incrociare le proprie vite tra le pagine di un romanzo che riesce a parlare di legami familiari e desideri erotici, fedeltà e tradimenti, ricordi e speranze senza mai cadere nel sentimentalismo. Vincitore del National Book Award, come in precedenza solo pochissimi esordienti (tra cui Philip Roth) erano riusciti a fare, Tre volte giugno è un romanzo intenso e sofisticato. Considerato dalla critica americana "un piccolo capolavoro" e supportato dall’entusiasmo di scrittori come Michael Cunningham, il debutto narrativo di Julia Glass, nata a Boston nel ’58 e pittrice a New York, descrive il presente attraverso una scrittura che ricorda da vicino lo stile dei grandi romanzi al femminile dell’800 inglese e americano. L’intero libro è attraversato da una musica costante: la malinconia. Quando cominciai a scriverlo ero appena passata per il periodo più difficile della mia vita. A 36 anni avevo divorziato, mi era stato diagnosticato un cancro e mio fratello si era suicidato. Tutto in meno di un anno. All’inizio scrissi direttamente di questi eventi, poi però iniziai a tratteggiare la storia che sarebbe diventata il romanzo. Allora non lo compresi subito, ma tutti e tre i personaggi — Paul, Fern, e Fenno — sono persone che lottano per sopravvivere dopo perdite straordinarie e immensi dolori. Solo alla fine mi resi conto che il mio era stato il tentativo di rispondere a una domanda: come si può andare avanti, guidati dalla speranza, dopo essere passati per quel genere di dolore che non si riuscirà mai a lasciarsi alle spalle? In poche parole, come si fa a resistere?
Molti romanzi pongono questa domanda, e danno diverse risposte…
C’è molto dolore in Tre volte giugno ma mi piace pensare che il finale si apra a una forte speranza e a nuove possibilità.
È anche una metafora su come liberarsi dalle costrizioni.
I personaggi del libro sono intelligenti, sensibili, desiderosi di amore. Ma sono anche timorosi di sobbarcarsene i rischi emotivi. Paul non riesce a trovare un modo per parlare alla moglie dell’amore per lei e si rende conto troppo tardi del suo errore. Suo figlio, anche lui bloccato da inibizioni e timori, perde l’occasione di vivere un amore profondo. E poi c’è Fern, che è costretta a mettere da parte il proprio orgoglio per confessare a se stessa le crepe profonde della sua vita. Ognuno si trova di fronte a un bivio e farà la scelta giusta solo superando le proprie paure.

Gian Paolo Serino, "Tre personaggi in cerca d’amore", D della Repubblica, 24 novembre 2007

24 novembre 2007

La Meyer di Fazi scala la classifica

Narrativa italiana: 11(16) Mal di pietre di Agus, nottetempo; 14(14) I viceré di De Roberto, edizioni e/o; 20(22) Seta di Baricco, Fandango Libri;
Narrativa straniera: 2() Eclipse di Meyer, Fazi; 3(4) L’eleganza del riccio di Barbery, edizioni e/o;
Saggistica: 4(4) Il metodo antistronzi. Come creare un ambiente di lavoro più civile e produttivo o sopravvivere se il tuo non lo è di Sutton, Elliot;
Tascabili: 9(17) Twilight di Meyer, Fazi;
Varia: 5() Io non pago! Come fare ricorso contro le multe da soli e in pochi minuti di Ponticello, Fazi.

23 novembre 2007

Sylvia e Anne

La sua morte mi disturba molto. La fa desiderare anche a me. Ha preso qualcosa che era mio, quella morte era mia.

Anne Sexton su Sylvia Plath, 1963

La precisione delle parole, storia di un apprendistato editoriale

22 novembre 2007

Non ero diverso dai tanti miei compagni di studio: ma con Italo era una continua «rissa cristiana», per dirla poeticamente: «Io sono qui pronto a capire: ma “struggente” che razza di aggettivo è? Cosa vuole  significare?».
«Dimmi, per cortesia, a cosa serve un’espressione come “in un trascolorare di tonalità”. Quante copie in più vendiamo con il tuo “trascolorare”?» «Non te l’hanno ancora spiegato che gli avverbi in -ente — guarda qui in due righe: “sottilmente” e “malinconicamente” — sono scostanti, anche perché faticosi da leggere?».

Guido Davico Bonino, Alfabeto Einaudi, Garzanti

Gallo dritto all’essenza

22 novembre 2007

Racconto serrato, gremito di fatti immagini scorci, delle esperienze fra collegio e famiglia, di un ragazzo siciliano, durante una stagione, subito dopo la guerra. Nella sua concatenata rapidità di accumulazione memoriale — un ricordare apparentemente affastellato, di marca realistico-grottesca — l’autore trova modo di dipanare le fila di una storia e di fissare icasticamente i lineamenti di un ambiente mediante le risorse di un’immediatezza rappresentativa che, quasi sempre felicemente, si incontra con l’invenzione verbale. Non direi che Consolo sia tutto natura, come appare al nostro Cintioli: ma indubbiamente racconta d’istinto, bruciando nel giro di una pagina, sensazioni, figure, ricordi, per riaccenderne altri nella successiva, con un gusto diretto della comunicazione e del disegno evocativo. Sicché, nella sua spregiudicata sommarietà, nell’abbandono che è fiducia nel raccontare, La ferita dell’aprile — l’adolescenza nelle sue angosce ed emozioni, come nelle sue avventure, nel suo favoloso, e tuttavia in contatto continuo con una realtà minuta, che si popola di echi e di risonanze — acquista il carattere di un’operetta compiuta, della testimonianza genuina. Forse ancora qualche cauto intervento dell’autore potrà giovare a togliere al testo certi modi di un facile sperimentalismo, a vivificare qua e là alcuni passi di maniera. Ma l’esperimento è di indubbio interesse. Sono favorevole alla pubblicazione nel Tornasole.

Niccolò Gallo, parere di lettura su La ferita dell’aprile di Vincenzo Consolo, 15 gennaio 1963

22 novembre 2007

20 novembre 2007

Voglio mia madre

Non ti muovere perché ho paura quando le cose cambiano. Ho così paura che mi fa male tutto: le dita, il braccio, lo stomaco; svengo, e per un’unica ragione: per sbarazzarmi del corpo… non esiste un posto tranquillo, una pozza di latte. Voglio mia madre.

Anne Sexton

Il consueto e l’inconsueto nei romanzi della Murdoch (parola di Manganelli)

20 novembre 2007

È un libro ambizioso e singolare: intellettualmente e letterariamente assai interessante, ma non privo di irregolarità, goffaggini, cadute di stile; ha parti potenti e di intensa fantasia, ha pagine di un respiro affascinante; non è un libro perfetto, ma certo è un libro del tutto inconsueto. È la storia di una comunità laica anglicana, che vive all’ombra di un’antica chiesa, presso un convento di suore; in questa comunità entrano due figure ad essa variamente incongrue, che finiranno col distruggerla. Una è Dora, una donna di immature strutture psicologiche, con molti caratteri della sgualdrina innocente; l’altro — la massima invenzione del libro — è Michael, un uomo che ha tutta la vocazione psicologica del santo, ma che è costantemente portato a rovina da impulsi omosessuali; impulsi, anche questi, stranamente innocenti, anzi oscuramente legati alla bontà, gentilezza, religiosità di Michael. Non è un libro facile: non solo perché rappresenta un mondo morale abbastanza inconsueto; ma perché non vi mancano allusioni ed echi simbolici, non sempre usati con mano infallibile. Ma, ripeto, è un libro nettamente fuori dal comune e pieno, forse talora carico, di ricchezza intellettuale.

Su The Bell di Iris Murdoch
[…] è un romanzo di struttura abbastanza consueta, ma di una complessità e intelligenza e sottigliezza psicologica straordinarie. La storia: un professore di un college, già sposato e padre di due figli, si innamora di una giovane pittrice; vagheggia di divorziare, di sposarla; in conclusione fallisce. Niente di inconsueto, dunque: ed esperta — con qualche durezza — è la mano che svolge la trama. È quello che si dice un ‘buon romanzo’: non di serie, ma senza decisive audacie intellettuali. Assai più facile del precedente, meglio impastato, più leggibile, senza grandi cadute: ma di un respiro sensibilmente più cauto. È un libro che mi pare metta conto di prendere in considerazione.

Su The Sandcastle di Iris Murdoch

Giorgio Manganelli, L’impero romanzesco, Aragno

19 novembre 2007

Torpor de Buenos Aires

la decisione di julio cortázar di lasciare buenos aires e trasferirsi definitivamente a parigi è del 1951. dapprima lavora come imballatore in un magazzino di distribuzione libraria, poi sarà traduttore per l’unesco. il primo soggiorno di cortázar nella capitale francese risale a due anni prima, nel 1949, grazie a una borsa di studio. ha trentacinque anni, trascorre tre mesi tra parigi, londra e l’italia. in quello stesso anno ha terminato il romanzo breve "divertimento". alcuni amici lo propongono alla editorial losada, ma il libro viene rifiutato perché contiene "malas palabras". uscirà soltanto nel 1986, due anni dopo la morte dello scrittore argentino. quest’anno voland ne ha pubblicato la prima traduzione italiana, a cura di paola tomasinelli. "divertimento" non ha domani – "domani. che imbecilli, tutti quanti", si legge verso la fine. è un romanzo senza via di uscita, si avvolge su di sé come una spirale, dal "tempo distante e ormai cinerario" dell’incipit fino al pacchetto che insetto lascia in dono a jorge, con il suo macabro contenuto. insetto l’osservatore complice, ironico e languido; jorge e il suo nevrotico, sterile declamare versi; marta che vive della vita degli altri; renato che distrugge la spaventosa rivelazione contenuta nel suo quadro: tutti i personaggi sono intrappolati in uno spazio che li determina, che è più forte di loro. il labirinto: quello che molti hanno individuato come l’elemento cardine della scrittura di cortázar. lui stesso ha dichiarato: "fin da bambino tutto ciò che avesse relazione con un labirinto mi affascinava. credo che questo si rifletta molto in ciò che ho scritto. da piccolo fabbricavo labirinti nel giardino di casa mia". il dedalo inestricabile, il perenne ritorno al punto di partenza. e però, in questo caso, qualcosa di più concreto, una sorta di cancrena, un luogo, insieme fisico e psicologico, che tiene avvinti, immobilizza i personaggi. come nel fallimento del ponte in "rayuela", quando talita rimane sospesa nel vuoto, a cavallo di un asse, tra la stanza di oliveira, impregnata dell’odore del mate, e quella di traveler, dove l’afa del primo pomeriggio bagna le lenzuola del grande letto. una scena che cortázar – lo ricorda in un’intervista a omar prego – aveva immaginato come un racconto, e che sarebbe poi diventata il primo tassello del grande romanzo. perciò cronologicamente precedente, anche se collocata alla fine, rispetto alla parte parigina. e ovviamente ambientata a buenos aires. il punto è questo: lo spazio immobilizzante è buenos aires. la pigra, confusa buenos aires che assiste ai primi anni del peronismo. l’ansimante città – spazio di solitudine e di impotenza, luogo di morte – che fa da sfondo a "il tunnel" di ernesto sabato, romanzo del 1948 (che nel 2001 einaudi ha pubblicato piazzando in copertina – sì, così si fanno le copertine – un dipinto del 1953 di alejandro xul salar, "barrio", che della buenos aires di quegli anni ci dice molto). la stessa città che in "divertimento" insetto e marta percorrono, simbolicamente, con l’aiuto di una guida. quando in "rayuela" il luogo non è buenos aires, ma parigi, lo spazio chiuso delle quattro mura ha finestre verso l’esterno, rumore di passi e voci, ticchettio della pioggia. non più una finestra che ne guarda un’altra di fronte, o che al massimo guarda sotto. oppure, come in "divertimento", una tenda che chiude la vista, con il solo spiraglio di un buco rettangolare – quasi il desiderio irrealizzabile di una via di fuga – dentro cui si vedono mucche pascolare, come in un quadro, non vive. a parigi lo spazio non intrappola, il tempo procede, le strade corrono, c’è la possibilità della libertà. e con essa, certo, la possibilità dello smarrimento, della disperazione, della perdizione. di nuovo il labirinto.

19 novembre 2007

Festina lente

L’acqua correva piano piano sotto il cielo.

Cesare Pavese, Il compagno, Einaudi