Se il libro non vende è sbagliato?
Giulio Lattanzi è da quasi cinque anni a capo della Rcs libri. È un manager puro che tiene la barra dritta sul conto economico, che progetta strategie finanziarie, opera fusioni, alleanze, acquisizioni. Insomma è uno che per il mestiere che fa non piacerebbe all’editore Giuseppe Laterza che, in un’intervista apparsa su queste pagine, si è detto molto preoccupato del ruolo di queste figure che rischiano di alterare il mercato librario. «Il manager», dice Lattanzi, «è un’esperienza più complessa, meno caricaturale di come Giuseppe Laterza l’ha dipinta».
Converrà che fare libri non è la stessa cosa del produrre automobili o panettoni.
«Lavoriamo dentro un’impresa con un forte tasso di innovazione, la cui molla culturale è la creatività. Più della metà del fat¬turato della nostra casa editrice proviene dai titoli nuovi che pubblichiamo. Non sappiamo in anticipo se venderanno bene. Ma siamo consapevoli che il loro successo è essenziale per l’andamento della casa editrice. Il profitto non è un obiettivo, è un vincolo che vale tanto per l’azienda automobilistica, quanto per quella che produce libri».
Ma il successo non può essere la sola componente?
«Pienamente d’accordo. Però non si può sputare sull’industria culturale e servirsene. Il bello dei libri è che quando si vendono concorrono alla formazione di una coscienza e garantiscono una pluralità di opinioni e di punti di vista che il cinema e la televisione non potrebbero soddisfare».
A proposito di industri a culturale quanti libri escono in generale in un anno?
«Le novità che finiscono sui banconi delle librerie sono circa 30mila titoli. È duro farsi strada».
Ne sanno qualcosa i piccoli editori. I quali tra l’altro si lamentano per la scarsa visibilità che hanno in libreria e per il fatto che i grandi gruppi editoriali fagocitano l’intero spazio.
«È un fatto che circa la metà del mercato editoriale è occupato da cinque o sei gruppi editoriali. Ma in questi gruppi prevale la diversificazione sull’omologazione».
Un’altra accusa che viene mossa a voi grandi è che drogate il mercato con una politica degli anticipi dissennata. Cioè date a un autore una somma talmente alta da tagliare fuori tre quarti della concorrenza.
«È evidente che un grande editore se può pagare di più un autore, e decide di farlo, sa che rischia qualora il libro non andasse secondo le aspettative. Poi la politica degli alti anticipi è applicata soprattutto per il mercato angloamericano. Infine non è vero che l’anticipo milionario è la precondizione per il successo del libro. Il caso di Stieg Larrson, pubblicato da Marsilio, quello della Muriel Barbery pubblicata da e/o o quello della Stephenie Meyer pubblicata da Fazi dimostrano che si possono realizzare successi clamorosi pagando pochissimo all’origine».
Come reagisce quando vede che un romanzo sfonda altrove: chiama a rapporto i suoi editor, li striglia, li sprona, che fa?
«Ovvio che la cosa non mi fa piacere. Ma la storia dell’editoria è piena di rifiuti che si sono trasformati in successi. A volte non ci si rende conto delle potenzialità di un libro. Altre ancora si rinuncia a partecipare a un’asta perché troppo cara».
Ce ne è una in particolare che rimpiange?
«Sicuramente quella per Dan Brown alla quale partecipammo fino a un certo punto. Ma non si può ragionare con il senno del poi».
Quel libro se lo aggiudicò la Mondadori. Se scorriamo le classifiche dei libri più venduti degli ultimi anni loro ci sono in modo massiccio, voi molto meno. Che cosa è che non funziona nella vostra fabbrica di bestseller?
«Intanto la Mondadori è il primo gruppo editoriale: ha una quota di mercato intorno al 27-28 per cento, mentre la nostra si aggira intorno al 13 percento. E questo incide. Se si aggiunge che il loro catalogo è in parte figlio di un’acquisizione sul mercato americano di autori di grande successo, si spiega perché fanno più bestseller di noi».
Fanno più bestseller e vincono più premi. Se la sente di commentare il meccanismo dello Strega?
«Nell’edizione di quest’anno, con il romanzo di Scurati pubblicato da Bompiani, siamo giunti secondi a un punto dal vincitore. Non vorrei che le mie parole fossero fraintese. Il Premio e la giuria sono prestigiosi. La domanda che mi pongo è questa: dal momento che la società letteraria su cui si fondava il Premio è diventata industria culturale, non andrebbe rivista la composizione della giu¬ria e cambiato il meccanismo di voto? Inoltre, è accettabile che la Mondadori si aggiudichi un nu¬mero di vittorie che si giustificherebbero per un gruppo che controlla il 70 per cento del mercato e non il 28?».
Svincolare il Premio dal potere di manovra delle case editrici?
«La liberazione totale è utopi¬stica. Ma sarebbe auspicabile che le case editrici facessero un piccolo passo indietro».
La Rcs libri quanti titoli produce?
«Un migliaio di novità all’anno. Tra le componenti principali del gruppo ci sono la Bompiani, Fabbri e Rizzoli di cui possediamo il cento percento. Marsilio di cui abbiamo acquisito il 51 percento, Skira con il 48 per cento e infine Adelphi con il 58 per cento».
È vero che quando avete rilevato la maggioranza dell’Adelphi Roberto Calasso non ha gradito?
«Ci sono sempre delle preoccupazioni ogni qualvolta subentra un socio di maggioranza. Ma la mia visione è massima indipendenza degli editor nella politica culturale».
Quella di Adelphi è stata definita snobistica. Come replica?
«È un’accusa ridicola formulata da Giuseppe Laterza. Stiamo parlando di una casa editrice che ha fatto un pezzo rilevante di storia culturale degli ultimi trent’anni. Se questo è snobismo viva lo snobismo. Dovremmo definire snobistica la riscoperta che Calasso ha fatto di Zia Mame, un libro uscito per la prima volta negli anni Sessanta e rilanciato oggi in una nuova traduzione? È snobistico che sia diventato il romanzo dell’estate?».
Sempre Laterza va giù pesante con la Fallaci, vostra autrice di punta. I suoi libri, in particolare La rabbia e l’orgoglio, inciterebbero all’odio. Che ha da dire?
«Ma scherziamo! La Fallaci è stata una voce indipendente, a volte ruvida, a volte provocatoria, ma autenticamente civile. Tanto è vero che stiamo riproponendo la sua opera con prefazioni di firme autorevoli che non necessariamente ne condividono le scelte. La verità è che quando si dice, come dichiara Laterza, che un buon editore è quello che possiede un intento pedagogico, mi chiedo che razza di pubblico di lettori immagina».
Ci sono buoni libri che non vendono. Lei è disposto a finanziarli con i libri di successo?
«È pericoloso sostenere che si pubblicano libri che hanno successo per farne altri che hanno solo un valore culturale. In sé non c’è niente di sbagliato, intendiamoci. Ma chi decide sul valore del libro? Se un libro non vende è quasi sempre un libro sbagliato».
La crisi mondiale dell’economia come si è riflessa sul libro?
In generale i consumi sono scesi mediamente del 9 percento, sono dati della Confcommercio. Anche il libro ha avuto la sua contrazione».
Si parla di un calo in Libreria attorno al 18 per cento. Molto al di sopra della media.
«Mi sembra una valutazione eccessiva. Le rilevazioni Nielsen dicono che il calo è tra il 5 e 10 per cento. A giugno davano un meno 4 per cento».
Il successo di una casa editrice sono i suoi libri e dietro ci sono gli autori. Quando uno di questi emigra verso un altro editore che cosa fa?
«Dovrei risponderle questo è mercato bellezza. Ma in realtà il rapporto che l’azienda ha con i suoi autori è complesso, sottile, a volte materno. E se uno di loro decide di andare via non puoi restare indifferente».
Cosa ha provato quando Alessandro Baricco ha deciso di lasciare la Rizzoli?
«Molta tristezza e anche un senso di sconcerto. Non ho mai capito, visti i risultati, perché un bravissimo produttore cinematografico come Domenico Procacci abbia voluto entrare nell’editoria».
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Antonio Gnoli, la Repubblica, 26 agosto 2009