Archive for agosto 2009

31 agosto 2009

Nel bianco

[…] trovo che l’inverno sia la stagione, con le sue piante condannate, gli alberi neri. Una volta, d’inverno, stavo percorrendo un sentiero desolato e mi sono lasciata cadere all’indietro di proposito, c’era quasi mezzo metro di neve. Sono rimasta immobile, con gli abiti che poco per volta si bagnavano e diventavano freddi. Sopra di me i rami si piegavano per la neve e, sebbene non sia un arbitro della bellezza, anche se mi piace trovare bellezza dove nessuno ne ha mai notata o in oggetti che non sono mai stati riprodotti e venduti come souvenir, confesso un certo sussulto provocatomi da quell’incontro del bianco con il nero degli alberi. Quel momento ha prodotto pensieri di un bene superiore, sia pure nella maniera più distaccata.

Heather McGowan, Duchessa del nulla, Nutrimenti-Greenwich

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31 agosto 2009

Elliot salva Barnes

Il romanzo «Nightwood» [di Djuna Barnes] era stato scritto nel 1920 ma era stato rifiutato da vari editori perché considerato osceno, a causa della rappresentazione di un rapporto amoroso burrascoso tra le due protagoniste femminili. Eliot era un ammiratore dello stile di scrittura della Barnes e volle a tutti i costi pubblicare il libro: così, per aggirare la rigida censura inglese, decise di cambiare un certo numero di riferimenti al sesso lesbico e alla religione, senza però alterarne la struttura narrativa.

dall’articolo di Luigi Mascheroni,"Quando l’austero Eliot difese la ‘lesbica’ Barnes", il Giornale, 31 agosto 2009

30 agosto 2009

Pudore

Se qualcuna delle mie parole
ti piace
e tu me lo dici
sia pur solo con gli occhi
io mi spalanco
in un riso beato
ma tremo
come una mamma piccola giovane
che perfino arrossisce
se un passante le dice
che il suo bambino è bello.

Antonia Pozzi, Pudore, 1933

29 agosto 2009

Sulla Duchessa

Potrebbe diventare un piccolo libro di culto del postfemminismo questo Duchessa del nulla della statunitense Heather McGowan. Libro in cui un’anonima protagonista, reagendo a ogni visione acquisita di femminilità, si lascia andare a una lucida autodistruzione, elucubrando prolissamente su ogni azione – anzi, su ogni rifiuto di azione – che la riguarda: lanciando invettive contro il matrimonio, la maternità, la vita spesa tra casa e lavoro, le faccende domestiche, ma anche contro la scuola e la poesia.
È difficile trovare nella narrativa contemporanea un personaggio così apatico, così cinico e, al tempo stesso, così privo di qualsiasi iniziativa, di qualsiasi volontà di vita, come colei che si autodefinisce «Duchessa del nulla». Qualcuno potrà forse apprezzare la volontà di épater le bourgeois che sostanzia la lucida scrittura di McGowan, magari plaudendo alle sue aforistiche battute, o immedesimandosi nella sua ribellione contro la piatta vita quotidiana della brave madri di famiglia. Personalmente, non credo sia un caso che il romanzo esca accompagnato dalle lodi entusiastiche di quattro autori «al maschile», uno dei quali — Rick Moody — considera l’autrice addirittura «la più elegante e lucida cesellatrice di prosa» degli ultimi anni. Il fatto che McGowan sia una grande stilista, è innegabile, così come non si stenta a crederle quando afferma di aver speso ben cinque anni per trovare la voce della protagonista. Peccato che quella voce, costruita così attentamente, sia stata donata dalla scrittrice a un personaggio fastidioso, verso il quale è impossibile provare alcun moto di empatia.
Un personaggio che potrà anche interessare chi lo consideri solo come una «voce», perfetta sul piano squisitamente tecnico dell’elaborazione testuale, ma che risulta del tutto carente di umanità. Non si tratta solo di una protagonista negativa: la letteratura mondiale è piena di grandi opere al cui centro stanno individui piccoli, meschini, oppure malvagi o antipatici. Qui il personaggio che dice io, e che è l’unico in scena dall’inizio alla fine, non è tanto negativo quanto abulico, è un personaggio fatto di niente che vive del e sul niente e in questo nichilismo trascina un bimbetto – senza nome anche lui – con cui si trova, suo malgrado, a condividere un periodo di abbandono e di stenti in una Roma maleodorante che sembra uscita da un film degli anni Cinquanta, dove le signore borghesi invise alla protagonista comperano guanti in piena estate e lei sogna un cappello sotto cui nascondersi.
Forse è proprio l’atteggiamento nei confronti del bambino a riuscire così sgradevole nel romanzo: soffocato dal diluvio di parole della donna, costretto a sopportare lunghe lezioni di vita che altro non sono se non vaneggiamenti di una mente malata, privato di un’educazione scolastica, ma autorizzato a fumare e bere caffè, il ragazzino di sette anni che, a tutta prima, sembra la vera vittima della storia, in realtà è il punto debole del romanzo, che si dimostra costruito a tavolino, con un fine lavoro di tecnica linguistica e stilistica, ma in completa assenza di analisi psicologica. Nessun bambino, infatti, reagirebbe a una simile situazione come il bimbo dalle movenze feline che segue la duchessa come un’ombra. E forse nessuna donna si metterebe in relazione con lei come lei a un ragazzino di sette anni. Ma è evidente che il romanzo di McGowan non vuole raccontare una storia, bensì soltanto introdurre il lettore nel flusso di coscienza di una mente disturbata. Siamo dalle parti della prima Jean Rhys, piuttosto che di Sylvia Plath, nume tutelare invocato nella quarta di copertina. E tuttavia, mentre dalle tristissime storie di donne alla deriva narrate da Rhys si esce sopraffatti da un senso di angoscia, qui, a lettura terminata, è la rabbia, o il disgusto, a prevalere. Leggendo ciò che dice la duchessa: «quando sto male mi piace stare peggio», si vorrebbe poterla assecondare sferrandole un bel cazzotto sui denti giallognoli da fumatrice incallita.

 
Silvia Albertazzi, il manifesto, 27 agosto 2009

28 agosto 2009

Sulla scrittura condizionata dal cinema

I film hanno sicuramente condizionato, specie dagli anni Ottanta, un certo stile visuale di parecchi scrittori. Ma lavorando, un autore non deve pensare: "Potrebbe diventare un film". La vera scrittura deriva dall’inconscio, è ben diversa dal mestiere dello sceneggiatore.

Bret Easton Ellis

28 agosto 2009

28 agosto 2009

La moda della solitudine nei titoli dei libri

La solitudine fa gruppo. E, di conseguenza, fa moda. «Solitudine» è una parola molto letteraria. In fondo, quando si scrive, si scrive da soli, e quando si legge, pure. È comprensibile, quindi, che scorrendo i titoli dei libri usciti negli ultimi anni, faccia capolino, più o meno discretamente, come le conviene. Eclatante, a causa del fiume di copie vendute, il caso de La solitudine dei numeri primi, di Paolo Giordano (Mondadori). Accostare quel termine così poetico ed evocativo alla (apparente) freddezza dell’aritmetica è stata una mossa che ha dato buoni frutti. C’è poi La solitudine del maratoneta (minimum fax), il racconto di Allan Sillitoe ripubblicato a 50 anni dalla prima uscita: è la storia di un giovane carcerato il quale evita la vittoria in una gara di corsa che gli darebbe la libertà perché, ormai, della libertà ha perso il gusto. Gli ci vorrebbe, per ritrovarlo, un amore. Come accade a Yuki, protagonista di La solitudine dell’amore, di Raffaella Bedini (Newton Compton). Al contrario, La fortezza della solitudine (Net) nella quale lo ha messo Jonathan Lethem sta molto stretta al giovane Dylan Edbus, visto che per lui, bianco, la Brooklyn degli anni ’70, abitata quasi esclusivamente da neri, più che una fortezza è una galera. Peggio ancora se la passa la Stephen di Radclyffe Hall in Il pozzo della solitudine (Corbaccio). Sì, la Stephen, perché i suoi genitori avevano scelto quel nome per il maschietto che tanto desideravano e, ottusamente, lo affibbiano alla malcapitata, dando il via a un corollario di turbe sessuali e disagi. Altri disagi e, forse, il male di vivere da essi derivato sono quelli che portarono alla sparizione del professor Federico Caffè, il 15 aprile del 1987. In L’ultima lezione. La solitudine di Federico Caffè scomparso e mai più ritrovato (Einaudi), Ermanno Rea ci offre un ritratto in forma di romanzo dell’uomo che sognava un’economia diversa: lo studio non del modo più redditizio per aggredire il mercato, ma del modo più giusto per distribuire la ricchezza. Augurargli oggi, con Gabriel García Márquez, Cent’anni di solitudine è troppo ottimistico.

Daniele Abbiati, "È la solitudine il personaggio del momento", il Giornale, 28 agosto 2009

27 agosto 2009

La Woolf stronca l’episolario di Lawrence

Leggo anche D.H. Lawrence con il solito senso di delusione, e sentendo che io e lui abbiamo troppo in comune. La stessa urgenza di essere noi stessi, cosicché non evado, leggendolo: rimango sospesa. Ciò che voglio, invece, è di poter entrare liberamente in un altro mondo… Lawrence per me è soffocante, chiuso; non voglio questo, continuo a dire. E poi, la ripetizione della stessa idea. Neppure questo voglio. Non voglio assolutamente una filosofia, non credo negli enigmi interpretati da altri. Quello che mi piace… è l’immediatezza delle immagini; il gran fantasma che balza sull’onda degli spruzzi marini in Cornovaglia. Ma le sue spiegazioni di ciò che vede non mi soddisfano. E poi è angoscioso: questa ricerca affannosa di qualcosa; e "mi restano 6 sterline e 10", e poi il Governo che lo caccia a pedate come un cane e mette al bando il suo libro; la brutalità del mondo civile verso quest’uomo affannoso e tormentato; tutto così inutile. Tutto questo dà un tono da incubo alle sue lettere. E niente appare mai essenziale. Ansima, si dibatte. E non mi piace neppure questo strimpellare con due dita — e l’arroganza. Insomma, la lingua inglese ha un milione di vocaboli: perché adoperarne solo sei, e, oltretutto, compiacersene? Ma è il tono da predicatore che mi irrita; come quello di uno che pronunci un verdetto quando soltanto la metà dei fatti gli è nota e si aggrappa alle sbarre e sputa sentenze.

Virginia Woolf, Ritratti di scrittori, Pratiche Editrice

26 agosto 2009

Memo

A Perpignan tornano gli sguardi che pungono.

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Jerome Sessini,

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Narcotici, dal reportage

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“So far from God, too close to the Usa”, Messico

Jerome Sessini partecipa al Festival Internazionale del Fotogiornalismo (Perpignan, 29 agosto-13 settembre 2009).

26 agosto 2009

Se il libro non vende è sbagliato?

Giulio Lattanzi è da quasi cinque anni a capo della Rcs libri. È un manager puro che tiene la barra dritta sul conto economico, che progetta strategie finanziarie, opera fusioni, alleanze, acquisizioni. Insomma è uno che per il mestiere che fa non piacerebbe all’editore Giuseppe Laterza che, in un’intervista apparsa su queste pagine, si è detto molto preoccupato del ruolo di queste figure che rischiano di alterare il mercato librario. «Il manager», dice Lattanzi, «è un’esperienza più complessa, meno caricaturale di come Giuseppe Laterza l’ha dipinta».

Converrà che fare libri non è la stessa cosa del produrre automobili o panettoni.
«Lavoriamo dentro un’impresa con un forte tasso di innovazione, la cui molla culturale è la creatività. Più della metà del fat¬turato della nostra casa editrice proviene dai titoli nuovi che pubblichiamo. Non sappiamo in anticipo se venderanno bene. Ma siamo consapevoli che il loro successo è essenziale per l’andamento della casa editrice. Il profitto non è un obiettivo, è un vincolo che vale tanto per l’azienda automobilistica, quanto per quella che produce libri».

Ma il successo non può essere la sola componente?
«Pienamente d’accordo. Però non si può sputare sull’industria culturale e servirsene. Il bello dei libri è che quando si vendono concorrono alla formazione di una coscienza e garantiscono una pluralità di opinioni e di punti di vista che il cinema e la televisione non potrebbero soddisfare».

A proposito di industri a culturale quanti libri escono in generale in un anno?
«Le novità che finiscono sui banconi delle librerie sono circa 30mila titoli. È duro farsi strada».

Ne sanno qualcosa i piccoli editori. I quali tra l’altro si lamentano per la scarsa visibilità che hanno in libreria e per il fatto che i grandi gruppi editoriali fagocitano l’intero spazio.
«È un fatto che circa la metà del mercato editoriale è occupato da cinque o sei gruppi editoriali. Ma in questi gruppi prevale la diversificazione sull’omologazione».

Un’altra accusa che viene mossa a voi grandi è che drogate il mercato con una politica degli anticipi dissennata. Cioè date a un autore una somma talmente alta da tagliare fuori tre quarti della concorrenza.
«È evidente che un grande editore se può pagare di più un autore, e decide di farlo, sa che rischia qualora il libro non andasse secondo le aspettative. Poi la politica degli alti anticipi è applicata soprattutto per il mercato angloamericano. Infine non è vero che l’anticipo milionario è la precondizione per il successo del libro. Il caso di Stieg Larrson, pubblicato da Marsilio, quello della Muriel Barbery pubblicata da e/o o quello della Stephenie Meyer pubblicata da Fazi dimostrano che si possono realizzare successi clamorosi pagando pochissimo all’origine».

Come reagisce quando vede che un romanzo sfonda altrove: chiama a rapporto i suoi editor, li striglia, li sprona, che fa?
«Ovvio che la cosa non mi fa piacere. Ma la storia dell’editoria è piena di rifiuti che si sono trasformati in successi. A volte non ci si rende conto delle potenzialità di un libro. Altre ancora si rinuncia a partecipare a un’asta perché troppo cara».

Ce ne è una in particolare che rimpiange?
«Sicuramente quella per Dan Brown alla quale partecipammo fino a un certo punto. Ma non si può ragionare con il senno del poi».
Quel libro se lo aggiudicò la Mondadori. Se scorriamo le classifiche dei libri più venduti degli ultimi anni loro ci sono in modo massiccio, voi molto meno. Che cosa è che non funziona nella vostra fabbrica di bestseller?
«Intanto la Mondadori è il primo gruppo editoriale: ha una quota di mercato intorno al 27-28 per cento, mentre la nostra si aggira intorno al 13 percento. E questo incide. Se si aggiunge che il loro catalogo è in parte figlio di un’acquisizione sul mercato americano di autori di grande successo, si spiega perché fanno più bestseller di noi».

Fanno più bestseller e vincono più premi. Se la sente di commentare il meccanismo dello Strega?
«Nell’edizione di quest’anno, con il romanzo di Scurati pubblicato da Bompiani, siamo giunti secondi a un punto dal vincitore. Non vorrei che le mie parole fossero fraintese. Il Premio e la giuria sono prestigiosi. La domanda che mi pongo è questa: dal momento che la società letteraria su cui si fondava il Premio è diventata industria culturale, non andrebbe rivista la composizione della giu¬ria e cambiato il meccanismo di voto? Inoltre, è accettabile che la Mondadori si aggiudichi un nu¬mero di vittorie che si giustificherebbero per un gruppo che controlla il 70 per cento del mercato e non il 28?».

Svincolare il Premio dal potere di manovra delle case editrici?
«La liberazione totale è utopi¬stica. Ma sarebbe auspicabile che le case editrici facessero un piccolo passo indietro».

La Rcs libri quanti titoli produce?
«Un migliaio di novità all’anno. Tra le componenti principali del gruppo ci sono la Bompiani, Fabbri e Rizzoli di cui possediamo il cento percento. Marsilio di cui abbiamo acquisito il 51 percento, Skira con il 48 per cento e infine Adelphi con il 58 per cento».

È vero che quando avete rilevato la maggioranza dell’Adelphi Roberto Calasso non ha gradito?
«Ci sono sempre delle preoccupazioni ogni qualvolta subentra un socio di maggioranza. Ma la mia visione è massima indipendenza degli editor nella politica culturale».

Quella di Adelphi è stata definita snobistica. Come replica?
«È un’accusa ridicola formulata da Giuseppe Laterza. Stiamo parlando di una casa editrice che ha fatto un pezzo rilevante di storia culturale degli ultimi trent’anni. Se questo è snobismo viva lo snobismo. Dovremmo definire snobistica la riscoperta che Calasso ha fatto di Zia Mame, un libro uscito per la prima volta negli anni Sessanta e rilanciato oggi in una nuova traduzione? È snobistico che sia diventato il romanzo dell’estate?».

Sempre Laterza va giù pesante con la Fallaci, vostra autrice di punta. I suoi libri, in particolare
La rabbia e l’orgoglio, inciterebbero all’odio. Che ha da dire?
«Ma scherziamo! La Fallaci è stata una voce indipendente, a volte ruvida, a volte provocatoria, ma autenticamente civile. Tanto è vero che stiamo riproponendo la sua opera con prefazioni di firme autorevoli che non necessariamente ne condividono le scelte. La verità è che quando si dice, come dichiara Laterza, che un buon editore è quello che possiede un intento pedagogico, mi chiedo che razza di pubblico di lettori immagina».

Ci sono buoni libri che non vendono. Lei è disposto a finanziarli con i libri di successo?
«È pericoloso sostenere che si pubblicano libri che hanno successo per farne altri che hanno solo un valore culturale. In sé non c’è niente di sbagliato, intendiamoci. Ma chi decide sul valore del libro? Se un libro non vende è quasi sempre un libro sbagliato».

La crisi mondiale dell’economia come si è riflessa sul libro?
In generale i consumi sono scesi mediamente del 9 percento, sono dati della Confcommercio. Anche il libro ha avuto la sua contrazione».

Si parla di un calo in Libreria attorno al 18 per cento. Molto al di sopra della media.
«Mi sembra una valutazione eccessiva. Le rilevazioni Nielsen dicono che il calo è tra il 5 e 10 per cento. A giugno davano un meno 4 per cento».

Il successo di una casa editrice sono i suoi libri e dietro ci sono gli autori. Quando uno di questi emigra verso un altro editore che cosa fa?
«Dovrei risponderle questo è mercato bellezza. Ma in realtà il rapporto che l’azienda ha con i suoi autori è complesso, sottile, a volte materno. E se uno di loro decide di andare via non puoi restare indifferente».

Cosa ha provato quando Alessandro Baricco ha deciso di lasciare la Rizzoli?
«Molta tristezza e anche un senso di sconcerto. Non ho mai capito, visti i risultati, perché un bravissimo produttore cinematografico come Domenico Procacci abbia voluto entrare nell’editoria».
 

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Antonio Gnoli, la Repubblica, 26 agosto 2009