Superbia
In verità anche il letto vuoto è un peso per loro,
una finzione.
Charles Simic
Superbia
In verità anche il letto vuoto è un peso per loro,
una finzione.
Charles Simic
Il Diritto
Ero molto sicuro di ciò che dicevo. Quando la mamma organizzava partite di burraco in cui si vincevano i sacchetti di farro, papà si rifiutava di partecipare. Vincere il farro era un’idiozia identica a ributtare i pesci in acqua dopo averli tirati su, diceva. E i pesci avevano il diritto di non essere presi in giro, come gli uomini.
Letizia Muratori, La casa madre, Adelphi
Ferito
C’è un errore nel menu dell’ospedale, stamattina. Volevano dire, credo, che stasera il brasato verrà servito con tagliatelle al burro. Invece sul menu che portano con il vassoio della colazione, c’è scritto che il brasato verrà ferito con tagliatelle al burro.
Amy Hempel, incipit di "Andare", Ragioni per vivere
A Hit Is a Hit Is a Hit Is a Hit
Se è vero, come pare, che dopo anni di autarchia l’editoria americana traduce sempre più libri stranieri (e il lavoro del traduttore è visto con una certa meraviglia e – santa abitudine – sempre accreditato in copertina) rimane da capire quali libri italiani contemporanei abbiano un vero successo oltre oceano. Una domanda che (mi) intriga da qualche tempo, ma cui non saprei dare una risposta netta. E l’indice Nielsen non è di grande aiuto per i nostri titoli.
Europa Editions, emanazione transatlantica di e/o, è stata celebrata dal New York Times qualche tempo fa per il suo lavoro d’avanguardia nel portare libri tradotti negli States, ma, mentre mi è capitato spesso – per quanto mi renda conto che non sia un metodo accurato di rilevazione – di vedere gente leggere L’eleganza del riccio, non ho ancora visto nessuno leggere o parlare di Valeria Parrella o Massimo Carlotto. Nomi che circolano tra gli addetti lavori, ma per ora non molto di più. Lo stesso vale per altri titoli italiani, da Giordano (presto per parlarne comunque, uscirà per Viking all’inizio del 2010) a Saviano ovviamente (più noto come personaggio che letto) fino ad Ammaniti. I’m Not Scared ha fatto bene, mentre As God Commands, per esempio, esce in questi giorni, tradotto con un titolo che purtroppo sacrifica la profondità dell’originale (The Crossroads è il titolo dell’edizione UK), e, nell’ambito del catalogo di Black Cat, mi sembra un po’ mandato allo sbaraglio.
I tempi sono (forse, quasi) maturi per forzare il blocco, ma credo che ci voglia il libro giusto, quello che fa saltare il banco. Mi viene in mente un vecchio episodio dei Sopranos, in cui Christopher Moltisanti viene convinto dalla fidanzata Adriana La Cerva a produrre il disco di un cantante minore del New Jersey, e lui poi propone la demo a Hesh Rabkin, consulente della famiglia con un passato nell’industria discografica. La sentenza impietosa è (pun intended, visto che Chris è reduce da un colpo che ha fruttato alla famiglia un mucchio di soldi) "a hit is a hit. And this is not a hit".
Intervista a Calasso sulla presunta cecità dei lettori italiani
E la barbarie avanza. E questa tivù commerciale ha rimbecillito il Paese. E ormai nessuno legge più. E invece di comprare libri, vanno al ristorante. Risuona così, sostanzialmente, la geremiade, costante e irritante come il gocciolamento d’un rubinetto sfilettato, che si distilla sul pavimento del suolo culturale italiano ogni due per tre. Eppure Roberto Calasso, l’editore principe, con l’Adelphi, di questo strano Paese — e autore, tra l’altro de Le nozze di Cadmo e Armonia (1988) e del recente La Folie Baudelaire — ribalta completamente tale falsa credenza, una delle svariate in circolo, mentre lo Stivale tenta di dare un calcio alla fuffa, in specie quella addensata sul Kulturmarket. Partendo da un «caso caldo», ovvero dallo straordinario successo, di critica e di pubblico, del romanzo Vita e destino — ripubblicato l’anno scorso da Adelphi e ancora molto venduto in libreria –, il capolavoro di Vasilij Grossman, collocabile, per lo scrittore e saggista George Steiner, tra i libri «che eclissano quasi tutti i romanzi che oggi, in Occidente, vengono presi sul serio». Se poi leghiamo la vicenda personale di Grossman, uno dei numerosi intellettuali sovietici che rischiò la morte negli anni di Stalin, al fatto che le lenti dell’ideologia tuttora sfocano l’immagine culturale dell’Italia, c’è di che riflettere. «Era tempo, per ciascuno di noi, di sbarazzarsi dello schiavo che è in noi», questa la frase-guida di Grossman, al quale due agenti del KGB, nel 1961, confiscarono non solo il manoscritto di Vita e destino, ma anche le carte carbone, le minute, i nastri della macchina per scrivere.
Lei condivide l’opinione diffusa per cui gli italiani sarebbero cattivi lettori, anzi non-lettori direttamente, rispetto ad altri popoli europei?
«Non mi pare che sia così. I lettori italiani sono definiti ciechi da chi è più cieco di loro. Gli agenti letterari stranieri, per esempio, lo sanno e anche al Salone del Libro di Francoforte cercano subito gli editori italiani. I quali saranno anche talvolta incoscienti, però sono curiosi e reagiscono immediatamente alle novità. Quelli che affermano: “Gli italiani non leggono più” spesso si troverebbero in imbarazzo se dovessero parlare di un libro che hanno appena letto».
Come mai, allora, persiste questa vulgata sulla pretesa cecità dei lettori italiani?
«Di fatto, i veri numeri e i veri meccanismi della vita editoriale non sono così noti. In Italia, come in tutto il resto del mondo, si vendono anche i libri delle collane rosa del genere “Harmony”, ma non solamente quelli. Anzi, l’Italia è un Paese di grande editoria, uno dei Paesi più importanti anche sotto il profilo del mercato. Per esempio, la Spagna ha un potenziale di lettori molto più vasto, dato che lo spagnolo è lingua ben più diffusa dell’italiano. Però, fino ad oggi, era piuttosto l’editoria spagnola che seguiva l’editoria italiana. Gli italiani sono autolesionisti e poca gente conosce le reali cifre del mondo librario».
I lettori italiani figurano, così, tra i più avvertiti al mondo: può fare qualche esempio?
«Pensando alla mia esperienza diretta, posso dire che in questi ultimi anni abbiamo pubblicato vari libri che hanno avuto, in Italia, un successo molto maggiore che negli Stati Uniti o in Inghilterra, loro Paesi d’origine: per esempio La versione di Barney di Mordecai Richler, che è diventato un libro immensamente popolare. O anche Follia di Patrick McGrath o Quella sera dorata di Peter Cameron. E Zia Mame è solo l’esempio più recente. Allora di che lamentarsi? L’unico lamento giusto è quello di certi librai indipendenti e coraggiosi, che hanno vita difficile, rispetto ad altri. Però il lamento sulla quantità di copie vendute, quanto ai libri, è sbagliato. Ci sono casi clamorosi a smentirlo. Come quello, appunto, di Vita e destino di Vasilij Grossman: un libro arduo, giunto alla quinta ristampa in pochi mesi che sta toccando le 40.000 copie e continua a vendersi regolarmente, pur essendo un romanzo di grossa mole, dove non è semplice orientarsi».
Che cosa hanno apprezzato, secondo lei, i lettori del romanzo grossmaniano, avversato dall’ideologo di Stalin, Michail Suslov, che equiparava il libro, ambientato a Stalingrado durante l’assedio nazista, «alle bombe atomiche che i nemici dell’Urss si apprestano a lanciare contro di noi»?
«Il soffio epico, innanzitutto. Qualità molto rara nella letteratura del Novecento. Non c’è un altro romanzo che sia riuscito a raccontare ciò che avveniva intorno allo scontro decisivo di Stalingrado con altrettanta lucidità e con sguardo equanime sia rispetto alla Russia sovietica sia rispetto alla Germania nazista. Grossman è capace di mostrare l’orrore sovietico dall’interno, dopo aver dedicato alcuni scritti a celebrare le glorie del bolscevismo. E tanto più convincente suona così la sua voce».
I tempi sono maturi, perché si comprendano gli orrori di ogni totalitarismo?
«Per quanto riguarda la Russia, è stato Grossman stesso, in due pagine memorabili di Vita e destino, a indicare quale era il più efficace contravveleno per il sovietismo: leggere e capire Cechov».
Cinzia Romani, "I lettori italiani? Ci vedono più lungo di tanti intellettuali", Il Giornale, 27 ottobre 2009
Si offre un lavoro alla Fnac
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L’utilità degli scioperi
Oggi un ragazzo in libreria leggeva, seduto su una poltroncina nel reparto poesia, questa poesia alla sua ragazza. Sottovoce. Avranno avuto sì e no 16 anni. La prima cosa che mi è venuta in mente quando li ho visti sono state quelle mattine sotto al mio liceo quando c’era uno sciopero in vista. A quelle dinamiche sociali che si scatenavano in quei momenti. Entri? Non entri? Sei uno stronzo se entri. Non posso farlo. E tante altre. A quanti tipi umani vengono fuori in quelle mattinate. E uno dei ricordi più dolci che ho. E ho sempre pensato che chi ha frequentato le scuole private per la sola mancanza di quelle mattine è un piccolo zoppo sociale.
Rarissime volte si andava alla manifestazione, anche perché pochissime volte c’era una manifestazione. Spesso si faceva sciopero perché arrivavano voci incontrollabili di scioperi in Romania e bastava quello per scatenare il passaparola. Amavo gli scioperi fatti da una sparuta minoranza, anche perché erano totalmente inaspettati. Ma sto divagando…
Ebbene ‘sti due ragazzetti stamattina hanno fatto sciopero e sono venuti in libreria. Lo sciopero c’era, era di quelli lì senza discussione. Loro sono fidanzati da pochissimo, mi hanno poi raccontato.ed è per questo motivo che si sono voluti staccare dalla massa scolastica. E lui ha deciso di portarla al centro commerciale, moderna versione del parco di una volta. Pioveva, mi ha detto giustificandosi. Ma il tocco di classe poi lui l’ha avuto e io ne sono stato un testimone privilegiato. Lei si è avvicinata al reparto poesia perché voleva fargli vedere un libro di Hikmet. Lui lo ha sfogliato e niente. Poi lei si è allontanata e lui immediatamente ha preso un libro di Neruda cercando qualcosa. Lei è tornata, lui l’ha fatta sedere sulle ginocchia e ha cominciato a leggerle questa meraviglia (poesia che amo infinitamente)… Lui: un grande.
Bimba bruna e flessuosa, il sole che fa la frutta,
quello che riempie il grano, quello che piega le alghe,
ha fatto il tuo corpo allegro, i tuoi occhi luminosi
e la tua bocca che ha il sorriso dell’acqua.
Un sole nero e ansioso si attorciglia alle matasse
della tua nera chioma, quando allunghi le braccia.
Tu giochi con il sole come un ruscello
e lui ti lascia negli occhi due piccoli stagni scuri.
Bimba bruna e flessuosa, nulla mi avvicina a te.
Tutto da te mi allontana, come dal mezzogiorno …
Sei la delirante gioventù dell’ape,
l’ebbrezza dell’onda, la forza della spiga.
Eppure il mio corpo cupo ti cerca,
e amo il tuo corpo allegro, la tua voce disinvolta e sottile.
Farfalla bruna dolce e definitiva
come il campo di grano e il sole, il papavero e l’acqua.
Dal sogno alla realtà
Un aereo. Adesso è un aereo che mi appare nel sonno. Un tempo sfrecciavano treni nei miei sogni. Un’infinità di treni, mi davano incubi.
I treni arrivavano. I treni partivano. Mi portavano passeggeri. E ripartivano vuoti.
Adesso i treni sono scomparsi. L’ultimo si è portato via René. René era il mio vicino. Il mio primo vicino di casa olandese.
Il mio mondo è diviso in due parti. Una è tra le montagne della mia patria. L’altra è qui, in un paesino sulle rive dell’IJssel. Non sono io che l’ho voluto.
Ma non ho avuto scelta.
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È successo al di sopra della mia testa.
Vivo in una casa d’angolo. Alla nostra destra non ci sono altre case. René abitava a sinistra. La prima volta che l’ho visto era nel giardino sul retro della casa. Anche in seguito è rimasto quasi l’unico posto in cui lo incontravo. Tutti i ricordi che ho di lui sono legati al nostro giardino.
René è scomparso con l’ultimo treno, ma il suo giardino c’è ancora.
Hella Haasse, Di passaggio, Iperborea
Nenia dal bianco
In un angolo giaceva, come gettato via, un blocco da disegno. Lo raccolsi, tolsi la polvere e lo aprii. Il solito volto, visto dall’alto, visto dal basso, visto da ogni angolazione, una volta, come fosse una maschera, visto addirittura dall’interno. Gli schizzi erano disegnati a carboncino, sempre più incerti, i tratti si facevano tremolanti e non riuscivano a incontrarsi, alla fine non restava che una spessa macchia nera. Schegge di carbone stillavano verso di me. Le pagine che rimanevano erano bianche.
Daniel Kehlmann, Io e Kaminski, Voland
Rossari intervista Fatica
D: Intervistare un poeta è impossibile, forse è assurdo perfino scriverne, ma ci possiamo provare. Partiamo dall’inizio, che è poi la fine. Quando leggo i saggi che hai scritto in prosa – nei libri che hai tradotto o su "Alias" – sento una densità a cui la pagina va un po’ stretta e che preme verso la poesia. Non ti voglio chiedere se è nato prima l’uovo o la gallina, ma se l’accensione che ti ha spinto a versificare è nata (anche) dalla prosa. E non intendo dalla prosa tradotta, ma dalla prosa in sé. O viceversa se il fatto di versificare si proietti sul tuo stile in prosa.
R: Non ti ripeterò che tutto o quasi quel che messo per iscritto trova e prende ritmo è poesia ma la mia idea di prosa è comunque vicina a quella praticata da Mandel’stam o Benn, o altri di questo tenore, e di quella tenuta; pensa alla Quarta prosa o al Tolemaico, ma anche a saggi a un primo sguardo più normali. Una prosa così ha l’intensità linguistica del verso, e la densità e la precisione di pensiero attribuite alla prosa. Altri esempi di prose impossibili e amatissime da me sono le pagine frammentarie, concentrate, di certi filosofi tedeschi, da Hammann o Novalis fino al Weininger delle "cose ultime". E oggi trascurata per non dire evitata dai più è una certa libellistica ultraviolenta di tradizione tutta francese, che a partire da Vallès, Darien o Bloy culmina e finisce con Céline. Nei due casi, pensiero e sentimenti spinti all’estremo. È probabile che pagine così abbiano contribuito a portarmi alla poesia. Ora, di riflesso, la prosa è accesa dallo specchio ustorio dei versi. Anche in prosa perseguo un ritmo di immagini, di idee, per arrivare a un corto circuito che getti nuova luce magari su un’opera o un artista che al momento mi trovo a dover "curare".
Tratta da Il primo amore. Leggi tutta l’intervista qui.