Archive for agosto 2011

31 agosto 2011

Treno di vita 

Tutte le volte che ho il portafogli pieno, tutte le volte che prendo un treno per un’altra città mi sembra che una nuova vita stia per iniziare.

John Cheever, L'autobiografia di un commesso viaggiatore

31 agosto 2011

Franzen su Wallace 

David non era secondo a nessuno nel descrivere il tempo atmosferico, e per i suoi cani provava un amore più puro che per qualunque altra cosa, ma la natura in sé non gli interessava ed era del tutto indifferente agli uccelli. […]
E mentre lui s'immergeva nei suoi sonnellini farmacologici pomeridiani e io studiavo gli uccelli dell'Equador per un viaggio imminente, compresi che la differenza tra la sua infelicità ingestibile e i miei gestibili malcontenti stava nel fatto che io potevo fuggire da me stesso e rifugiarmi nelle gioie del birdwatching, mentre lui non poteva farlo. […]
La narrativa di David è popolata di ipocriti, manipolatori e persone emotivamente isolate, eppure chi lo conobbe in modo fugace o formale prese alla lettera le sue faticose doti di ipergentilezza e saggezza morale.
La cosa singolare nella narrativa di David, tuttavia, è quel senso di accettazione e conforto, quella sensazione di essere amati che proviamo per i suoi lettori più devoti quando lo leggono. […]
Io e David avevamo un'amicizia basata sul confronto e sulla (fraterna) competizione. […]
Era amabile come può esserlo un bambino ed era capace di ricambiare l'amore con la purezza di un bambino. Se l'amore è comunque escluso dalle sue opere, è solo perché non aveva mai davvero pensato di meritarselo.
 
Jonathan Franzen, "L'isola più lontana", Internazionale, 26 agosto 2011, traduzione di Silvia Pareschi 

Pubblicità

30 agosto 2011

Sogno americano 

In America spesso l'autore segue fedelmente l'editor che cambia casa editrice: lo hanno fatto, tra gli altri, Alice Munro, Don DeLillo, perfino Stephen King.
 
Marisa Caramella (editor Bollati Boringhieri), il manifesto, 30 agosto 2011

29 agosto 2011

Amare non vuol dire essere amati

A come Apparenza

È un amore disinteressato: Tereza non vuole nulla da Karenin. Non vuole nemmeno l’amore. Non si è mai posta quelle domande che torturano le coppie umane: mi ama? Ha mai amato qualcuna più di me? Mi ama più di quanto lo ami io? Forse tutte queste domande rivolte all’amore, che lo misurano, lo indagano, lo esaminano, lo sottopongono a interrogatorio, riescono anche a distruggerlo sul nascere. Forse non siamo capaci di amare proprio perché desideriamo essere amati, vale a dire vogliamo qualcosa (l’amore) dell’altro invece di avvicinarci a lui senza pretese e volere solo la sua semplice presenza.

Milan Kundera, L’insostenibile leggerezza dell’essere

27 agosto 2011

La coda 

Una coda è spesso di grande utilità. Ci posso rovesciare vasi di fiori giù dal tavolo. La posso gonfiare se qualcosa non mi va a genio. La posso arrotolare al corpo quando riposo. […]
Se per sbaglio ruzzolo giù dalla finestra, la coda mi rende servizi preziosi. La uso in aria come un timone un timone e alla fine riesco a cadere sulle zampe.
Quei bipedi senza coda, invece, si schiantano inesorabilmente a terra.
 
Remco Campert, Diario di un gatto, elliot

25 agosto 2011

       
Autore delle copertine: David Pearson.
Fonte: The Book Cover Archive.

25 agosto 2011

Le pietre 

Nel mezzo del cammino c’era una pietra
c’era una pietra nel mezzo del cammino
c’era una pietra
nel mezzo del cammino c’era una pietra.

Non dimenticherò mai questo avvenimento
nella vita delle mie retine così affaticate.
Non dimenticherò che nel mezzo del cammino
c’era una pietra
c’era una pietra nel mezzo del cammino
nel mezzo del cammino c’era una pietra.
 
Carlos Drummond De Andrade

24 agosto 2011

 
Susanna Coffey

24 agosto 2011

Libri che rimangano permanentemente sul bancone

«Che genere di libri vi interessa?» Alle prime Buchmesse cui partecipi capita di incontrare editori o agenti che non conosci, o non conoscono te. E in genere, dopo il sinistro schiocco della pinzatrice con cui il tuo biglietto da visita viene incorporato nel quadernetto dello sconosciuto, la domanda che ti senti rivolgere è questa. Ovviamente non si sa cosa rispondere, o almeno non ho mai saputo cosa rispondere io. Credo di non essere mai andato oltre un illuminante «libri», incoraggiando così il mio dirimpettaio (più spesso una dirimpettaia) a scorrere il nostro catalogo, alzare un sopracciglio, e dire qualcosa come, «ho uno straordinario reportage dall’Iraq, il primo di una donna soldato. C’è tutto, guerra, sesso, commedia, anche scrittura. Negli Stati Uniti è considerato il libro dell’anno, però non penso che faccia per voi».
Non ho tenuto il conto, ma credo di avere speso una parte considerevole della mia vita lavorativa a tentare di convincere vari interlocutori che sì, un certo libro faceva per noi (al contrario di altre proposte, tipo quella che pochi anni fa mi era stata descritta come di estremo interesse: «Autore tedesco, morto da poco. Conchiglie. Simboli. A Roma. Perfetto per voi, no?».
In alcune circostanze questo corpo a corpo con la propria immagine ha assunto connotati paradossali. Anni fa avevamo deciso di comprare il breve libro di memorie di un giovane attore off americano, che per un anno della sua vita, a Los Angeles, aveva esercitato il mestiere più antico del mondo. Il racconto era divertentissimo, e l’autore — che avevo conosciuto ad Amsterdam insieme alla produttrice dello spettacolo tratto dal libro, Xaviera Hollander — sarebbe stato felice di venire da noi. Il problema era il suo editore scozzese, Canongate, col quale peraltro siamo in rapporti piuttosto stretti. Sulla cifra ci eravamo accordati subito, ma a metà trattativa Canongate ci aveva scritto esprimendo il dubbio che il libro fosse adatto al nostro catalogo. Seguiva richiesta di una dimostrazione (scritta anch’essa) del nostro genuino interesse per l’autore, la sua storia, i suoi temi.
Non ricordo di avere redatto lettere molto più imbarazzanti. La prima parte era una dichiarazione più o meno giurata della nostra fascinazione per tutto quanto attenesse alla sfera del sesso, in senso lato e naturalmente in quello editoriale. Al termine dell’arringa chiamavo a deporre una persona per definizione informata dei fatti, e cioè Nell Kimball, le cui Memorie di una maitresse americana erano state non solo uno dei primi titoli pubblicati da Adelphi, ma anche uno dei suoi long seller. Alla fine il libro siamo anche riusciti a prenderlo, ma per un attimo ricordo di aver pensato che avrei fatto meglio a seguire i consigli di Xaviera, che quella sera sedeva alla cassa e sbigliettava. Dopo avermi strappato di mano una banconota da cento, comunicandomi che teneva il resto come finanziamento alla compagnia, Xaviera mi aveva passato una copia del suo libro più celebre, The Happy Hooker. Pubblica questo, mi aveva detto, se vuoi te lo vendo anche stasera.
Questi traffici hanno un loro coefficiente di intrattenimento, ma ammetto che non aiutano a rispondere alla domanda iniziale in modo più articolato. Ci interessano i libri, e tutto sommato non è poco — più passa il tempo, più è bene non dare quella parolina, «libro» per acquisita. Bene, ma quali libri?
Oh, libri molto lontani fra loro. So benissimo come si immagina che passiamo il tempo, alla Adelphi: sfogliando vecchi cataloghi, e scegliendo titoli — non riesco neanche a scriverlo — sofisticati, elitari, snob, possibilmente di autori defunti. Ora, mi piacerebbe molto fosse vero, perché significherebbe che tutti i giorni parteciperei a dialoghi del tipo «hai letto X?». «Sì, è buono, ma cosa vuoi che ti dica, non mi sembra abbastanza elitario. Poi scusa, ho saputo (pausa di contrizione, o smorfia di ribrezzo) che l’autore è vivo». Spiace sempre sfatare una leggenda, ma purtroppo — ripeto, purtroppo — non accade nulla del genere. Alla Adelphi cerchiamo libri scritti oggi come negli ultimi secoli (e in qualche caso millenni), ma se l’uomo produce testi da tempo immemorabile non ci sentiamo di farcene una colpa. Cer-chiamo libri che comunque parlino al tempo in cui vengono pubblicati, magari in un modo che a quello stesso tempo non suoni troppo ovvio. Dal punto di vista delle singole scelte, sappiamo che il nostro è un mestiere caduco — e non è detto che sia un male. Su un altro piano, quello della forma, lottiamo invece per una certa permanenza.
Non ho lo spazio per elencare ciò che fa di un libro un libro: la decenza (se non la bellezza) tipografica, le pagine cucite anziché incollate, una gamma di copertine che comprenda altri soggetti, oltre a un volto o corpo di femmina su uno sfondo di acqua o di nuvole in viaggio. Però voglio concludere con un piccolo esempio di cosa intendiamo, dal punto di vista editoriale, per permanenza. Qualche anno fa facevamo una rivista, «Adelphiana» che suscitava un fenomeno opposto a quello da sempre associato al parito di governo e al suo leader — decine di milioni di elettori, e nessuno confesso: nel caso della rivista i consensi erano unanimi ed entusiastici, solo che nessuno trovava sbocco nel banale atto dell’acquisto.
In una situazione del genere un editore non masochista prende l’unica decisione possibile, e cioè sospende le pubblicazioni. Lo abbiamo fatto, ma ci dispiaceva rinunciare a questi testi brevi — e, di nuovo, diversissimi fra loro. Quasi senza che ci fosse bisogno di discuterne, è quindi nata l’idea di trasformarli in piccoli libri: dando forma di libro a qualcosa che non ce l’aveva.
Per capire cosa intendo basta guardare il primo numero della collana Minima, e cioè gli Appunti sul nichilismo europeo di Nietzsche. In origine si trattava di un brevissimo — ma altrettanto importante — taccuino engadinese. Oggi è un volume che riproduce il testo manoscritto in anastatica, nella sua versione originale e in traduzione: e lo correda di un rispettabile apparato critico. Il tutto in sessanta pagine di piccolo formato.
Per puro caso, ho visto i libri arrivare in libreria. Spacchettando i primi cinque titoli della serie, il libraio mi ha chiesto, nell’ordine, cosa diavolo erano, e dove poteva metterli. Al solito, non avevo risposte, o meglio avevo solo la risposta di Francoforte. Che però, nella circostanza, era abbastanza adatta: «Libri. Sono libri. Perché non li mette sul bancone?».
 
Matteo Codignola (editore e editor Adelphi), il manifesto, 23 agosto 2011

22 agosto 2011

Bianciardi prepara le norme redazionali Feltrinelli

La questione delle virgolette la definimmo in una serie di riunioni successive. […] Decidemmo, e la Marisa prese appunto, che in fine di discorso diretto la virgola e il punto dovevano precedere le virgolette, le quali invece andavan seguite dai due punti e dal punto e virgola. L’uso inglese, insomma. Nel caso di discorso diretto interno a una citazione, o di una citazione interna a un discorso diretto, o di discorso diretto inserito in un altro discorso diretto, si sarebbe fatto ricorso alla virgoletta semplice. Per esempio: virgolette di apertura vieni virgola virgolette di chiusura disse Ignazio virgola riaperte le virgolette andiamocene in riva al mare come virgoletta semplice colombe dal desio chiamate virgoletta punto virgolette. Oppure, in una citazione: come dice anche il Calogero due punti virgolette maiuscolo è impossibile tradurre il valore sonoro dei versi virgoletta les sanglots longs des violons de l’automne virgoletta punto e virgolette. Chiuse naturalmente.
Ma questo esempio sollevava un altro serio problema, quello cioè delle parole straniere. Gaeta propose di osservare una regola unica, vale a dire di metterle tutte in corsivo, ma la Marisa, che ormai s’era fatta una sua pratica, intervenne a dire che di questo passo avremmo dovuto mettere in corsivo anche foot-ball, sport, garage, eccetera. Convenimmo dunque che in corsivo andavano le parole straniere di uso non comune e non accettate ormai dalla nostra lingua. Cognac quindi in tondo, e cosí whisky e gin, dei quali non si può dare la traduzione italiana.
“Anche brandy ?” chiese Ardizzone.
“Be’… brandy sí e no. Ormai lo abbiamo quasi accettato nell’uso, al posto di cognac, che è vietato per legge, ma d’altro canto…”
“E in un’opera italiana,” interruppe ancora Ardizzone, “può un personaggio bere tranquillamente il suo cognac, o bisogna invece correggere con brandy. Voglio dire il divieto dobbiamo considerarlo esteso anche alle opere letterarie?
“Direi di no,” fece Pozzi, “a meno che il testo non dica esplicitamente che il cognac bevuto dal personaggio è roba italiana. Inutile altrimenti sostituire una parola straniera, francese, con un’altra parola straniera, inglese. Se poi si vuol tradurre, allora ricorriamo magari a un… che so io?, a un arzente, a un’acquavite, che secondo me sarebbe la cosa migliore.”
“Ma l’acquavite,” disse ancora Ardizzone, “già c’è, è un liquore ben preciso e non possiamo…”
Ma questa volta Gaeta tagliò corto, riportando il discorso sui corsivi: i nomi delle navi, ed eventualmente degli aerei (la Bismarck, lo Spirito di San Luigi, il Conte Biancamano), i titoli dei libri e delle riviste. I titoli degli articoli invece in tondo, ma fra virgolette, proprio perché quasi sempre essi si portano accanto il titolo della rivista su cui comparirono o compaiono, il quale titolo, come già detto, va in corsivo.
 
Luciano Bianciardi, L’integrazione