Mi sono ritrovato, l’altra sera, a meditare di fronte a una vecchissima foto di Wilfred Baddeley, il predecessore di Boris Becker, il più giovane vincitore di Wimbledon fino all’avvento del bambinaccio. C’erano voluti quasi cent’anni perché quel suo record, stabilito in un giorno piovoso del 1891 contro Joshua Pim, detto «Spettro», venisse battuto. Chissà che, da qualche parte, il nucleo pensante di Baddeley esisteva ancora. E, se esisteva, chissà cosa pensava. Era scampato addirittura a Borg, credeva probabilmente di essersi conquistato un pezzetto di immortalità: ed ecco che un bambinaccio tedesco, allenato dall’età di tre anni, lo cancellava dalla storia.
Non era quello dell’età, il solo record stabilito da Becker. Un altro ce n’era: quello del primo tennista capace di vincere senza essere selezionato «testa di serie», […]. E, infine, un terzo record: il primo tedesco a conquistare un torneo che ai suoi connazionali si era sempre negato. Ora che dai nostri annali sta scomparendo Baddeley, sembra giusto ricordare un altro grande tedesco, che avrebbe compiuto settantasei anni, e avrebbe potuto sedere in tribuna, assieme al suo vecchio amico Fred Perry.
Gottfried von Cramm, scomparso nel novembre 1976 in un incidente d’auto, arrivò per ben tre volte alla finale di Wimbledon, dal 1935 al 1937, e per tre volte trovò, a respingerlo, grandissimi campioni quali Perry, appunto, e Donald Budge. Passati al professionismo i due, von Cramm divenne di fatto il n. 1 mondiale. Avrebbe sicuramente troncato quel suo triplice record negativo, non fossero intervenute circostanze decisamente sfortunate.
Da sempre antinazista, von Cramm si dimostrava, in quel lontano 1938, sempre più insofferente ai cerimoniali che accompagnavano le imprese sportive degli atleti del Reich. I suoi successi, il suo casato, l’avevano sin lì tenuto al riparo da ogni rappresaglia ma, come ebbe perduto una combattutissima finale di Davis contro gli americani, nel decisivo match con Budge, i gerarchi gli si avventarono, trovando il casus belli in una certa sua inclinazione per qualche bel tennista. Niente era più vero. Ma è anche vero che le teorie di Rosenberg trovavano spesso applicazioni disinvolte, e il culto del superuomo, per certi hitleriani, diveniva il culto del giovanetto.
Von Cramm finì dunque in prigione, vi rimase sei mesi, poté uscirne grazie all’enorme popolarità, giusto in tempo per iscriversi al torneo del Queen’s Club, che da sempre precede Wimbledon e ne rappresenta la prova generale, come dimostra anche la recente vittoria di Becker. I conformisti non lo volevano, al Queen’s, e solo l’amicizia di un giornalista tennista, John Olliff, riuscì a provocare un voto sul caso von Cramm, che fu alfine ammesso con tredici voti contro dodici.
Il barone giocò quel torneo e lo dominò, battendo in finale l’americano Bobby Riggs: 6-1, 6-0 è un risultato troppo secco per non pensare che si sarebbe ripetuto quindici giorni dopo a Wimbledon. Ma i dirigenti del Club non trovarono il coraggio di accettare qualcuno che, bene o male, aveva passato sei mesi in prigione in seguito a un’accusa infamante. Il più forse tennista del mondo non poté vincere un titolo che avrebbe fatto di Boris Becker il secondo tedesco titolato.
Non conosco Becker. Ma, poiché questa storia è stata scritta, per la prima volta, in un mio libro, 500 anni di tennis, e poiché il libro è tradotto in tedesco, mi permetterò di fargliene omaggio. Oggi la vita di Boris è dorata, tutto gli sorride, e non è difficile rintracciare i segni della predestinazione nell’infantile mania che lo spinse al gioco a soli tre anni. Papà ricco e disponibile a una scelta di vita che, ai ricchi, non è sempre adatta. Campo in casa, allenatore giusto, federazione favorevole e, infine, quel manager mefistofelico Ion Tiriac. In tanta felicità, in tanta riuscita, è forse bene che Boris sappia, e magari rifletta un momentino. Sciocco, non è di certo. Non si può essere sciocchi, se si è capaci di vincere questo fenomenale torneo.
Gianni Clerici, «Il primo tedesco, il più giovane, la prima wild card: Boris», 9 luglio 1985