Wimbledon si sente da lontano. Le frecce di latta gialle e verdi sono inchiodate sotto la colonna di Nelson, davanti a Dunn, il cappellaio di Piccadilly Circus, sugli olmi di Hyde Park e a tutte le stazioni dei bus rossi a due piani. Lo sguardo della gente gli scivola sopra e riflette lontano, sulla grande zolla verde che il Centre Court chiude nel suo imbuto di legno. L’isola di Wimbledon è tagliata fuori dal cemento da un mare d’erba, sul quale galleggiano alberi e cottage e uccelli. Un fiume d’aria fa tremare lievemente le foglie e porta lontano il rumore delle mani e il respiro di quarantamila persone che segue la palla come una cometa. La gente di Londra cammina verso di lui, e quando qualcuno svolta dove non c’è la freccia gli altri lo guardano come se fosse nudo. Qualcuno si vergogna e si rimette in fila all’ultimo posto, e attende con compunzione che un bagarino lo seduca, guardando i segni d’aria che le matite a reazione disegnano in cielo. Dagli aerei Wimbledon sembra un formicaio scoperchiato e senza scopo. I puntini neri scivolano dentro come in una clessidra, si fermano, e poi scivolano fuori. In mezzo a loro saltano come pulci matte puntini bianchi, uno ogni diecimila neri. […]
Gianni Clerici, Wimbledon. Sessant’anni di storia del più importante torneo del mondo, Mondadori, 2013
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