La lavatrice gira disegnando cerchi impazziti. È tempo di centrifuga. E sputa tutto la lavatrice. Sputa attraverso piccoli fori, mentre il tamburo trattiene lenzuola bianche che si fanno nodo. Si è messa in ginocchio Adriana, davanti all’oblò. Segue i giri con pupille stordite. Non ha parole sulle labbra; tra le mani il flacone di plastica con l’ultimo goccio di ammorbidente celestino: colore stupido per i suoi gusti. Ha i piedi nudi, i talloni ben in vista sono un rosario di ragadi e duroni. L’ampio fiocco del grembiule, annodato con precisione, sa quasi di festa, ma festa non è. La treccia lunga, mesciata, attraversata da una ciocca viola, è strozzata da due elastici da pacco che saranno cavoli a sfilarli via. Ma Adriana se ne frega, sono due settimane che non si pettina. Una piccola sveglia vecchio stile scodinzola piano il suo tic tac.
Quando è partita – qualche anno fa – da quelle quattro case sgretolate che insieme danno nome al suo paese, aveva con sé una sporta di plastica con dentro niente, tranne due paia di mutande di cotone spesso e una giacchetta di lana pelosa, pungente. Le strade lì erano sentieri segnati da piscio e sterco di capre, pecore e galline magre. Allora partire le era sembrato obbligatorio e forse semplice, come rompere tra i denti una zolletta di zucchero. Sua madre non l’aveva accompagnata neppure fino alla porta; l’aveva salutata dal letto, senza smuovere troppo le coperte. Nessuno capiva niente della sua malattia e lei non capiva più niente di nessuno. La figlia le era parsa un’ombra da scacciare con uno scatto della mano, come si fa per scansare una mosca. E la mosca se ne era andata ronzando parole scarne.
Maria Rosaria Valentini, Mimose a dicembre, Keller editore