Archive for giugno 2014

Quando arriva il momento

23 giugno 2014

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Nonostante quasi due anni di cure condotte con diligenza stamattina è arrivato il momento che aspettavo con un certo timore: la mano ha cominciato a tremare. Me ne sono accorto appena sveglio quando, prendendo i biscotti dalla credenza, ho visto la mano destra irrigidirsi e vibrare. Il pacco oscillava tra il vuoto e il ripiano, cinque, sei battiti al secondo. L’ho rimesso dov’era e ho abbassato il braccio, nella speranza che sarebbe bastato ripetere daccapo la sequenza dei gesti. Terminata la colazione ho messo i biscotti al loro posto, ma in uno scaffale che con tutta probabilità domani non riuscirò più a raggiungere.
In gergo questo movimento si chiama «contare le monete»: una mano che trema come se stesse gettando le fiches sul banco di un tavolo da gioco, l’altra che cerca di fermarla. È il marchio del Parkinson e anche la sua presa in giro perché capita solo quando sei sveglio, quando puoi sapere di essere malato e quando gli altri possono vedere quello che vedi tu.
Avevo la mattinata libera e allora sono uscito a prendere un po’ d’aria. Sentivo il baricentro del mio corpo scivolare, inadatto, sulle folate di vento che sbucavano all’improvviso tra un palazzo e l’altro. Nonostante ciò c’era il sole e ai giardini Luxembourg la gente era impegnata a passeggiare, correre o guardare i monumenti, mentre alberi e animali ripartivano daccapo a ritmo della primavera.
Dopo qualche passo in direzione della fontana dei Medici ho incontrato Loris. Non lo vedevo da quando avevo occupato la sua scrivania. L’ho visto io per primo, lui era impegnato ad allacciare la scarpa a un bambino che poteva avere quattro o cinque anni. Appena mi ha riconosciuto ha sorriso, poi, a mano a mano che i nostri corpi si avvicinavano, ho visto il suo sguardo abbassarsi lentamente per poi ritornare su i miei occhi, più mite, colpito, compassionevole.

Raffaele Riba, Un giorno per disfare, 66thand2nd

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Muoversi in due mondi diversi

20 giugno 2014

Essere cresciuto con due lingue in testa fece credere a Matteo di potersi muovere con agio in due mondi diversi. Poter chiamare le cose in due maniere distinte gli toglieva quel senso di inevitabilità che condizionava tutti gli altri adolescenti. Poteva dare due nomi al principio di acne che aveva sulle tempie, due nomi alla noia che smorzava giocando a basket fino a consumare la suola delle Air Jordan, poteva chiamare due volte l’ansia che a tratti lo divorava quando meno se lo aspettava e darsi due spiegazioni diverse sulla sua natura.
Il francese era la lingua materna, quindi della tavola da apparecchiare e poi sparecchiare, dei vestiti da riordinare in camera sua, del coprirsi bene quando si esce, del pulirsi le scarpe quando si rientra, del grazie mamma, buonanotte anche a te. Ma era anche la lingua delle vacanze, usata per raccontare alla nonna di Nizza tutto quello che succedeva a Santa Teresa o per non sembrare un altro di quegli italiani che da Mentone a Saint-Tropez si spandevano sulla Costa azzurra per i mesi di luglio e agosto.
L’italiano invece era la lingua del padre e quindi della parte esterna della casa: la lingua del prato da tagliare, del calcio, della verdura, della frutta, degli attrezzi come le cesoie, l’incudine, le assi di legno e gli stivali di gomma impermeabili.Era il nome delle medicine omeopatiche che il padre gli faceva ingollare a ogni raffreddore.
E poi era la lingua dei suoi amici o compagni che sarebbero rimasti giovani per sempre nel momento in cui se ne sarebbe andato.

Raffaele Riba, Un giorno per disfare, 66thand2nd, collana Bookclub

Interno di Cortázar

19 giugno 2014

Mi domando che cosa avrebbe fatto Irene senza i lavori a maglia. Si può rileggere un libro, ma quando un pullover è finito non si può ripeterlo impunemente. Un giorno trovai l’ultimo cassetto del comò in legno di canfora pieno di scialletti bianchi, verdi, lilla. Erano in naftalina, impilati come in una merceria; non ebbi il coraggio di domandare a Irene cosa pensasse di farne. Non avevamo bisogno di guadagnarci da vivere, tutti i mesi arrivavano i soldi della campagna e il denaro aumentava. Ma Irene si svagava solo con i lavori a maglia, dimostrava una abilità meravigliosa e a me fuggivano le ore guardandole le mani simili a ricci argentei, ferri in su e in giù, e uno o due cestini a terra dove si agitavano costantemente i gomitoli. Era bello.

Julio Cortázar, “Casa occupata”, I racconti, Einaudi

Echi di coppie cheeveriane

13 giugno 2014

Quattro anni e due figli possono far slittare il significato del silenzio in una coppia sposata. La quiete c’era ancora, ma adesso risuonava come il filtro esaurito di un condizionatore. Un tempo si rifugiavano nel silenzio per sfuggire alle chiacchiere altrui. Adesso le loro stesse congetture diventavano argomenti da evitare. Tuttavia, lei lo faceva sentire rispettato, e lui la faceva sentire affidabile, e poi troppo affidabile, e infine quasi scontata.

Allan Gurganus, Non abbiate paura, Playground