Il cielo è di stagno, ne sento il gusto in bocca: stagno vero.
L’alba d’inverno ha il colore del metallo,
gli alberi s’irrigidiscono al loro posto come nervi bruciati.
Stanotte non ho fatto che sognare distruzioni, annientamenti:
una catena di montaggio di gole tagliate, e tu ed io
che ci allontanavamo adagio nella Chevrolet grigia, bevendo il verde
veleno dei prati ammutoliti, le piccole lapidi di assicelle,
senza rumore, su ruote di gomma, verso la stazione balneare.
Che echi dai balconi! E il sole come illuminava
i teschi, le ossa sfibbiate di fronte al panorama.
Spazio! Spazio! Le lenzuola venivano ormai meno.
Le gambe del lettino si scioglievano in terribili posture, e le infermiere—
ogni infermiera incerottava la sua anima a una ferita e spariva.
Gli ospiti mortali non erano rimasti soddisfatti
delle stanze, dei sorrisi, dei bellissimi ficus,
o del mare, che acquetava il loro senso spellato come Mamma Morfina.
Sylvia Plath, Svegliarsi in inverno, 1960
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