[…] Sylvia fece la cameriera al Belmont Hotel di Cape Code. Migliaia di studentesse si erano candidate per un posto di cameriera al Belmont, la cosa aveva un fascino insolente: le aragoste e i flirt, i grembiuli neri e il vocio. Lavorare al Belmont, in fondo, offriva una scusa per flirtare, giocare a tennis e prendere il sole. Come cameriera, Sylvia era negata. Confondeva gamberetti e capesante, rovesciava lo sciroppo d’acero e faceva cadere le posate. Guadagnò appena abbastanza da ripagarsi l’uniforme, le calze, le scarpe e il grembiule. Finito il turno, si metteva le perle al collo e stava in piedi tutta la notte sulla spiaggia con gli amici maschi. Nel giro di due settimane si ritrovò a fare i conti con la sinusite e la bronchite.
Fu durante un turno di servizio ai tavoli che Sylvia ricevette il telegramma in cui le veniva comunicata la vittoria nel concorso letterario di Mademoiselle, e di conseguenza un premio in denaro di cinquecento dollari e la pubblicazione sul numero accademico di agosto. Lei buttò le braccia al collo della direttrice di sala. Cinquecento dollari sarebbero bastati per un dignitoso cappotto invernale, un tailleur raffinato o magari anche per un viaggio in Europa. Per la prima volta, la possibilità di vivere di scrittura le sembrò realistica.
Elizabeth Winder, La grande estate. Sylvia Plath a New York, 1953, Guanda, traduzione di Elisa Banfi