
Nell’epoca preislamica, la ğahiliyya, popolazioni nomadi e qualche tribù sedentaria vivevano tra la steppa, le rigogliose aree coltivate dello Higiaz e dello Yemen e le infinite distese desertiche dall’Arabia, dove la parola poetica aiutava a richiamare alla memoria i ricordi di paesaggi, di eventi e volti cari. Il patrimonio poetico della lingua araba è immenso, e spazia dagli antichi versi dei nomadi del VI secolo, a quelli dell’epoca dei grandi califfati sino ai moderni.
Per comprendere la fortuna di una produzione tanto vasta occorre analizzare il ruolo che da sempre la poesia ha nell’immaginario della cultura araba. Nell’antica Arabia la recitazione allietava le veglie notturne attorno al fuoco nel ricordo delle gesta, delle gioie e dei dolori della propria gente. La tradizione orale trasmetteva la memoria storica, l’orgoglio e la virtù dei cavalieri del deserto. Il poeta narrava la fama buona o cattiva della tribù o degli individui, e per questo era temuto e ammirato. Si credeva che il poeta nutrisse il proprio “genio creativo” nella valle popolata da geni (ğinn), e grazie alla propria capacità oratoria riuscisse anche a fare credere quello che non era il vero, a costruire e a distruggere con le parole quanto neanche le armi erano in grado di fare. “La poesia influenza l’anima come la ferita segna il corpo”, affermava il poeta preislamico Imrū al-Qays (V-VI sec.). Nel tempo questa definizione non ha perso valore e la poesia preislamica, ancora oggi, rappresenta l’origine e il modello di riferimento per la poesia classica araba.
Attraverso la poesia si conoscono le credenze e le tradizioni della società araba in cui matura l’opera del Profeta. La cultura dei sedentari delle oasi del Higiaz non era molto diversa da quella dei nomadi; solo la Mecca era più strutturata politicamente in quanto sede di commerci e importante luogo di culto. L’edificio sacro della Ka’ba custode della meteorite che indica il luogo prescelto da Dio, con l’avvento dell’islam sopravvivrà assieme ad altri luoghi simbolo del giudaismo e del cristianesimo mentre gli altri idoli pagani saranno tutti distrutti. In occasione del pellegrinaggio annuale, che coincideva con la fiera, si declamavano poesie; si narra che le migliori venivano trascritte su drappi appesi alla Ka’ba: tra queste poesie appese (Mu’allaqāt) c’era quella di Imrū al-Qays, il re poeta testimone della cultura araba ma anche dei contatti con ambienti culturali contigui (Bisanzio e i vassalli dei sasanidi).
Nel preludio della poesia preislamica si descrive l’accampamento, l’ambiente della vita nomadica, e si ricorda la pena per la separazione dall’amata conosciuta presso il fuoco dell’accampamento nelle gelide notti. Il poeta interpreta un sentimento comune; chi ascolta condivide e si identifica nella fatica di riprendere il viaggio con l’animale amico, il cammello o il cavallo, che lo accompagna nella traversata del deserto di cui conosce e trasmette ogni prezioso segreto della flora e fauna. Rinnova il ricordo delle modalità della caccia, delle feste o dei giochi tradizionali che segnano le soste nel duro viaggio ed infine esprime il vanto, l’encomio della tribù, l’aspra satira contro il nemico, l’elegia funebre. Attraverso la poesia si trasmettevano i miti e i valori della cultura beduina e si proponeva il modello da emulare, l’eroe del deserto valente in guerra ma affabile e liberale in pace, ospitale, generoso, ma anche autorevole oratore per difendere le ragioni del proprio clan nei consigli tribali.
Francesca Maria Corrao, Islam: fede e politica, Una piccola introduzione, LUISS University Press