Archive for novembre 2015

Spazzatura che vende

30 novembre 2015

images.jpg

Mr Shillingsworth era uno scrittore di romanzi piuttosto famoso e Mr Abbott era il suo editore. Mr Shillingsworth aveva causato alla Abbott & Spicer più grane e seccature di tutti gli altri autori messi insieme, ma in casa editrice se l’erano tenuto stretto, rabbonendolo e adulandolo, perché i suoi libri vendevano. (Personalmente Mr Abbott era dell’idea che i libri di Shillingsworth fossero spazzatura, ma non c’erano dubbi che vendessero.) Il suo ultimo romanzo era una robaccia spaventosa – lo pensavano tutti in ufficio –, ma avevano deciso di pubblicarlo ugualmente, perché se non l’avessero fatto loro, lo avrebbe pubblicato qualcun altro, e sarebbe stato questo qualcun altro a farci un mucchio di soldi e la Abbott & Spicer avrebbe perso Shillingsworth per sempre.

D.E. Stevenson, La vita matrimoniale di Miss Buncle, Astoria, traduzione di Ester Borgese

Pubblicità

Odio la volgarità

30 novembre 2015

Aristocratico? Plebeo? Senza dubbio sono entrambe le cose. Odio la volgarità, ma la volgarità è legata secondo me alle idee di superiorità collettiva. È quando ci si crede “migliori degli altri” perché si appartiene a una classe, a una nazione, a una razza che si è irrimediabilmente volgari.

Romain Gary

A casa di Madame Rosa

30 novembre 2015

images.jpg

Era dunque domenica e Madame Rosa aveva passato la mattinata a piangere; c’erano dei giorni che piangeva in continuazione senza motivo. Non bisognava disturbarla quando piangeva, perché erano i suoi momenti migliori. Ah, sì, mi ricordo anche che il piccolo Viet proprio quella mattina le aveva buscate perché si nascondeva sotto il letto quando suonavano alla porta, in tre anni che era senza nessuno aveva già cambiato famiglia una ventina di volte e ne aveva veramente abbastanza. Non so che cosa ne sia di lui ma un giorno lo andrò a trovare. D’altronde i campanelli da noi non piacevano a nessuno, perché avevamo sempre paura di un’ispezione dell’Assistenza Sociale. Madame Rosa aveva tutti i documenti falsi che voleva, si era organizzata con un suo amico ebreo che si occupava soltanto di queste cose da quando era ritornato vivo. Non mi ricordo più se ve l’ho detto, ma era anche protetta da un commissario di polizia che aveva allevato mentre sua madre diceva di fare la pettinatrice di provincia. Ma invidiosi ce n’è sempre e Madame Rosa aveva paura che la denunciassero.

Romain Gary, La vita davanti a sé, Neri Pozza, traduzione di Giovanni Bogliolo

Le versioni di Alice, incipit capitolo 4

26 novembre 2015

alice-coniglio

It was the White Rabbit, trotting slowly back again, and looking anxiously about as it went, as if it had lost something; and she heard it muttering to itself ‘The Duchess! The Duchess! Oh my dear paws! Oh my fur and whiskers! She’ll get me executed, as sure as ferrets are ferrets! Where can I have dropped them, I wonder?’ Alice guessed in a moment that it was looking for the fan and the pair of white kid gloves, and she very good-naturedly began hunting about for them, but they were nowhere to be seen—everything seemed to have changed since her swim in the pool, and the great hall, with the glass table and the little door, had vanished completely.

Si trattava del Bianco Coniglio, ancora lui, che tornava indietro trotterellando lentamente e guardando in giro con ansia, come se avesse perso qualcosa; Alice lo udì borbottare tra sé e sé: «La Duchessa! La Duchessa! Oh, povere le mie zampe! Oh, pelliccetta mia, baffetti miei! Mi farà giustiziare, sicuro come che i furetti sono furetti! Dove possono essermi caduti, mi domando?» Alice intuì in un attimo che il Coniglio stava cercando il ventaglio e il paio di guanti di capretto bianchi e con slancio di generosità inizio a cercarli, rna non si vedevano da nessuna parte – tutto sembrava essere cambiato dopo la sua nuotata nel laghetto, anche la grande sala, con il tavolo di vetro e la piccola porta, erano svaniti del tutto.

Lewis Carroll, Alice nel paese delle meraviglie, BC Dalai, traduzione di Andrea Càsoli
Era il Coniglio Bianco, che se ne tornava trotterellando con insolita lentezza, guardandosi attorno preoccupato, come se avesse perduto qualcosa, e Alice lo udì borbottare tutto da solo: «La Duchessa! La Duchessa! Oh, povere le mie zampe! Oh, la mia pelliccia, le mi basettine! Mi farà giustiziare, com’e vero che i Reali sono reali! Ma dove posso averli persi, dove?» Alice comprese subito che stava cercando il ventaglio e i guanti bianchi di capretto e, premurosa come sempre! comincio anche lei a ispezionare il terreno, ma non si vedevano da nessuna parte – da quando aveva fatto quella nuotata nel lago tutto il paesaggio era cambiato, e il grande atrio, il tavolo di vetro e la porticina erano completamente svaniti.

Lewis Carroll, Alice nel paese delle meraviglie, Feltrinelli, traduzione di Aldo Busi
Era il Coniglio Bianco che se ne tornava indietro  un’altra volta, trotterellando con calma e guardandosi attorno ansiosamente come se avesse smarrito qualcosa, e Alice sentì che borbottava fra sé e sé: «La Duchessa! La Duchessa! Oh, zampe zampette! Oh, pelo e basette! Mi farà giustiziare di certo, come e vero che i furetti sono furetti! Ma dove li avrò messi?» Per Alice fu subito  chiaro  che il Coniglio stava cercando  il ventaglio e i guanti  bianchi  di  capretto, e, volonterosa, si diede da fare per aiutarlo, ma non c’era verso di trovarli – era cambiato tutto dopo la nuotata in mare, e il grande salone col tavolino di vetro e la porticina erano svaniti completamente.

Lewis Carroll, Alice nel paese delle meraviglie, Garzanti, traduzione di Milli Graffi

 

 

 

L’assedio della finzione

25 novembre 2015

Siamo totalmente assediati dalla finzione e dalla narrativa, non solo per quanto riguarda i libri e i film, ma anche i giornali e le notizie in televisione hanno la stessa forma. In ogni caso non è un’avversione assoluta, ma nello specifico del progetto de La mia lotta non poteva funzionare, non potevo descrivere il mio mondo attraverso l’invenzione. Ora che ho finito con la descrizione della vita vera devo tornare alla finzione, e questo per me rappresenta la sfida più grande: reinventarmi come scrittore.

Karl Ove Knausgård, La morte del padre, Feltrinelli, traduzione di M. Podestà Heir

 

 

 

Morante, l′anarchica visionaria

25 novembre 2015

morante1_pic

Si spegneva esattamente oggi, il 25 novembre 1985, in una stanza della clinica Margherita a Roma. Elsa Morante, forse il più grande scrittore italiano del ’900, aveva allora settantatré anni e quattro incredibili romanzi alle spalle, insieme a una produzione di racconti, poesie, saggi, articoli e interventi sugli argomenti più disparati: dall’amato Mozart agli amatissimi gatti, dall’Iliade a Piazza Navona, dalla cosa apparentemente più futile a quella della massima importanza. E forse è proprio quest’ultima la chiave di volta, ancora valida, per aprire le porte della sensibilità morantiana. Come ricorda infatti Patrizia Cavalli, amica della scrittrice, la sua bellezza incandescente viveva in quell’oscillazione: fra il gioco e la serietà, fra il sorriso più spietato e la perizia meno calcolata. E non a caso. Dopo aver diviso il mondo fra i cosiddetti Felici Pochi da un lato e gli Infelici Molti dall’altro, Elsa Morante scelse di stare nel primo gruppo, cioè fra quei ragazzini che non mancano mai nei suoi libri, quei pueri che sono aeterni e assicurano la salvezza. Pensiamo all’Elisa di Menzogna e sortilegio; o all’esempio luminoso de L’isola di Arturo, con quel fanciullo procidano che sparge magia ad ogni passo; o ancora a Useppe e a Nino de La Storia, facce gemelle di una medesima moneta, Apollo e Dioniso di un unico pensiero; e infine all’ultimo, disperato Aracoeli, dove il protagonista Manuel, metà Cristo e metà Pasolini, metà bimbo abortito e metà testimone della morte dell’autrice, riesce miracolosamente a raccogliere i semi dell’innocenza.
Un filo rosso che dura una vita quindi, e una vita che è impossibile scollegare dalla scrittura. Insieme al tema della maternità, le stimmate dell’infanzia accompagnarono ovunque Elsa Morante, inseguendola al pari di una costellazione, dall’alto dei cieli come dal più profondo del suo cuore. Le ritroviamo in ogni suo scritto, anche nelle storie abbozzate da bambina, in narrazioni che parlano di bambole e impavidi cavalieri, e perfino nel suo quaderno di prima elementare dove è già possibile, incredibilmente, individuare quei solchi dove la sua arte sarebbe fiorita.
Nulla di casuale allora, e nulla di avventato. Piuttosto tutto malefico e meraviglioso, tutto terrificante e magnifico, e facente parte quasi più di un destino che di un percorso. Sospesa fra un aldilà che dichiarava di frequentare e un aldiqua sempre troppo vile e sterile, Elsa Morante ha lasciato un marchio maestoso nella letteratura, e non solo italiana, un vessillo regale ma pure fragilissimo, un timbro che la rende irriproducibile, per alcuni pure incomprensibile. Ma è naturale. In fondo è la sua originalità che l’ha fatta imporre. È la sua inattualità che la renderà sempre attuale. Anche Giuliana Zagra, studiosa morantiana e anima della Biblioteca nazionale centrale di Roma, è d’accordo su questo punto. Dopo decenni di studi di lettere e manoscritti, dopo analisi innumerevoli e l’allestimento di due mostre, una nel 2006 e l’altra nel 2012, arriva a confidarmi che «è proprio questo che si dovrebbe ricercare in Elsa: una purezza estrema che non è paragonabile a quella di nessun altro, perché troppo autentica; un’essenza che non è mai dichiarata, e che con fatica deve essere conquistata».

La stessa essenza che la rendeva turbolenta nei rapporti con gli altri. Poiché Elsa Morante pretendeva la poesia dalle relazioni, prima ancora che la sincerità; voleva lo stupore infantile, non la furba malizia adulta. E tanti per questo la ammirarono ma in tantissimi non la compresero, non afferrarono quel credo che la rese lontana dalla scena mondana, implacabile nelle amicizie, e sempre vittima di amori dolorosi. Dopo Moravia ci fu infatti il sentimento per Luchino Visconti, e ancor più il legame straziante col giovane Bill Morrow, pittore americano che morì forse suicida nel ’62, e che lascerà tracce profondissime in un animo già afflitto. Di famiglia non agiata, cresciuta in un ambiente complicato, appesa a una paternità doppia come a una madre oscurata da una ricca protettrice, la sua personalità si formò all’insegna di una grande solitudine, da cui dipendeva una altrettanto grande creatività: affetta dalla sindrome di Rousseau, come amava dire Garboli, sia per gli studi di autodidatta che per l’indipendenza ideologica, il distacco dalla borghesia e la rettitudine spirituale, non c’è neppure un rigo da lei vergato che non lo confermi.
Più che una scrittrice era un’anarchica visionaria, una sibilla che adorava Saba, Rimbaud e Cervantes, un eroe che fronteggiava «il drago dell’irrealtà», così lo definiva, e lo convertiva in qualcos’altro. Forse in un silenzio sospeso fra fantasia e sogno, fra il male e il bene di vivere, in un universo dove le parole non mentono, ma pregano con le creature che le pronunciano.
A trent’anni dalla sua scomparsa, Elsa Morante continua dunque a insegnarci la lezione dell’autenticità. E proprio per questo le sue opere-mondo, che sanno tanto di profezia come di rimpianto, allo stesso modo dei suoi personaggi senza tempo possono ancora essere rivissute. «Per esempio Gianna Nannini» mi spiega Tjuna Notarbartolo, direttrice insieme a Dacia Maraini del prestigioso Premio Elsa Morante, «solo pochi anni fa ha musicato Il mondo salvato dai ragazzini. Inoltre molte altre personalità hanno dato il loro contributo ad una letteratura che è sorprendente, perché porta alla luce prospettive sempre nuove». E questa officina culturale, questo laboratorio di idee che s’intersecano incessantemente, è forse la migliore eredità che potevamo augurarci.

Angela Bubba

 

I racconti di Lydia Davis

23 novembre 2015

41aDIZMc-sL._AC_UL320_SR214,320_.jpg

You let your work be collected as “stories” but never as “short stories.” Why is that?
To me a short story is a defined traditional form, the sort of thing that Hemingway wrote, or Katherine Mansfield or Cechov. It is longer, more ­developed, with narrated scenes and dialogue and so on. You could call some of my stories proper short stories. Most of the others I wouldn’t call short ­stories, even though many are very short. Some you could call ­poems—not many.
So you consider some of your stories to be poems?
Yes, it depends very much on the impulse behind them. Some I want to be very flat and prosey. They’ll still have their own music and rhythm, but they won’t be songs. And then others I think of as songs. And those are poems, even if they don’t look like poems on the page. I think I have always held poems in the highest esteem, of all forms of writing, and still do. I’m not saying there aren’t amazing stories and amazing novels. But I suppose that what a poem can do amazes me more.
Do you consciously plan to write one kind of story or another? Or is each one intuitive?
I’m leery of planning stories out ahead of time. Almost without exception they’ll start from an idea or a phrase, which I then plunge right into and explore. If I stop to think, This ought to be in the first person plural, or, This ought to be one unbroken paragraph, or whatever, I think it would stop me. They are intuitive. They may all embed a bit of narrative because I like narrative. I’m very fond of stories and storytelling—I think most people are. Almost everyone gets more alert when someone says, Listen to what happened to me yesterday.
Another problem with terminology is that my so-called stories could fall into so many categories. I don’t want to have to stop and think, Today I wrote a philosophical meditation, or, Today I wrote an anecdote. Today I wrote a vignette. Today I wrote an epi . . . what is it, an epigram or an epigraph? I always forget. The point is, I don’t want that kind of worry.
What about your stories in the form of letters? Did you actually send
these letters?
Yes. These I will categorize—as letters of complaint. They started with “Letter to a Funeral Parlor,” complaining about the word cremains. It’s a horrible word, combining cremated and remains. Only people in the funeral-parlor business like it. I don’t think any grieving families like cremains. I started it as a serious letter and then I saw the humorous possibilities. Then it got too literary to send, but after a while I thought I would still like to send it. So I revised it back down to a more serious letter of complaint, and I did send it. They didn’t answer. Other letters of complaint followed, because I realized that I had a lot to complain about. […]

Lydia Davis, intervistata da the Paris Review, primavera 2015

Martin Amis sul pensiero libero occidentale

22 novembre 2015

 

Martin Amis sta seguendo con angoscia l’escalation degli attacchi terroristici per mano del fondamentalismo islamico e arricchisce una riflessione che ha avviato sin dall’11 settembre lamentando uno smarrimento che può essere causa di ulteriori tragedie. «Nessuno sembra avere un’idea chiara su come reagire», racconta nella sua casa di Brooklyn, dove sta preparandosi per andare a Parigi. «Non ce l’hanno i politici, a cominciare da Obama, non ce l’hanno gli intellettuali, e non ce l’hanno neanche i giornalisti: è un orrore al quale non siamo preparati, nonostante siano ormai decenni che ci siano degli evidenti segni terribili. E questo è un ennesimo elemento tragico, che aggrava la situazione».

In occasione dell’uscita del suo romanzo La zona d’interesse lei ha paragonato il fondamentalismo islamico al nazismo.
«È una minaccia ugualmente grave per la civiltà: ci sono ovviamente molte differenze, ma anche varie affinità, a cominciare dalla barbarie delle idee professate alla violenza estrema anche nei confronti dei più indifesi, alla capacità di conquistare alle rispettive cause i più deboli, frustrati e ignoranti. Io continuo a sperare che questo radicalismo così estremo si riveli insostenibile a lungo: Hitler è durato 12 anni, e, per cambiare colore politico, Pol Pot ancora meno».

Quando ha usato questo paragone ha parlato di “nichilismo”. Ma nel caso del fondamentalismo islamico ci troviamo di fronte ad una fede religiosa, che non è nichilista, e anzi, come tutte le religioni, ha delle promesse.
«Quello che è successo a Parigi e in Mali sembra lasciare pochi margini di speranza, ma non voglio desistere: credo che proprio in questa estrema virulenza ci siano i germi di qualcosa che prima o poi ne causerà la fine. Quando ho parlato di nichilismo pensavo ai massacri di giovani e bambini e al totale disprezzo per la vita. Oggi stiamo affrontando qualcosa di inedito: ad esempio l’uso di terroriste donne, cosa che Al Qaeda non faceva. E non si può sottovalutare l’attrazione nei confronti dei giovani che vedono qualcosa di forte in quel messaggio di morte e distruzione. Quello che per noi è abominevole per questi ragazzi è motivo di vita: un’opportunità di riscatto, anche sociale, e di redenzione. È necessario poi ricordare che il bacino nel quale crescono questi fermenti è all’interno di stati falliti e disastrati. È su queste basi che si forma un nuovo tipo di essere umano, un fanatico che ha il disprezzo della vita, della morale e della pietà».

Il disprezzo della vita oggi sembra l’arma più forte nelle mani dei terroristi.
«Per comprendere quello che sta succedendo consiglio la lettura dell’Agente segreto di Joseph Conrad, scritto nel 1907. C’è un personaggio, chiamato il “professore”, che spiega che i terroristi sono più potenti perché venerano la morte più della vita».

L’Is ha conquistato adepti anche in Occidente.
«Questo è un altro tragico elemento nuovo. Anche in questo caso bisogna riflettere sull’ignoranza, la frustrazione, e la necessità di affermarsi: un personaggio come Jihadi John voleva essere potente e temuto. È necessario riflettere anche sulla perdita di valori forti: fin quando il loro credo è assoluto come è la religione, e il nostro è relativo come è il nostro pensiero attuale, saremo più deboli».

Raccontando l’hitlerismo lei ha affermato che ci sono molti elementi incomprensibili: si può affermare lo stesso sul fondamentalismo islamico?
«È certo che in questa loro violenza ci siano molti elementi irrazionali, ma per quanto riguarda Hitler riprendevo pareri di molti storici illustri, che ritengono che sia fuori dalla logica e in qualche modo fuori dalla storia. Oggi ci troviamo di fronte alla degenerazione di una religione professata da più di un miliardo di persone: non si può affatto sottovalutare questa matrice, anche se la violenza è perpetrata da un’esigua minoranza. La loro arma nasce dalla fede, prima ancora dei mitra o le bombe».

Gli attacchi parigini sono stati ad uno stadio, un ristorante e una sala da concerto.
«È evidente il significato simbolico: odiano quello che siamo, il nostro modo di vivere e le nostre libertà. C’è un elemento propagandistico per cui colpiscono la “Babilonia di corruzione dell’Occidente”».

Nella lectio magistralis pronunciata a Ratisbona, Benedetto xvi parlò di violenza insita in alcuni passi del Corano.
«Fece un discorso molto preciso e colto, sul quale bisogna riflettere senza volgarizzarlo o strumentalizzarlo. C’è un dato oggettivo, sul quale tuttavia si deve riflettere: Maometto è stato non solo un profeta, ma anche un soldato. È stato Cristo e Cesare».

Lei crede nella possibilità di dialogo con l’Islam moderato?
«Più che credere lo auspico, ma vedo un mondo, certamente maggioritario, intimidito e tenuto sotto scacco da un’identità religiosa».

C’è chi attribuisce parte del problema al conflitto israelo-palestinese.
«Quello che succede in Medio Oriente ha certamente un ruolo in questa tragedia, ma ho sempre paura quando si comincia ad accusare gli ebrei di responsabilità morali, sociali o economiche: la storia ci ha insegnato cosa ha generato questo modo di pensare».

Ritiene che esistano alternative alla guerra?
«Neanche io ho risposte precise: posso solo augurarmi che il califfato venga distrutto o fallisca perché rigettato dalle stesse popolazioni. E penso che più dei bombardamenti sia efficace colpire ciò che finanzia il fondamentalismo, a cominciare dal petrolio e le armi».

Antonio Monda intervista Martin Amis, “Attaccano l’Occidente del pensiero libero”, la Repubblica, 22 novembre 2015

 

Siamo persone, e basta

22 novembre 2015

978880622156GRA.jpg

Entrando a Gilead si sentiva proprio come a quei tempi, con la differenza che adesso era sola. Doane diceva sempre: «Non siamo vagabondi, non siamo zingari, non siamo indiani selvaggi» quando voleva che i bambini si comportassero bene. Una volta lei aveva chiesto a Doll: – E cosa siamo allora? – e Doll le aveva risposto: – Siamo persone, e basta –. Ma Lila aveva capito che non era vero, o almeno non del tutto.

Marilynne Robinson, Lila, Einaudi, traduzione di Eva Kampmann

Spegnere una candela

20 novembre 2015

20111213140049__45Copertina_alta.jpg

È una moglie che dev’essere seppellita oggi alle due, e alle undici e mezzo il marito è in cucina, davanti allo specchio incrinato appeso sopra l’acquaio. Non ha pianto molto: se ha gli occhi rossi è perché non ha quasi dormito. La sua camicia è bianca candida e dai pantaloni appena stirati emana ancora un leggero vapore. Mentre la sorella minore gli abbottona il rigido colletto bianco sulla nuca e gli sistema il papillon bianco sotto il mento, con un gesto così tenero da parere una carezza, il vedovo si china sopra l’acquaio e si scruta attentamente negli occhi. Poi vi passa sopra la mano, come per asciugare una lacrima, ma il dorso della mano resta asciutto. La sorella minore, che è la sorella carina, lascia indugiare la mano sul suo mento. Il cravattino risalta bianco come neve sulla pelle arrossata. Furtivamente lui le accarezza la mano. La sorella carina è la sorella che ama. Quel che è bello lui lo ama. Sua moglie era brutta e malata. Per questo non ha pianto.
La sorella brutta è ai fornelli. Il gas sibila. Il coperchio saltella sulla caffettiera luccicante. Le sue dita arrossate armeggiano con le manopole del gas per chiuderle. Sono dodici anni che vive in città, ma non ha ancora imparato a usare la cucina a gas. Porta degli occhiali con la montatura nera e, quando vuol guardare qualcuno negli occhi, si china tutta in avanti e si mette a fissarlo in modo imbarazzante. Finalmente trova la manopola giusta e la chiude.
“Andrà bene il papillon bianco a un funerale?”
È la sorella carina che l’ha chiesto. Il vedovo si sistema i bottoni dei polsini. Porta delle scarpe lunghe e nere e ogni volta che si solleva di colpo sulla punta dei piedi le scarpe scricchiolano.
La sorella brutta si volta di scatto come se qualcuno l’avesse attaccata.
“Certo, bianco ai funerali! Se non lo so io, dopo quello del console.”

Stig Dagerman, Bambino bruciato, Iperborea, traduzione di Gino Tozzetti