Morante, l′anarchica visionaria

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Si spegneva esattamente oggi, il 25 novembre 1985, in una stanza della clinica Margherita a Roma. Elsa Morante, forse il più grande scrittore italiano del ’900, aveva allora settantatré anni e quattro incredibili romanzi alle spalle, insieme a una produzione di racconti, poesie, saggi, articoli e interventi sugli argomenti più disparati: dall’amato Mozart agli amatissimi gatti, dall’Iliade a Piazza Navona, dalla cosa apparentemente più futile a quella della massima importanza. E forse è proprio quest’ultima la chiave di volta, ancora valida, per aprire le porte della sensibilità morantiana. Come ricorda infatti Patrizia Cavalli, amica della scrittrice, la sua bellezza incandescente viveva in quell’oscillazione: fra il gioco e la serietà, fra il sorriso più spietato e la perizia meno calcolata. E non a caso. Dopo aver diviso il mondo fra i cosiddetti Felici Pochi da un lato e gli Infelici Molti dall’altro, Elsa Morante scelse di stare nel primo gruppo, cioè fra quei ragazzini che non mancano mai nei suoi libri, quei pueri che sono aeterni e assicurano la salvezza. Pensiamo all’Elisa di Menzogna e sortilegio; o all’esempio luminoso de L’isola di Arturo, con quel fanciullo procidano che sparge magia ad ogni passo; o ancora a Useppe e a Nino de La Storia, facce gemelle di una medesima moneta, Apollo e Dioniso di un unico pensiero; e infine all’ultimo, disperato Aracoeli, dove il protagonista Manuel, metà Cristo e metà Pasolini, metà bimbo abortito e metà testimone della morte dell’autrice, riesce miracolosamente a raccogliere i semi dell’innocenza.
Un filo rosso che dura una vita quindi, e una vita che è impossibile scollegare dalla scrittura. Insieme al tema della maternità, le stimmate dell’infanzia accompagnarono ovunque Elsa Morante, inseguendola al pari di una costellazione, dall’alto dei cieli come dal più profondo del suo cuore. Le ritroviamo in ogni suo scritto, anche nelle storie abbozzate da bambina, in narrazioni che parlano di bambole e impavidi cavalieri, e perfino nel suo quaderno di prima elementare dove è già possibile, incredibilmente, individuare quei solchi dove la sua arte sarebbe fiorita.
Nulla di casuale allora, e nulla di avventato. Piuttosto tutto malefico e meraviglioso, tutto terrificante e magnifico, e facente parte quasi più di un destino che di un percorso. Sospesa fra un aldilà che dichiarava di frequentare e un aldiqua sempre troppo vile e sterile, Elsa Morante ha lasciato un marchio maestoso nella letteratura, e non solo italiana, un vessillo regale ma pure fragilissimo, un timbro che la rende irriproducibile, per alcuni pure incomprensibile. Ma è naturale. In fondo è la sua originalità che l’ha fatta imporre. È la sua inattualità che la renderà sempre attuale. Anche Giuliana Zagra, studiosa morantiana e anima della Biblioteca nazionale centrale di Roma, è d’accordo su questo punto. Dopo decenni di studi di lettere e manoscritti, dopo analisi innumerevoli e l’allestimento di due mostre, una nel 2006 e l’altra nel 2012, arriva a confidarmi che «è proprio questo che si dovrebbe ricercare in Elsa: una purezza estrema che non è paragonabile a quella di nessun altro, perché troppo autentica; un’essenza che non è mai dichiarata, e che con fatica deve essere conquistata».

La stessa essenza che la rendeva turbolenta nei rapporti con gli altri. Poiché Elsa Morante pretendeva la poesia dalle relazioni, prima ancora che la sincerità; voleva lo stupore infantile, non la furba malizia adulta. E tanti per questo la ammirarono ma in tantissimi non la compresero, non afferrarono quel credo che la rese lontana dalla scena mondana, implacabile nelle amicizie, e sempre vittima di amori dolorosi. Dopo Moravia ci fu infatti il sentimento per Luchino Visconti, e ancor più il legame straziante col giovane Bill Morrow, pittore americano che morì forse suicida nel ’62, e che lascerà tracce profondissime in un animo già afflitto. Di famiglia non agiata, cresciuta in un ambiente complicato, appesa a una paternità doppia come a una madre oscurata da una ricca protettrice, la sua personalità si formò all’insegna di una grande solitudine, da cui dipendeva una altrettanto grande creatività: affetta dalla sindrome di Rousseau, come amava dire Garboli, sia per gli studi di autodidatta che per l’indipendenza ideologica, il distacco dalla borghesia e la rettitudine spirituale, non c’è neppure un rigo da lei vergato che non lo confermi.
Più che una scrittrice era un’anarchica visionaria, una sibilla che adorava Saba, Rimbaud e Cervantes, un eroe che fronteggiava «il drago dell’irrealtà», così lo definiva, e lo convertiva in qualcos’altro. Forse in un silenzio sospeso fra fantasia e sogno, fra il male e il bene di vivere, in un universo dove le parole non mentono, ma pregano con le creature che le pronunciano.
A trent’anni dalla sua scomparsa, Elsa Morante continua dunque a insegnarci la lezione dell’autenticità. E proprio per questo le sue opere-mondo, che sanno tanto di profezia come di rimpianto, allo stesso modo dei suoi personaggi senza tempo possono ancora essere rivissute. «Per esempio Gianna Nannini» mi spiega Tjuna Notarbartolo, direttrice insieme a Dacia Maraini del prestigioso Premio Elsa Morante, «solo pochi anni fa ha musicato Il mondo salvato dai ragazzini. Inoltre molte altre personalità hanno dato il loro contributo ad una letteratura che è sorprendente, perché porta alla luce prospettive sempre nuove». E questa officina culturale, questo laboratorio di idee che s’intersecano incessantemente, è forse la migliore eredità che potevamo augurarci.

Angela Bubba

 

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