
Di lì a un mese hanno autorizzato i miei genitori a fare una breve visita all’appartamento per controllare che fosse tutto in ordine. Sono ritornati con una coperta calda, il mio soprabito autunnale e la raccolta completa delle lettere di Čhecov, l’opera preferita di mamma. La nonna… La nostra nonnina… Non riusciva a capire perché non si fossero portati via almeno un paio di vasetti di quella confettura di fragole che a me piaceva tanto, visto che non solo era in vasetti ma aveva tanto di coperchio… Sulla coperta è saltata fuori una “macchia”… Mamma l’ha lavata, l’ha passata con l’aspirapolvere, senza risultato. L’ha portata in tintoria… La “macchia” ha continuato a “brillare”… Finché non l’abbiamo tagliata via con le forbici. Erano cose familiari, normali: la coperta, il soprabito… Ma ormai non potevo più dormire sotto quella coperta. Infilarmi quel soprabito… Non avevamo i soldi per comprarne uno nuovo, ma io non potevo… Odiavo quella roba! Quel soprabito! Non era paura, mi creda, ma proprio odio! Un odio infinito! Tutto questo rancore… Non riesco a capacitarmene… Dappertutto si parlava dell’incidente: a casa, sull’autobus, per strada. Lo paragonavano a Hiroshima. Ma nessuno ci credeva. Come credere a qualcosa di incomprensibile? Per quanto ti sforzi, per quanto ce la metti tutta, non riesci comunque a capire. Quel che ricordo: noi partivamo e il cielo era di un azzurro intenso.
Svetlana Aleksievič, Preghiera per Černobyl’, edizioni e/o, traduzione dal russo di Sergio Rapetti