Archive for the ‘dentro il giardino’ Category

Un fiore vivo è come un bambino

15 dicembre 2015

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Maria, ma dove hai preso quelle belle giorgine, così floride e allegre?» chiede Vasjutka alla vicina oltre la staccionata.
«Io alle mie ci sono stata dietro, ma gli ha preso un malaccio. Si sono tutte raggomitolate, come chioccioline, e non c’è stato nulla da fare. O me le avevano date poco buone, o Varvara di notte mi ci ha fatto il malocchio, ché son tutte spennate.
Che razza di strega è quella. Lo sa Iddio cosa è successo ai miei fiori. Sono morti, caput. Mi è rimasta questa robaccia qui. A me piacciono i fiori belli, grandi, non questa minutaglia». Vasjutka butta una bracciata di giorgine sul sentiero. «Ma santo cielo! Tutti mi chiedono da chi ho preso questo, da chi ho preso quello, finiranno col farmi andare tutto a male al momento di coglierle, me le faranno marcire nelle aiuole» risponde Maria con voce seccata. «Me le ha date Darusja la dolce. Anche i gigli e anche questa rosa. Me li ha portati la primavera scorsa».
«Prima di star male di nuovo?»
«Ma no, dopo. Poverina, ha attraversato tutto il paese tenendo i bulbi in braccio, fasciati come bambini piccoli. Li ha avvolti nella coperta che usa per coprirsi, li ha stretti al petto per tenerli al caldo e poi, a casa, li ha scoperti, come si fa quando si toglie le fasce a un bambino. Mi sono sentita stringere il cuore, tanto che ho deciso di non prendermela più per il mio Slavko… lui non è mica un anormale… magari gli fosse preso un accidente quando l’avevo in corpo. Ogni giorno che passa mi divora un po’ di più, con tutto quel bere, fosse andato a fuoco… Accid… Che la lingua mi si copra di foruncoli per quello che ho detto…»

…Darusja la dolce è seduta nell’aiuola in mezzo ai fiori, a pochi passi dalle due donne, intreccia e scioglie la sua treccia ormai rada e grigia, sente che parlano di lei e di tanto in tanto se la ride.
Sono loro, le sue vicine, che non hanno sale in zucca né Dio nel cervello, perché pensano che sia scema. Ma lei non è scema, Darusja è dolce.
Che c’è di strano se in inverno ha avvolto i bulbi delle giorgine nella coperta? Nevicava e c’era ancora ghiaccio dappertutto. Darusja ha dato i bulbi dei fiori ai compaesani, perché in autunno ne aveva tirati fuori tanti, ne aveva più che patate in cantina. Li aveva portati anche alle case dove i fiori non sbocciavano mai. Doveva andare in giro con i bulbi ignudi, con quel freddo? Che fa Vasjutka quando porta fuori il nipotino? Lo lascia così, in calzoncini? No, lo avvolge in una coperta, poi lo prende in braccio e così attraversa il villaggio. Un fiore vivo è come un bambino.

Marija Matios, Darusja la dolce, Keller, traduzione dall’ucraino di Francesca Fici

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Questo mondo che respira

15 aprile 2014

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Il Dio della Genesi è un dio cattivo: crea l’uomo a sua immagine e somiglianza, un Dio che “dominerà sui pesci del mare, sugli uccelli del cielo, sul bestiame, sugli animali selvatici e su quelli che strisciano su suolo”.
Il Dio primitivo puniva gli animali selvaggi che assalivano gli uomini ma non l’uomo che ne faceva strage.
Meglio guardare alla lezione francescana o a quella benedettina, oppure al gran nemico Giordano Bruno.

Moses Sabatini, Questo mondo che respira, Laterza

L’irresponsabilità del recensore

4 dicembre 2012

Il buon recensore — quello lievemente losco — ha licenza di chiacchierare di quel che ha letto con una certa irresponsabilità — la letteratura, in tutte le sue forme, è forse l’unica attività umana che esige una quota di irresponsabilità.

Giorgio Manganelli

Avrebbe potuto guardare il giardino di lei

9 luglio 2012

Se soltanto gli avessero permesso di alzarsi a guardare il giardino di lei, forse avrebbe potuto vederla là — ci aveva trascorso così tanto tempo. Se solo gli avessero permesso di mettersi accanto alla finestra sul retro a guardare il suo giardino, e valeva davvero la pena di farlo, forse avrebbe potuto trovarla là, e magari anche sentire la sua mancanza — sentire la sua mancanza era il minimo che poteva fare. Ma non gli mancava, non gli mancava affatto; era rimasto tutto uguale, non gli mancava affatto, e se cercava di mettersi accanto alla finestra a guardare il giardino, sarebbero arrivate sua sorella o quell’altra e con voce chioccia avrebbero cercato di distrarlo. Allora, prima, quando aveva la sua libertà, avrebbe potuto starsene alla finestra in eterno senza che nessuno lo disturbasse. Allora, prima, avrebbe potuto starsene seduto tutto il giorno in poltrona accanto al fuoco, a sognare di niente, a pensare tranquillamente al niente, immerso in ricordi così confusi e simili gli uni agli altri da trasmettergli calore; era come pensare al calore, starsene lì seduti a non fare e a non ricordare niente. Allora, quando lei era viva e lui non sapeva di avere quella libertà, avrebbe potuto starsene seduto in poltrona a suo piacimento, senza nemmeno un libro o un giornale né niente, e nessuno si sarebbe avvicinato per parlargli e dirgli di non essere morboso e di tenersi occupato e di interessarsi alle cose. Come facevano a sapere che pensava a qualcosa di morboso, quando nemmeno lui sapeva realmente cos’aveva in testa.

Maeve Brennan, “Lannegato”, Il principio dell’amore, Bur

Come li tocca, muoiono

28 febbraio 2012

La veranda si apriva su un vasto giardino piantato a palme, felci e una sapodilla enorme. In mezzo c’erano un pozzo, dei cespugli di fiori dove i colibrì iridati bottinavano le corolle. Sullo sfondo i monti, la foresta tropicale.
La vecchia ci ha servito delle sapodille ben mature, caramello fondente.
“Il suo giardino è splendido…”
“Ami le piante?”
“Come tocco un fiore, muore”.

David Fauquemberg, Mal tiempo, Keller

12 dicembre 2011

La casa, e la quercia davanti alla casa

E poi c'era la quercia davanti alla casa, molto più vecchia sia del quartiere sia della cittadina, che in prossimità del pedale riduceva in pietrisco il marciapiede e gettava i suoi rami imponderabili sopra la strada e addentro il giardino, rami la cui circonferenza superava quella di qualsiasi tronco normale. La torsione del suo fusto la faceva sembrare un derviscio gigante ai loro occhi. Il padre diceva che se avessero potuto vedere come Dio, in termini di tempo geologico, l'avrebbero vista balzar fuori dal terreno, girarsi sotto il sole, tendere le braccia e crogiolarsi nelle gioie dell'essere una quercia nell'Iowa. Un tempo a quei rami erano appese quattro altalene, che annunciavano al mondo la fecondità di quella casa. La quercia era ancora rigogliosa e, ovviamente, c'erano stati e c'erano i meli e i ciliegi e gli albicocchi, i lillà e i gelsomini rampicanti e le emerocallidi. Qualche iris della madre continuava a fiorire. A Pasqua lei e le sorelle riuscivano ancora a portare in casa bracciate di fiori, e con gli occhi scintillanti di lacrime il padre diceva: "Ah, sì, sì", quasi fossero una sorta di vestigio, fiori che non erano altro che un piacevole ricordo di fiori.
Perché quella casa solida e verticale le sembrava tanto abbandonata? Tanto straziata?

Marilynne Robinson, Casa, Einaudi

29 novembre 2011

Nella colonia di narcisi-rose

Mi svegliai all'alba, intirizzito. Il cielo era cupo. Dovevamo andare nel palazzo del Raisouni a vedere dei vecchi tavoli dipinti. Mi aspettava una giornata faticosa. Traversammo la spianata fino al portale. Come tutte le volte, pensai che solo ottant'anni prima questa soglia era adorna di teste dei soldati spagnoli infilzate su picche, coi genitali strappati che spuntavano dalle bocche. Il giardino è coltivato a fave e bietole, traversato da sentieri che corrono tra cespugli di Rosa gallica; un muro lo separa da un vasto campo incolto, in cui crescono un paio di olivi, dei melograni e dei fichi. Sussultai — la chiazza chiara laggiù, a una sessantina di metri, erano… Narcisi? — ma c'era qualcosa di allarmante. Avanzai. Non mi ero sbagliato. Il cuore di quelle corolle (biancastre! non candide come quelle del Narcissus papyraceus) era giallo. Ma cos'era l'inquietudine che si insinuava nel mio entusiasmo? […]
In pochi balzi li raggiunsi (scoppiavo di gioia): una dozzina di ciuffi, foglie scure leggermente innevate di verde più chiaro. Erano così doppi, così pesanti… la pioggia recente aveva inclinato quasi tutti gli steli. Ma…?! mi chinai, pensando di avere un'allucinazione. Mi trovavo in mezzo a una piccola colonia di Narcissus telamonius plenus, un ibrido ottenuto in Inghilterra nel primi decenni del Seicento, e avidamente collezionato da grandi botanici barocchi come Sir John Tradescant che lo chiamava "Rosa narciso". Avevo le vertigini. La corolla esterna, bianco-giallina, si affacciava su una moltitudine di petali arruffati che andavano dallo zolfo al becco d'anatra: davvero, più che a Narcisi, somigliavano a Rose baksiae. E il profumo era esotico, speziato — te li saresti immaginati accanto a noci e susini, in un centrotavola di ceramiche di Delft bianche e azzurre, tra candelieri di ottone, boccali di peltro e complicate saliere rinascimentali di maiolica color burro. Guardai il cielo carico di nubi, mi guardai attorno. Mi sentivo la vittima di una beffa organizzata da un dio antico e sornione. Com'era possibile che i semi di questo bastardo magnifico fossero arrivati qui, su queste montagne, portandovi l'atmosfera di una civiltà così remota nello spazio e nel tempo? E perché mi toccavano il cuore, che batte solo per i fiori semplici?

Umberto Pasti, "Un narciso e un bandito", Più felice del mondo, Bompiani

13 novembre 2011

Il giardino di Diana Athill

Da bambini adoravamo le rose, aspettavamo con trepidazione i primi bucaneve, accarezzavamo il velluto dei petali di viola, avevamo altri fiori tra i nostri preferiti, ma il giardino non era semplicemente un posto da guardare. Lo abitavamo: ci arrampicavamo sugli alberi, ci nascondevamo nei cespugli, pescavamo girini e tritoni dal ruscello, rubavamo le pesche e i grappoli d'uva (il che era peccato e dunque più entusiasmante che mangiare prugne e mele dai rami, cosa che invece era permessa). E ci venivano assegnati regolarmente dei compiti, come per esempio raccogliere per la nonna il pisello odoroso o le fragole e i lamponi che dovevano essere messi in tavola quel giorno. Verso la fine della stagione, quei compiti diventavano un po' noiosi, ma mai sgradevoli e, poiché essi implicavano sapori e odori meravigliosi e la piacevole sensazione delle foglie sulla pelle, il giardino veniva naturalmente accettato come fonte di piacere per i sensi nonché luogo pieno di bellezza.

Diana Athill, Da qualche parte verso la fine, Bur

26 ottobre 2011

Seccatura o gioia per gli occhi

Né Helene né Vi sono particolarmente interessate alla natura al di là dei confini del loro giardino. Per Helen, quando viveva ancora a casa, la natura si manifestava come un problema pratico — gli alberi che tenevano in ombra la casa, il prato che non cresceva bene, le ghiande nel vialetto — oppure come una forma addomesticata di bellezza: il suo cespuglio di azalea preferito, per esempio, o il corniolo in fiore. Il suo lavoro in giardino era di manutenzione più che di progettazione, con l'eccezione dei geranei, che le piaceva disporre tutti in fila davanti alla veranda a primavera. Sempre a primavera, poi, aspettava i primi fiori dei bulbi. La natura le piaceva anche sotto forma di panorama visto dal finestrino della macchina in una gita domenicale.

Lydia Davis, "Helen e Vi, Uno studio su salute e vitalità", Creature nel giardino, Bur

30 settembre 2011

Spleen primaverile

Sono contenta che le foglie stiano crescendo così in fretta.
Ancora un poco e nasconderanno la vicina e il suo bambino urlante.

Lydia Davis, Creature nel giardino, Bur