Archive for the ‘dentro la traduzione’ Category

L’amore secondo Samara Meyer

27 luglio 2018

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Ho preso la gru di carta con l’indirizzo di Kyle («se ti senti sola» mi aveva scritto Jenny, non ricordavo nemmeno più quante settimane fa) e sono uscita in fretta e furia. Ma nell’istante in cui ho varcato la porta sapevo che non ne avevo bisogno. Sapevo perfettamente in che modo Jenny se ne era andata. Aveva lasciato tracce di sé ovunque, grondavano dai rami, sfavillavano dai lampioni, scorrevano lungo i canali di scolo. Quell’idrante antincendio non era di un rosso naturale, e sapevo che lei ci era passata accanto. L’albero all’angolo tra la Saint-Laurent e la Pine era di un verde impossibile, e sapevo che lei lo aveva toccato. Vicino a una macchina parcheggiata c’era una pozzanghera piena di arcobaleni – amaranto, cadmio, ceruleo, eliotropo, tangerino –, e sapevo che in quel punto lei si era arresa alle lacrime, le gocce erano cadute a terra finché i suoi occhi non erano diventati grigi come marmo. Ovunque era andata aveva versato colore, aveva macchiato il mondo attorno a lei. Questo era il sentiero di briciole di pane che aveva lasciato per me.
L’ho seguito attraversando diciannove isolati. Il tragitto non era sempre dritto; Jenny aveva girovagato, camminato in cerchi stretti, era tornata sui propri passi. In quei punti, lo sapevo, aveva avuto parecchi dubbi. Ma c’erano anche strisce di colore denso, ininterrotto, quando si era sentita sicura di aver preso la decisione giusta, l’unica possibile. All’angolo tra la Milton e Parc ho individuato una macchiolina vermiglia, e così ho capito che per un secondo si era perfino messa a ridere.
Mentre seguivo i suoi colori mi chiedevo se quello fosse amore. La capacità di scoprire l’umore della persona amata in ogni cosa, in un gatto randagio o in una molecola vagante, settimane dopo che lei ci era entrata in contatto. Mi domandavo come avrebbe reagito quando mi sarei presentata davanti alla porta di casa. Quando le avrei detto che ero dispiaciuta, che ero stata una stupida, che avevo sbagliato tutto. Quando mi sarei messa in ginocchio e l’avrei implorata di perdonarmi.

Sigal Samuel, I mistici di Mile End, Keller

 

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La bella bionda di Dorothy Parker

9 febbraio 2016

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Hazel Morse was a large, fair woman of the type that incites some men when they use the word “blonde” to click their tongues and wag their heads roguishly. She prided herself upon her small feet and suffered for her vanity, boxing them in snub-toed, high-heeled slippers of the shortest bearable size. The curious things about her were her hands, strange terminations to the flabby white arms splattered with pale tan spots–long, quivering hands with deep and convex nails. She should not have disfigured them with little jewels.
She was not a woman given to recollections. At her middle thirties, her old days were a blurred and flickering sequence, an imperfect film, dealing with the actions of strangers.

Dorothy Parker, Big Blonde

 
Hazel Morse era una bella donna alta e ben piantata, una donna di quel tipo che induce gli uomini, quando pronunciano la parola “bionda”, a schioccar la lingua e ad alzar la testa con aria furbesca. Era orgogliosa dei suoi piedini e si sacrificava per questa vanità, imprigionandoli in certe pantofoline dalla punta schiacciata e dai tacchi altissimi, della misura più piccola che sia portabile. Ma soprattutto erano curiose le sue mani, lunghe mani oscillanti, dalle unghie incassate e convesse, che terminavano in modo strano quelle braccia flaccide e bianche, sparse qua e là di efelidi pallide. Quelle mani non avrebbe dovuto mai sfigurarle con piccoli gioielli.
Non era donna dedita ai ricordi. A trentacinque anni circa, i suoi giorni erano una fuggevole e labile sequenza, una mediocre pellicola che mostrava solo volti e gesti di sconosciuti.

Dorothy Parker, “La bella bionda”, Il mio mondo è qui, Bompiani, traduzione di Eugenio Montale

 
Hazel Morse era una bella donna alta e formosa, il tipo che spinge certi uomini, quando pronunciano la parola “bionda”, a schioccare la lingua scuotendo maliziosamente la testa. Si vantava dei suoi piedini minuscoli e soffriva per vanità costringendoli in scarpine strette con tacchi a spillo, della misura più piccola che riuscisse a sopportare. La cosa più curiosa erano le sue mani, bizzarre terminazioni di braccia candide e flosce punteggiate di pallide macchie di sole, mani lunghe e palpitanti con unghie profonde e convesse. Non avrebbe mai dovuto deturparle con gioiellini da quattro soldi.
Non era una donna portata all’introspezione. Giunta a cavallo tra i trenta e i quaranta, i giorni passati erano una sfilza di immagini sfocate e tremolanti, un film imperfetto, che parlava di socnosciuti.

Dorothy Parker, “Una bella bionda”, Tanto vale vivere, La Tartaruga Edizioni, traduzione di Chiara Libero

Natalia Ginzburg: traduzione difettosa ma appassionata

6 gennaio 2016

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Mi fai tornare in mente un episodio che vede protagonista Natalia Ginzburg, in veste di traduttrice repressa dalla casa editrice Einaudi.
È un esempio pertinente. Ma lo racconta Natalia stessa, in una postfazione al volume Sts che contiene la sua antica versione della Strada di Swann di Proust, che aveva inaugurato la nostra edizione della Recherche, in seguito ripubblicata negli «Struzzi», con una revisione condotta sulla nuova edizione critica francese. La curatrice della revisione si era permessa degli interventi, senza avvertire Natalia. Lei allora si indigna e nell’edizione Sts ripristina il suo antico testo, avvertendone il lettore, spiegando tutto. Leggiamo anche noi: «Nell’entusiasmo gridai brandendo l’ombrello chiuso: zut zu zt», dice la traduzione di Natalia. E i revisori al posto di quel «zut zu zt» hanno corretto «Nespole!» Perché?, si chiede Natalia. «Questa mia traduzione, se devo giudicarla oggi, la giudico una traduzione difettosa ma appassionata. Penso che i revisori, quando una traduzione è difettosa ma appassionata, se ne dovrebbero accorgere, correggere gli sbagli ma sottoporre al traduttore le correzioni. Se non lo fanno, smaneggiano qualcosa che non dovrebbe essere smaneggiato senza consenso. Oggi, questa mia traduzione esce così com’era nel ’46: con qualche rara correzione dei revisori, che ho accettato, e qualche rara correzione mia».
Lo scritto di Natalia è anche un pezzo molto bello e commovente sulla storia di quel libro: «Nel ’37, Leone Ginzburg e Giulio Einaudi mi proposero di tradurre À la recherche du temps perdu. Accettai. Era folle propormelo e folle fu da parte mia accettare. Fu anche, da parte mia, un atto di estrema superbia. Avevo vent’anni». Non aveva letto Proust. La Recherche, in una edizione legata in rosso e oro del ’29, fu il regalo di nozze di Santorre Debenedetti. Natalia fece vedere a Leone le prime due pagine di traduzione, che dovette riscrivere molte volte. «Imparai allora che cosa significa tradurre: quel lavoro di formica e di cavallo che è una traduzione. Quel lavoro che deve combinare la minuziosità della formica e l’impeto del cavallo». Leone continuò a darle consigli, poi non ebbe più tempo. Ci fu la guerra, l’esilio, Natalia perse a Pìzzoli la traduzione, la ritrovò a guerra finita. «Per tradurre quei due volumi, ci avevo messo otto anni».

Severino Cesari, Colloquio con Giulio Einaudi, Einaudi, 2007

Munro: Qual è la cosa importante? Su che cosa vuole che si concentri l’attenzione del lettore?

28 dicembre 2015

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Un tempo Georgia ha frequentato un corso di scrittura creative, ed ecco cosa le disse il docente: troppa roba. Troppe cose tutte insieme, e troppe persone, anche. Rifletta, le disse. Qual è la cosa importante? Su che cosa vuole che si concentri l’attenzione del lettore? Ci pensi.
Alla fine scrisse un racconto su suo nonno che ammazzava polli, e il docente sembrò soddisfatto. Georgia al contrario lo giudicava fasullo. Compilò un lungo elenco di tutto ciò che era rimasto fuori e lo consegnò in appendice al racconto. Il docente le disse che aveva aspettative troppo alte su se stessa e sul processo di scrittura, e aggiunse che lo stava stancando.

Alice Munro, “Diversamente”, tratto da Amica della mia giovinezza, Einaudi, traduzione di Susanna Basso

Georgia once took a creative-writing course, and what the instructor told her was: Too many things. Too many things going on at the same time; also too many people. Think, he told her. What is the important thing? What do you want us to pay attention to? Think.
Eventually she wrote a story that was about her grandfather killing chickens, and the instructor seemed to be pleased with it. Georgia herself thought that it was a fake. She made a long list of all the things that had been left out and handed it in as an appendix to the story. The instructor said that she expected too much, of herself and of the process, and that she was wearing him out.

Alice Munro, “Differently”, tratto da Friend of my youth, Viking

Le versioni di Alice, incipit capitolo 4

26 novembre 2015

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It was the White Rabbit, trotting slowly back again, and looking anxiously about as it went, as if it had lost something; and she heard it muttering to itself ‘The Duchess! The Duchess! Oh my dear paws! Oh my fur and whiskers! She’ll get me executed, as sure as ferrets are ferrets! Where can I have dropped them, I wonder?’ Alice guessed in a moment that it was looking for the fan and the pair of white kid gloves, and she very good-naturedly began hunting about for them, but they were nowhere to be seen—everything seemed to have changed since her swim in the pool, and the great hall, with the glass table and the little door, had vanished completely.

Si trattava del Bianco Coniglio, ancora lui, che tornava indietro trotterellando lentamente e guardando in giro con ansia, come se avesse perso qualcosa; Alice lo udì borbottare tra sé e sé: «La Duchessa! La Duchessa! Oh, povere le mie zampe! Oh, pelliccetta mia, baffetti miei! Mi farà giustiziare, sicuro come che i furetti sono furetti! Dove possono essermi caduti, mi domando?» Alice intuì in un attimo che il Coniglio stava cercando il ventaglio e il paio di guanti di capretto bianchi e con slancio di generosità inizio a cercarli, rna non si vedevano da nessuna parte – tutto sembrava essere cambiato dopo la sua nuotata nel laghetto, anche la grande sala, con il tavolo di vetro e la piccola porta, erano svaniti del tutto.

Lewis Carroll, Alice nel paese delle meraviglie, BC Dalai, traduzione di Andrea Càsoli
Era il Coniglio Bianco, che se ne tornava trotterellando con insolita lentezza, guardandosi attorno preoccupato, come se avesse perduto qualcosa, e Alice lo udì borbottare tutto da solo: «La Duchessa! La Duchessa! Oh, povere le mie zampe! Oh, la mia pelliccia, le mi basettine! Mi farà giustiziare, com’e vero che i Reali sono reali! Ma dove posso averli persi, dove?» Alice comprese subito che stava cercando il ventaglio e i guanti bianchi di capretto e, premurosa come sempre! comincio anche lei a ispezionare il terreno, ma non si vedevano da nessuna parte – da quando aveva fatto quella nuotata nel lago tutto il paesaggio era cambiato, e il grande atrio, il tavolo di vetro e la porticina erano completamente svaniti.

Lewis Carroll, Alice nel paese delle meraviglie, Feltrinelli, traduzione di Aldo Busi
Era il Coniglio Bianco che se ne tornava indietro  un’altra volta, trotterellando con calma e guardandosi attorno ansiosamente come se avesse smarrito qualcosa, e Alice sentì che borbottava fra sé e sé: «La Duchessa! La Duchessa! Oh, zampe zampette! Oh, pelo e basette! Mi farà giustiziare di certo, come e vero che i furetti sono furetti! Ma dove li avrò messi?» Per Alice fu subito  chiaro  che il Coniglio stava cercando  il ventaglio e i guanti  bianchi  di  capretto, e, volonterosa, si diede da fare per aiutarlo, ma non c’era verso di trovarli – era cambiato tutto dopo la nuotata in mare, e il grande salone col tavolino di vetro e la porticina erano svaniti completamente.

Lewis Carroll, Alice nel paese delle meraviglie, Garzanti, traduzione di Milli Graffi

 

 

 

Traduttori nobil razza dannata: Culicchia su Bocchiola

20 aprile 2015

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Che cosa hanno in comune, a parte naturalmente la professione, Stephen King e Samuel Beckett, Martin Amis e Irvine Welsh, Thomas Pynchon e Paul Auster? Semplice: in molti li abbiamo letti nelle traduzioni di Massimo Bocchiola, che dopo il romanzo Il treno dell’assedio (Il Saggiatore 2014) e le raccolte di poesie pubblicate per Marcos y Marcos e Guanda, ha scritto per Einaudi Stile libero Mai più come ti ho visto, saggio sotto forma di scorribanda, o volendo di memoir, nel quale ripercorre passo passo le tappe del suo percorso di traduttore, raccontando il dietro le quinte di un mestiere bellissimo, difficilissimo e per certi versi impossibile — trattandosi ogni volta di inseguire per decine, centinaia, migliaia di pagine le parole altrui senza raggiungerle davvero mai –, eppure piacevole.

Un mestiere sfibrante
«Tradurre testi letterari è molto bello», scrive Bocchiola. «Consente di impossessarsene a proprio uso, e nel contempo — se lo vogliamo, se ne siamo capaci — di farne dono ad altri». Già: in Italia com’è noto si traduce tantissimo, eppure è piuttosto raro che il lavoro del traduttore venga menzionato se non di sfuggita in una recensione; quanto al compenso, che di norma viene stabilito «a cartella», da noi si attesta sui dieci o dodici euro, mentre in Paesi come la Germania — dove i traduttori hanno un loro sindacato in grado di trattare con gli editori — arriva anche a trenta e oltre; per tacere del resto del lavoro editoriale, ovvero delle revisioni e delle eventuali correzioni che almeno in teoria dovrebbero competere alla redazione della casa editrice: non da oggi, ma oggi più che mai, queste mansioni sono spesso appaltate all’esterno per ragione di costi, e sempre per ragione di costi si dà addirittura il caso che una traduzione non venga né rivista né corretta, ma pubblicata in fretta e furia così com’è, di modo che a farne le spese sono naturalmente innanzitutto l’autore e il lettore, ma anche il traduttore, che vede mortificato in questo modo il lavoro di mesi.
Un lavoro duro, a tratti perfino sfibrante, che richiede una grande concentrazione e che talvolta non conosce orari. «Tradurre è un po’ come spalare carbone», scrive non a caso Paul Auster, citato da Bocchiola e ripreso nella quarta di copertina. «Lo sollevi con il badile e lo rovesci nella fornace. Ogni pezzo è una parola, ogni palata è una nuova frase, e se hai la schiena abbastanza forte, e la resistenza che serve a continuare per otto o dieci ore al giorno, riuscirai a tenere acceso il fuoco». Tutto vero, posso confermare: da parte mia, malgrado i dieci anni trascorsi in libreria ad aprire scatoloni e fare rese, non ho mai faticato tanto come quando ho tradotto i Racconti dell’età del jazz di Francis Scott Fitzgerald.

Dare nuova vita
Ma Bocchiola non si limita a mostrare più che generosamente l’officina del traduttore, con tutta una serie di esempi pratici ed escursioni in territori quali il cinema, il calcio o la guerra, nonché ammissioni di richieste di consulenza a esperti delle varie discipline, tra cui suo padre, medico, per una scena di Stella del mare di Joseph O’Connor in cui viene diagnosticato un caso di sifilide, e un ex compagno di scuola diventato agronomo per venire a capo di una parola usata in una poesia da Blake Morrison. In questo saggio densissimo, assai divertente e sempre interessante, prova anche a ragionare sul legame tra la traduzione e il tempo, a partire dal fatto che la traduzione di un testo letterario contribuisce a dare nuova vita, oltre che alle parole, anche a quella che è a tutti gli effetti un’esperienza passata, trasformandola e perciò stesso dandole una seconda occasione, restituendone l’eco infinita. Per arrivare alla conclusione che tradurre, come scrivere, corrisponde in un certo senso a sconfiggere la morte attraverso la parola.

I due Moby Dick
Può darsi che le cose stiano davvero così, se non altro quando le parole sono destinate a rimanere: vedi l’Infinito di Leopardi, che a un certo punto Bocchiola decide di ritradurre dalla traduzione in inglese di Tim Parks anche per il gusto di sfidare sé stesso. Sta di fatto che almeno su una cosa non posso dirmi d’accordo con lui, quando scrive che «ogni scrittore può ricevere critiche, attacchi, insulti ben peggiori di chi traduce, e su un terreno oggettivamente più personale. Ma al traduttore è statutariamente negato il diritto primario di ogni artista, cioè quello di produrre un’opera che piaccia prima di tutto a lui stesso. Forse è proprio per questa ragione, come per nessun’altra, che non si può definire un artista». Beh: senza tirare in ballo qui il caso del Moby Dick tradotto da Pavese, che bene o male da generazioni fa sì che ci siano due Moby Dick, quello di Melville e quello appunto di Pavese, ci sono al contrario traduttori che meritano senza dubbio tale definizione. E credo di poter dire che l’autore di Mai più come ti ho visto — un testo che certo sarà adottato in ogni corso di traduzione che si rispetti e che comunque andrebbe letto da chiunque ami leggere — possa essere annoverato tra questi.

Giuseppe Culicchia, Traduttori nobil razza dannata, apparso su la Stampa, 30 marzo 2015

Non ti scaldare così per una foglia di lattuga

15 aprile 2015

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I had made peanut-butter-and-marmalade sandwiches for the children and salmon-and-mayonnaise for us. But I had not put any lettuce in, and Andrew was disappointed.
“I didn’t have any,” I said.
“Couldn’t you have got some?”
“I’d have had to buy a whole head of lettuce just to get enough for sandwiches, and I decided it wasn’t worth it.”
This was a lie. I had forgotten.
“They’re a lot better with lettuce.”
“I didn’t think it made that much difference.” After a silence, I said, “Don’t be mad.”
“I’m not mad. I like lettuce on sandwiches.”
“I just didn’t think it mattered that much.”
“How would it be if I didn’t bother to fill up the gas tank?”
“That’s not the same thing.”

Avevo preparato dei tramezzini al burro di arachidi e marmellata per le bambine e al salmone e maionese per noi. Ma non ci avevo messo la lattuga e Andrew si irritò.
– Non ce l’avevo, – dissi.
– Non la potevi comprare?
– Dovevo prenderne una testa intera per qualche foglia da mettere nei tramezzini; ho pensato che non ne valesse la pena.
Mentivo. Me ne ero scordata.
– Non pensavo facesse tanta differenza -. E dopo un attimo di silenzio aggiunsi: – Non ti scaldare così.
– Non mi scaldo. È che mi piacciono i tramezzini con la lattuga.
– Non pensavo che facesse tanta differenza.
– E se io non mi preoccupassi di fare benzina, allora?
– Non è la stessa cosa.

Alice Munro, “Miles City, Montana”, Il percorso dell’amore, Einaudi, traduzione di Susanna Basso

Lei mi traduce

23 febbraio 2015

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Lei mi traduce: Sotto ragazzi, eccetera. […] Il testo dice: Come on boys. Capisce? Lei mi ha invertito il significato. Come on boys vuol dire venite su ragazzi. Lei mi mette l’opposto, cioè non su, ma sotto. E ancora, più avanti, dove descrive l’alzabandiera a bordo. Lei ha tradotto, mi pare, i marinai si scoprirono, sì, si scoprirono, ha tradotto lei, mentre il testo inglese diceva: The crew raised their hats. Vede l’inglese come è preciso? La ciurma alzò i loro cappelli. Alzò, capisce, come a salutare la bandiera sul pennone.

Luciano Bianciardi, La vita agra

Doversi proteggere dal disprezzo

22 febbraio 2015

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How to make clear, for instance, the difference between the Montjoy’s kitchen and our kitchen at home. You could not do that simply by mentioning the perfectly fresh and shining floor surfaces of one and the worn-out linoleum of the other, or the fact of soft water being pumped from a cistern into the sink contrasted with hot and cold water coming out of taps. You would have to say that you had in one case a kitchen that followed with absolute correctness a current notion of what a kitchen ought to be, and in the other a kitchen that changed occasionally with use and improvisation, but in many ways never changed at all, and belonged entirely to one family and to the years and decadesof that family’s life. And when I thought of that kitchen, with the combination wood and electric stove that I polished with waxed-paper bread wrappers, the dark old spice tins with their rusty rims kept from year to year in the cupboards, the barn clothes hanging by the door, it seemed as if I had to protect it from contempt—as if I had to protect a whole precious and intimate though hardly pleasant way of life from contempt. Contempt was what I imagined to be always waiting, swinging along on live wires, just under the skin and just behind the perceptions of people like the Montjoys.

Alice Munro, “Hired Girl”, The View from Castle Rock, Alfred A. Knopf, 2006

Come spiegare, ad esempio, la differenza tra la cucina dei Montjoy e quella di casa? Non bastava descrivere i pavimenti lustri e perfettamente puliti di una e confrontarli con il linoleum consumato dell’altra, o paragonare il fatto che per avere acqua dolce in casa noi la dovessimo pompare da una cisterna, mentre lì usciva dai rubinetti sia calda sia fredda. Si sarebbe dovuto dire che in un caso si stava parlando di un ambiente che si atteneva alla perfezione all’ideale di cucina in quel dato momento, e nell’altro invece di un locale che si trasformava a volte in virtù dell’uso e dell’improvvisazione e che tuttavia non cambiava affatto e apparteneva in modo assoluto a un nucleo familiare e agli anni e decenni di vita di quella famiglia. E quando pensavo a quella cucina, a quel misto di legno e di fornelli elettrici che lucidavo con i sacchetti di carta cerata del pane, ai vecchi barattoli scuri delle spezie dai bordi arrugginiti, riordinati anno dopo anno negli armadietti, ai vestiti da stalla appesi dietro alla porta, mi sembrava di doverli proteggere dal disprezzo — quasi dovessi proteggere dal disprezzo un intero modo di vivere prezioso e intimo anche se non gradevole. Era disprezzo la minaccia che immaginavo sempre in agguato, guizzante dentro cavi dell’alta tensione, a fior di pelle e dietro ogni percezione di gente come i Montjoy.

Alice Munro,”Stipendiata”, La vista da Castle Rock, Einaudi, 2007, traduzione di Susanana Basso

Nasconderò la mia angoscia nel fazzoletto

20 febbraio 2015

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“Through the chink in the hedge,” said Susan “I saw her kiss him. I raised my head from my flower-pot and looked through a chink in the hedge. I saw her kiss him. I saw them, Jinny and Louis, kissing. Now I will wrap my agony inside my pocket-handkerchief. It shall be screwed tight into a ball. I will go to the beech wood alone, before lessons. I will not sit at a table, doing sums. I will not sit next Jinny and next Louis. I will take my anguish and lay it upon the roots under the beech trees. I will examine it and take it between my fingers. They will not find me. I shall eat nuts and peer for eggs through the brambles and my hair will be matted and I shall sleep under hedges and drink water from ditches and die there.”

Virginia Woolf, The Waves, 1931

“Dal buco nella siepe” disse Susan “l’ho vista che lo baciava. Ho alzato gli occhi dal vaso dei fiori e ho guardato nel buco. L’ho vista che lo baciava. Li ho visti, Jinny e Louis, che si baciavano. Nasconderò la mia angoscia nel fazzoletto. L’avvolgerò stretta in un gomitolo. Da sola andrò al bosco dei faggi, prima della lezione. Non mi metterò seduta al banco a fare le addizioni. Non mi metterò a sedere vicino a Jinny e Louis. Prenderò la mia angoscia e la poggerò tra le radici dei faggi. La osserverò, la toccherò con le dita. Non mi troveranno. Mangerò delle ghiande e frugherò tra i rovi in cerca di uova e i capelli mi si aggroviglieranno e dormirò sotto le siepi e berrò l’acqua dei fossi e morirò.”

Virginia Woolf, Le onde, I Meridiani, Mondadori, 1998, traduzione di Nadia Fusini