Archive for the ‘interviste’ Category

The strongest bond I have ever had

16 gennaio 2018

I’ve never made a career of anything, you know, not even of writing. I started out with nothing in the world but a kind of passion, a driving desire. I don’t know where it came from, and I don’t know why—or why I have been so stubborn about it that nothing could deflect me. But this thing between me and my writing is the strongest bond I have ever had—stronger than any bond or any engagement with any human being or with any other work I’ve ever done. I really started writing when I was six or seven years old. But I had such a multiplicity of half-talents, too: I wanted to dance, I wanted to play the piano, I sang, I drew. It wasn’t really dabbling—I was investigating everything, experimenting in everything. And then, for one thing, there weren’t very many amusements in those days. If you wanted music, you had to play the piano and sing yourself. Oh, we saw all the great things that came during the season, but after all, there would only be a dozen or so of those occasions a year. The rest of the time we depended upon our own resources: our own music and books. All the old houses that I knew when I was a child were full of books, bought generation after generation by members of the family. Everyone was literate as a matter of course. Nobody told you to read this or not to read that. It was there to read, and we read.

Katherine Anne Porter, intervista di «the Paris Review», 1963

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Intervista a Emanuele Giammarco e Stefano Friani di Racconti edizioni (8×8, quinta serata)

14 aprile 2017

Ve l’avranno chiesto mille volte: perché fare una casa editrice di soli racconti?
Emanuele Giammarco
: Innanzitutto il mercato editoriale presentava una grossa lacuna. Sia per quanto riguarda la possibilità di vedere pubblicato il proprio manoscritto di racconti – dato che gli editor in sostanza spesso tendono a trasformarlo in un romanzo – sia dal punto di vista dell’offerta. Di fatto erano rimasti fuori mercato molti libri di grande valore, come Una coltre di verde di Eudora Welty, che uscirà a maggio ed era assente dagli scaffali dagli anni Ottanta. Facendo uno studio accurato ci siamo accorti che c’erano grandissimi libri che a causa di un pregiudizio riferito alla forma breve non sarebbero mai potuti uscire. Si pensa che non siano in grado di vendere e di mantenere una casa editrice.
Stefano Friani: Sì, di sicuro i racconti meritavano una casa editrice. Poi che si meritassero noi è un altro discorso…
Giammarco: Sono stati così tanto bistrattati, evidentemente, che gli siamo dovuti capitare proprio noi in sorte. Ovviamente c’era anche la passione per il racconto in sé che accomuna me e Stefano. In questo senso è stato semplice imboccare questa via.
Friani: E dobbiamo ammettere che prima è nata l’idea di fare una casa editrice e poi quella di Racconti nello specifico. Volevamo fare un progetto editoriale assieme. Poi, cercando e spiluccando quello che mancava negli scaffali e nell’offerta delle librerie, ci siamo accorti che i racconti erano effettivamente la risposta. Tra l’altro, mentre noi stavamo creando la casa editrice, c’era già un certo fermento attorno alla forma racconto: c’era «Cattedrale», «Watt», «effe», «Carie», una serie di riviste e attività parallele; senza contare i blog come «Nazione Indiana». Mi ricordo che Maria Di Biase di scratchbook.net, mentre noi avevamo già scelto Eudora Welty, aveva a suo tempo comprato un libro dell’autrice a una bancarella dell’usato chiedendosi poi su facebook come mai nessuno non la ripubblicasse. E la stessa cosa era successa con James Baldwin. Mi ricordo che eravamo insieme e ci siamo detti: che facciamo, lo diciamo o ce lo teniamo ancora per noi?
Giammarco: Avevamo paura di rovinare la sorpresa… senza sapere che in Italia nessuno compra libri.

Qual è il limite tecnico che vi siete dati per definire uno scritto un racconto?
Giammarco
: «Definire» non è proprio nelle nostre corde. Ci siamo accorti di questo: tutti i confini sono sfumati, sono tutti orizzonti. Ci sono alcuni parametri, certo, la lunghezza canonica delle cento pagine calviniane, a livello strutturale e propriamente editoriale, sembra il massimo consentito per un racconto. Ci siamo interrogati spesso su quale fosse il principio letterario più adatto per identificare la forma, ma è davvero difficile e siamo quasi arrivati alla conclusione che la lunghezza standard, intorno alle trenta pagine, fino a quella un po’ più lunga che gli americani e gli inglesi chiamano «novella», è l’unico vero principio adatto a identificare cosa sia una short story. Poi esistono milioni di interpretazioni letterarie su quale sia il tipo di scrittura che renda un racconto quello che è, a prescindere dalla lunghezza. Sono discorsi interessanti – per me quelli di Trilogia di New York sono racconti, per esempio – e molte di queste interpretazioni dicono il vero. Ma porre dei limiti troppo stringenti non è mai prudente. Preferisco usufruire di un rasoio critico e perdermi in una tautologia: i racconti sono scritti brevi.
Friani: Ci sono anche i racconti di una sola riga come quello famoso di Ernest Hemingway sulle scarpe da neonato. Esistono i racconti lunghi che storicamente hanno una tradizione anche importante nell’editoria italiana. Se uno va a spulciarsi la Piccola Biblioteca Adelphi può trovare delle perle meravigliose: Stefan Zweig ha scritto delle novella, anche Bennett, e insieme a loro penso a Le due zittelle di Landolfi. Diciamo che noi come casa editrice, assumendoci l’impegno di chiamarci Racconti e quindi avocando a noi un nome «pesante», ci siamo detti che quello era il massimo del nostro orizzonte: i racconti lunghi. L’unica cosa su cui possiamo mettere la mano sul fuoco è che non pubblicheremo mai romanzi, saggi o poesia.
Giammarco: Forse arriverà il momento in cui sforeremo le cento pagine e ci diranno «ma è un romanzo breve!»; però credo che a quel punto la discussione sarà così sterile che forse sarà inutile parlarne.

Nel vostro catalogo ci sono autori di nicchia ma che hanno ricevuto il favore della critica e alcuni riconoscimenti letterari (James Baldwin, Virginia Woolf, Philip Ó Ceallaigh, Rohinton Mistry, Éric Faye, Stephen Graham Jones). Dopo un inizio improntato su queste scelte editoriali, cosa possiamo aspettarci da Racconti? Potete anticiparci qualcosa sui progetti futuri della casa editrice?
Giammarco
: Direi che esiste una biforcazione nel catalogo di Racconti, andiamo verso due direzioni, e l’abbiamo capito anche con il senno di poi. La prima è il repêchage dei classici che non venivano pubblicati per motivi a noi oscuri. Ad esempio James Baldwin – che è o comunque si sta affermando come un classico della letteratura americana – ma anche Virginia Woolf. Non so se posso anticipare qualcosa, ma andremo ancora in quella direzione: a maggio uscirà la già citata Eudora Welty, un grande classico non solo della short story – è inclusa nell’albero di Atlantide, per dire. Poi esiste un’altra direzione che è quella più in fieri: quella che coinvolge maggiormente i nostri gusti e le nostre opinioni personali riguardo la letteratura internazionale e – non ancora, ma presto – italiana… È questo il filone in cui si inserisce Mia Alvar – che uscirà a maggio-, quello delle letterature poco calcate, come quella filippina…
Friani: …ma anche quella americana e latinoamericana, dato che Mia è saldamente inserita nell’universo culturale statunitense: ha vinto il Bingham Prize per l’opera prima, ed è finita nella lista dei migliori libri dell’anno per Amazon, per il «San Francisco Chronicle», per «The New York Times». È un’autrice di tutto rispetto. Però quello che ci interessa, l’ho detto più volte, è lo sguardo dell’autore o dell’autrice. Nel suo caso è molto interessante perché è il prototipo della sradicata, visto che è nata nelle Filippine, dove ha vissuto fino ai nove anni, e poi si è trasferita in Bahrain per lavorare lì e poi ha vissuto fino a oggi negli Stati Uniti, a New York, dove è inserita nel circolo letterario degli autori stranieri e no.
Giammarco: Abbiamo pubblicato molti autori di lingua inglese, non tanto perché è la lingua che mastichiamo meglio, ma anche perché l’inglese, in quanto lingua internazionale per eccellenza, ci ha permesso di visitare paesi diversi, come i nostri autori, che per un verso o per un altro possono essere ritenuti dei migranti. La cosa interessante è che scrivono in una lingua che non è la loro, cosa che secondo noi si dovrebbe notare nella lingua, in uno sguardo che è sempre altro, a metà tra due mondi, per varie ragioni ogni volta diverse.

A questo proposito, in un’intervista dell’anno scorso avete dichiarato di voler proporre una raccolta di racconti italiana per ottobre 2017. Ora che sono passati diversi mesi potete dirci qualcosa di più?
Giammarco: Incredibilmente è la prima volta che in vita nostra forse riusciremo a mantenere una promessa. Non dirò il nome, ma è un esordiente, giovane, che si inserisce perfettamente nel nostro catalogo; questa era la cosa che più ci faceva tremare: l’idea di trovare un italiano che stesse bene con questa pletora di migranti e classici. Ci siamo riusciti… chi lo sa!
Friani: Una cosa che ci premeva era che stesse in armonia con il resto del catalogo e quindi che potesse stare accanto a Philip Ó Ceallaigh, James Baldwin, e che avesse quel tipo di sguardo e di sensazione che è quella dello straniero in patria. È un libro su cui abbiamo puntato in modo particolare.

L’avete scoperto insieme oppure uno di voi l’ha portato in redazione?
Giammarco: Questo è abbastanza importante perché quando ho letto quest’autore sono andato da Stefano a dirgli di aver letto in una rivista letteraria una cosa molto interessante, la più interessante di quelle che mi erano capitate fin lì; incredibilmente Stefano si era già preoccupato di leggere un altro racconto di questo autore e mi ha confidato di aver avuto la stessa impressione. È uno di quei segnali, per gli appassionati di destino, che…
Friani: …che indicano quanto ci sbagliamo entrambi, congiuntamente, così nessuno dei due potrà dire all’altro «te l’avevo detto!». No, sul serio, siamo entrambi innamorati del libro, è stato un bel momento quando ci siamo ritrovati a parlarne. Effettivamente non capita di frequente di fare una scoperta assieme, generalmente è uno dei due che trova l’autore e poi l’altro quasi sempre, immancabilmente, se ne innamora; anche se avviene in un momento successivo. Questa volta invece c’è stata una sinergia astrale.
Giammarco: Sì, l’ha letto anche Leonardo Neri e ha avuto impressioni contigue. Ci siamo confrontati in maniera più matura. Dopo la prima lettura…
Friani: Dillo che hai voluto fare la riunione.
Giammarco: Sì, abbiamo fatto la riunione del mercoledì. Comunque abbiamo molte cose in lettura, alcune idee stanno venendo fuori da sole. C’è un dibattito interno su un manoscritto canonico, su qualcosa che è arrivato direttamente da fuori, senza mediazioni da parte del mondo editoriale.

Qual è per voi il tipo di «filosofia» che deve trasmettere una raccolta di racconti? Avete un testo o un autore di riferimento che consigliereste come modello agli esordienti nel racconto?
Giammarco: Dal punto di vista della narrazione tipica, cioè quello che viene in mente quando si pensa a un racconto, ce ne sono tanti ovviamente. Ci sono i grandi classici, è quasi inutile nominarli. Gli scrittori di racconti sanno benissimo che leggendo attentamente Carver impareranno a togliersi qualche vizio, avvicinandosi a ciò che viene solitamente riassunto con l’espressione «non detto». Quello che faceva Lish era tagliare il più possibile, quasi a far partecipare il lettore alla stesura stessa del racconto. La verità è che la forma breve ha dato esempio di sé, e ce ne rendiamo conto ogni giorno, in maniere completamente diverse l’una dall’altra. Un esempio che faccio spesso ultimamente, perché l’ho letto di recente, è Goethe muore. Quelli di Thomas Bernhard sono certamente racconti, eppure ragionando sulla scrittura in sé è certamente l’ultima maniera che ti viene in mente per approcciare la forma breve: Bernhard è ridondante, il suo una specie di flusso di coscienza – espressione orrenda mi rendo conto –, un monologo interiore, ossessivo, basato molto sulle ripetizioni. Dov’è la famosa epifania?
Friani: La stessa Mia Alvar, come abbiamo scritto nella quarta di copertina, fa dei romanzi in miniatura, che sono talmente densi che si fatica a dire che siano racconti perché hanno talmente tanti livelli di lettura e c’è talmente tanto dentro che minaccia di esondare, di esplodere, al punto che è difficile definirla una scrittrice canonica di racconti.
Giammarco: Certo, se qualcuno vuole scrivere racconti horror è meglio che si legga Poe o magari passi per Hawthorne, i primi classici americani. È chiaro che se vuoi affrontare il grottesco, devi leggere appunto Eudora Welty, i racconti di Faulkner; tra i russi Čechov è citato da tutti i più grandi scrittori di racconti come il migliore. Per quanto riguarda la filosofia, invece, è importante sentire la filosofia dell’autore non dall’autore ma nella storia. In Philip Ó Ceallaigh una certa filosofia si evince non solo perché filosofo lo è di formazione, ma perché per vie traverse, in maniera intelligente, con questa prosa alla Flaubert, si concede nei suoi racconti qualche riflessione sul mondo. In quel caso è molto bello che si senta la voce dell’autore attraverso i personaggi.
Friani: In altri casi invece è la storia a dare incisività alla voce dell’autore. A noi non dispiace che ci sia anche una certa disomogeneità nei nostri libri, al contrario di altri editori che invece privilegiano un’unità piuttosto lapalissiana all’interno del catalogo; a noi non dispiace ad esempio che in Mia Alvar i racconti possano essere ambientati negli Stati Uniti, in Bahrain e nelle Filippine, o in Philip Ó Ceallaigh a Bucarest e negli Stati Uniti. L’importante è che si percepisca un filo rosso, un tratto che guidi la lettura e che corrisponda alla voce dell’autore.
Giammarco: Vorrei aggiungere che appunto, come la filosofia, secondo me la letteratura più che dare risposte deve suscitare una serie di problematiche. Credo che i nostri libri siano adatti a fare questo, o almeno spero che lo siano: a suscitare grandi e piccole domande. Lo dimostra il fatto che ognuno di noi dà una diversa interpretazione dello stesso libro. È uno dei fattori più divertenti del lavoro editoriale: ti puoi confrontare con gli altri sull’interpretazione e la lettura di un determinato racconto. Il fatto che sia aperto, secondo me, aggiunge qualcosa in più alla narrazione. Il classico show, don’t tell: una vecchia legge che però secondo me funziona. Quando nelle descrizioni si sente troppo la voce dello scrittore il lettore un po’ storce il naso. Non si tratta tanto di dire le cose in faccia o meno. Credo che essere uno scrittore significhi comprendere la distanza fra l’uomo che batte i tasti sul computer e il narratore della storia.

Dal punto di vista della comunicazione che difficoltà avete riscontrato? Che soddisfazioni avete avuto? Si dice tanto che viviamo nell’epoca della brevità (nel senso della lettura) ma alla fine i racconti – per motivi incomprensibili – sono vituperati dal mercato.
Giammarco: Com’è d’uopo oggigiorno, la comunicazione è un gran problema. Se possibile, il problema nel comunicare una raccolta di racconti è lo stesso che impedisce a lettori poco motivati di comprarla. Tenere a mente un’intera raccolta, «comprenderla» nel vero senso etimologico della parola, è infatti più difficile, richiede uno sforzo mnemonico maggiore, più elasticità mentale e disponibilità a uscire dal torpore tipico del puro intrattenimento passivo a cui ci siamo abituati e forse arresi. Non è semplice raccontare un libro di racconti, proprio perché è sempre una costellazione di racconti, ed è diverso dal raccontare una stella.
Friani: Storicamente è il motivo per cui faticano i racconti con i librai.
Giammarco: Se non sappiamo tenere a mente una raccolta non sappiamo raccontarla: anche i cosiddetti mediatori culturali soffrono questo scoglio, e spesso ci si trova di fronte allo stesso problema del gioco in cui ci si bisbiglia all’orecchio una frase e alla fine l’ultimo del cerchio ne tira fuori una totalmente diversa da quella di partenza. La prima difficoltà di comunicazione a cui penso è quindi questa: la capacità di dare una sintesi di quello che succede all’interno di una raccolta di racconti. In più noi tentiamo sempre di crearla questa cosa o di scovarla, di cercare una voce unitaria per tutti i racconti affinché sia un libro e non solo una specie di collezione estemporanea.
Friani: Lì subentra anche la voce dell’editore nelle bandelle; cerchiamo un po’ di tirare le somme e di individuare qual è il cuore dei racconti e del libro. Riallacciandomi alla domanda iniziale, dei limiti ci sono sicuramente su internet. Quest’anno abbiamo inaugurato il blog Altri animali, gestito e curato da Leonardo Neri, in cui viene pubblicato un racconto a settimana, il racconto del martedì, ed è onestamente molto difficile mantenere un’attenzione costante su tutti i racconti, e farli leggere on line; il supporto forse non aiuta. Sebbene ci siano stati anche racconti importanti c’è una certa ritrosia che mi fa credere che non si legge poi così volentieri sul web. E però tempo fa era uscito un articolo riguardo il fatto che Adelphi avesse di fatto inventato il long form, il che è in effetti significativo di come si parli, si scriva e si legga on line. Siamo in una situazione di stallo in cui il cartaceo, a quanto pare, regge.
Giammarco: Delle soddisfazioni ci sono state però. Siamo riusciti a far digerire – in sostanza rimbambendo di slogan i malcapitati ascoltatori – il fatto che Philip Ó Ceallaigh e Virginia Woolf potessero stare nello stesso catalogo. Spesso ci siamo riusciti comunicando i nostri stessi dubbi, assieme a quelle poche certezze acquisite. Ci capiamo sul non capirci, diciamo.

Come vedete un’iniziativa come 8×8 che dà voce a potenziali esordienti?
Giammarco: Ogni volta che se ne presenta l’occasione, e ci ricordiamo di farlo, non lesiniamo complimenti per 8×8, così come per le altre realtà attente alla forma racconto e al brulicante mondo dei manoscritti e degli esordienti. Si tratta di un lavoro faticoso e non dico utile, ma necessario. La letteratura – vado con i termini forti – non vive soltanto di libri buttati giù su carta o addirittura stampati, ma anche in quei libri che ancora devono essere scritti, vagheggiati nella testa di scrittori che ancora non sanno di esserlo, nascosti in un’idea appena abbozzata. La cosa più difficile per uno scrittore esordiente, in questo brodo primordiale, è riuscire a sentire, mentre scrive, il lettore che è in lui: per questo è fondamentale che questa figura del «lettore» si palesi e faccia valere le sue ragioni. Si scrive per essere letti, del resto, no? Ed essere letti non è solo qualcosa di meccanico, presuppone che lo scrittore si sia preso in qualche modo cura del lettore. E questa cosa che io chiamo «prendersi cura del lettore» all’inizio sembra dover fare a botte con un’altra cosa che sintetizzo malamente con l’espressione «ricerca di uno stile». È fondamentale quindi che qualcuno dia una mano dall’esterno, in questa lotta con sé stessi, che si butti con lui nella mischia – una mischia davvero emotiva, fatta di speranze, insoddisfazioni, frustrazioni eccetera. Perciò chi si carica le spalle di questo compito, come chi si occupa di far funzionare 8×8, avrà sempre il nostro appoggio, se non altro morale.

Può essere per voi un’occasione di scouting?
Giammarco, Friani: Certo, perché no?

Nei racconti in gara di questa sera avete riscontrato delle peculiarità stilistiche, linguistiche, tematiche?
Giammarco: Beh, innanzitutto abbiamo riscoperto la troppo spesso dimenticata nobiltà letteraria del piscio… Ragionandoci su a mente fredda bisogna riconoscere il coraggio di tutti i concorrenti: siamo capitati in una tornata sicuramente originale per quanto riguarda i temi trattati. Da un lato c’è la ricerca dell’attimo, del momento di svolta, dell’epifania finale che è tipica della forma racconto. Dall’altro si nota invece una discreta voglia di dilungarsi nelle descrizioni, di introdurre alla narrazione, che è invece sconsigliabile con sole ottomila battute a disposizione. Mi pare che l’efficacia dei racconti sia spesso dipesa da come l’autore si è divincolato nelle varie questioni di adattamento al tema scelto; adattamento del registro linguistico, adattamento della struttura, adattamento dello stile con cui l’autore si trova più a suo agio rispetto all’intuizione avuta all’inizio. Se dicessi che sono errori tipici sembrerei ancora più spocchioso di quanto potrei sembrare sul palco. Diciamo che sono errori obbligati. Ognuno dei concorrenti ha tentato con tutte le forze di costruirsi una voce che fosse solo la sua, questo va riconosciuto e vanno fatti i complimenti a tutti.

Investireste su qualcuno di questi esordienti per un’eventuale raccolta di racconti?
Giammarco: Non bisogna avere fretta, la fretta è il male assoluto. Tanto più oggi, che di libri se ne vendono pochi. Noi ci consideriamo teorici del libro di racconti pensato per essere tale – poi la pratica è tutto un altro discorso e siamo aperti alle critiche. Non di raccolte estemporanee quindi. Esiste una narrazione interna tra i racconti, in questo senso davvero metanarrativa, a cui va dato il giusto peso. Un racconto singolo non basta. Però è vero, da alcuni di questi racconti si potrebbe cominciare a impostare un discorso, fatto soprattutto di confronto e lettura continua con l’autore, ammesso che a lui vada bene.

Intervista a cura di Martina Mincinesi e Sara Valente

Intervista a Stefano Petrocchi (8×8, quarta serata)

3 aprile 2017

Da direttore della fondazione Bellonci, che promuove la diffusione della narrativa italiana anche all’estero, come viene recepita la nostra letteratura? Pensa che ci sia una preferenza per un genere in particolare (romanzo o raccolta di racconti)? Secondo lei viene apprezzata la nuova generazione di autori o vengono ancora prediletti gli scrittori del Novecento?
Ci sono alcuni scrittori italiani contemporanei, diciamo della generazione trenta-quarantenni – per esempio Teresa Ciabatti lo ha detto in un’intervista a «The Huffington Post» qualche giorno fa, ma lo ha detto anche Nicola Lagioia in passato –, che ritengono la narrativa contemporanea italiana non meno interessante di quella americana, francese o inglese. Questo è secondo me un punto di vista minoritario, ma non lontano dalla verità. Ci sono grandi autori italiani che in questo momento non hanno nulla da invidiare ai celebrati americani, francesi e inglesi; se questa percezione – minoritaria da noi – è anche diffusa fuori d’Italia, non saprei. Secondo me noi scontiamo una non altissima propensione di alcuni paesi stranieri a tradurre la nostra narrativa. Naturalmente c’è il fenomeno Ferrante, che ha cambiato un po’ questo panorama negli ultimi anni, ma gli autori più tradotti credo tendano a essere gli stessi da molti anni, vale a dire Dacia Maraini, Alessandro Baricco, Italo Calvino. Questi autori faticano meno a entrare rispetto agli autori più recenti, anche se qualcosa si sta muovendo: per esempio il fatto che recentemente sia stato tradotto in inglese – da un premio Pulitzer quale Jhumpa Lahiri e pubblicato da Europa Editions negli Stati Uniti – il libro di Domenico Starnone, Lacci, è una cosa molto interessante, che apre scenari nuovi. Ecco, il fatto che Europa Editions, che è la testa di ponte dell’editore e/o negli Stati Uniti, abbia tutta la narrativa in traduzione, non solo italiana ma anche europea in generale, è molto importante e sta contribuendo a far cambiare le cose.

Con il premio Strega state facendo un gran lavoro di rinnovamento sia nel sistema di acquisizione delle opere sia dal punto di vista delle votazioni. In che direzione state andando? Ci possiamo aspettare sorprese o la logica dell’accentramento editoriale determinerà l’esito dei vincitori?
Sono due cose diverse. Intanto quello che sta facendo il premio Strega è andare verso i lettori. Si è sempre detto che il premio – questo lo abbiamo anche misurato statisticamente – dà un grande impulso alle vendite dei vincitori, pari a quattro-cinque volte di più rispetto a quello che avevano venduto prima dell’assegnazione. Se c’è questa corrispondenza tra le scelte della giuria del premio e il gusto dei lettori, non c’è ragione per non includere i lettori stessi nel processo di selezione delle opere. Lo abbiamo fatto raggiungendo un numero abbastanza grande di voti espressi dai lettori forti che abbiamo individuato insieme alle librerie indipendenti italiane; abbiamo istituito il premio Strega giovani dove cinquecento ragazzi di tutta Italia leggono i libri della dozzina, la selezione di partenza del premio Strega; abbiamo creato molti circoli di lettura all’estero coordinati dagli istituti italiani di cultura – sono circa una ventina e coinvolgono potenzialmente duecento persone, dieci per ciascun circolo, sono composti perlopiù da amanti della nostra lingua, non solo da italofoni per nascita. È una direzione su cui proseguiremo, forse fin da quest’anno: quando ad aprile dovremo annunciare la dozzina dei candidati probabilmente annunceremo anche l’allargamento ulteriore della giuria. Se questo potrà portare a risultati inaspettati nelle votazioni potrebbe accadere, ma non è uno scopo primario. Quello che ci interessa è avvicinare di più i lettori al premio. Registro che i grandi editori vincono il premio Strega più o meno nella stessa percentuale in cui vincono anche gli altri premi italiani: il panorama letterario italiano non comprende solo il nostro premio, ma anche altri importanti riconoscimenti, altrettanto storici quali il premio Campiello, il premio Mondello e così via. E più o meno i risultati sono simili, ovvero noi non facciamo le riforme del premio contro qualcuno, ma le facciamo badando semplicemente ad allargare la platea dei lettori e a premiare i migliori. Che il libro migliore sia edito da un grande editore o da un piccolo editore non deve avere importanza.

Dal punto di vista letterario cosa indaga o ascolta lo Strega?
Ultimamente è stato notato che i libri che hanno vinto il premio rispecchiano in maniera molto fedele alcuni macrofenomeni della società, per esempio il libro vincitore di Francesco Piccolo, Il desiderio di essere come tutti, è un romanzo che racconta la crisi della sinistra, quella preberlusconiana e postberlusconiana; il libro di Walter Siti che aveva vinto l’anno prima racconta come la grande finanza influisce sulle nostre vite e come abbia punti di contatto con la criminalità organizzata; potrei citare ovviamente anche il libro di Edoardo Nesi del 2011, Storia della mia gente, che racconta il disfacimento di un polo industriale, quello del settore tessile di Prato, dove peraltro operava lo stesso Nesi come imprenditore. È un fatto: ultimamente la cronaca penetra molto, in modo molto forte, nei libri proposti al premio. Forse viene meno quell’aspetto fantastico della letteratura che pure è importante, ovvero la capacità non solo di rispecchiare il mondo in cui siamo ma anche di farcene immaginare un altro. Sta di fatto che questo filone molto aderente alla realtà è decisamente prevalente negli ultimi tempi.

Ha scritto un libro pieno di storie attorno ai premi Strega. Che effetto le ha fatto stare dall’altra parte a sentire i giudizi dei critici e dei lettori, e presentare il libro in giro per l’Italia?
Ah beh, interessante! Ma non è che ci siano stati tantissimi giudizi… per esempio è interessante quello che ha scritto un lettore di aNobii – l’unico commento – che dice: «Che il premio Strega fosse una pastetta lo sapevamo già; sentircelo raccontare è persino stucchevole, un libro sostanzialmente inutile». Un bagno di umiltà notevole. In realtà quello che alcuni hanno riconosciuto è la cosa che stava dietro, ovvero l’intenzione di raccontare le storie intorno al premio non è tanto quella di mettere in piazza i suoi retroscena, quanto quella di far capire come questo premio, che la stessa fondatrice aveva chiamato «una polveriera» – da qui il titolo del libro –, accende in qualche modo gli animi – ci sono scrittori che si trasfigurano quando concorrono al premio. Io racconto di una battuta che fece Anna Maria Rimoaldi, che ha diretto il premio dopo Maria Bellonci, su uno scrittore che di solito era un pezzo di ghiaccio ma che la sera in cui vinse il premio Strega tremava come una foglia. Ecco, è l’umanità degli scrittori e degli editori che in realtà volevo raccontare.

Secondo lei quali devono essere le caratteristiche di un buon racconto a livello di trama, scrittura e forma? Ha un testo o un autore di riferimento che consiglierebbe come modello agli esordienti nel racconto?
Io amo molto i romanzi brevi; in inglesi li chiamano short novel. Da noi sono anche definiti racconti lunghi. Per esempio: Giro di vite di Henry James, Un anno terribile di John Fante, La figlia oscura di Elena Ferrante – un racconto gotico straordinario. Mi interessano romanzi che in poche pagine riescono a tendere un arco narrativo che è come un lungo respiro, dall’inizio alla fine non ti lasciano riprendere fiato. Non sono un grandissimo lettore di racconti, devo dire la verità, però mi piacciono moltissimo i racconti brevissimi, fulminanti, per esempio quelli di Max Aub in Delitti esemplari, dove in un racconto dice «L’ho ucciso perché era più forte di me», e in quello successivo «L’ho ucciso perché ero più forte di lui». Oppure un racconto di Mario Benedetti di tre righe, Il loro amore non era semplice.

In un panorama editoriale che non lascia forse molto spazio al racconto perché crede abbia una diversa fortuna di pubblico, come si inserisce secondo lei l’iniziativa di un concorso letterario come 8×8?
Beh, è molto interessante. Intanto perché fa un lavoro di scouting. Questa è tra l’altro una cosa che facciamo anche noi con i ragazzi nelle scuole, intendo con la fondazione Bellonci. Li invitiamo ogni anno a raccontarsi attraverso poche pagine e ci siamo accorti, selezionandoli in anni diversi, che spesso tendiamo a selezionare i racconti degli stessi ragazzi, cioè tendiamo a far emergere un talento. Il racconto in questo è secondo me straordinario come rivelatore del talento, in poche pagine devi fare delle scelte linguistiche molto ponderate, e se ti riescono vuol dire che hai della stoffa e che devi continuare a scrivere.

A cura di Martina Mincinesi e Sara Valente

Intervista a Stefano Gallerani (8×8, quarta serata)

1 aprile 2017

In quanto scrittore e critico letterario, in che modo si confronta con una raccolta di racconti? In base a quale caratteristica sceglie i testi da recensire?
Parto dalla seconda domanda. A volte i testi li scelgo tra i tanti che ricevo ma li cerco anche per vedere quello che esce, tra le cose nuove. Bisogna stare attenti all’attività editoriale. Li scelgo anche in base all’autore: se è qualcosa di un autore che è già conosciuto, che conosco, o se è un autore classico. Altre volte conta molto come viene presentato il libro che viene portato alla nostra attenzione e non perché non vogliamo fare lo sforzo di seguire il libro ma perché le uscite sono talmente tante che soprattutto sulle novità il lavoro degli uffici stampa è molto importante per come presentano e offrono il libro. Perché può, per esempio, destare l’attenzione dove l’attenzione non si era destata prima: magari ti era sfuggito, magari non ci avevi fatto caso. Poi personalmente il mio criterio – che funge anche come principio – è quello di seguire molto l’attività dei piccoli editori perché la loro attività, soprattutto oggi, nasconde secondo me – in proporzione alla quantità dei libri che fanno – una maggiore qualità. Un po’ per necessità, perché il piccolo editore non potrà mai competere con un grande editore, quindi gioco forza deve curare l’aspetto della qualità. Cerco di stare attento perché spesso alcuni libri che sono poi rimbalzati nei grandi editori negli ultimi anni sono usciti inizialmente con i piccoli editori. A volte per un piccolo editore l’attenzione di noi che leggiamo è già una forma di gratificazione perché non possono permettersi una grande promozione pubblicitaria. Per quanto riguarda invece la prima domanda che ha a che fare con i racconti, io li amo molto: sono attento all’uscita delle raccolte di racconti perché sono rare, perché è un genere rispetto al quale gli editori non puntano molto – soprattutto i grandi editori – perché pensano che un racconto sia meno accattivante del romanzo, che si presenti più difficilmente, mi riferisco per esempio a come parlarne in una quarta di copertina. Per il lancio di un romanzo si prende il nucleo della storia, se è particolarmente efficace, e qualcosa riesci a farci; per quanto riguarda una raccolta di racconti presentarla è un po’ più difficile e quindi gode di minore visibilità e considerazione. Il racconto è invece un genere interessantissimo per me. Inoltre ne possono uscire di interessanti anche tra gli italiani. Penso per esempio a Luca Ricci che, con un libro di racconti uscito per un grande editore come Rizzoli, sta avendo un buon riscontro, credo anche di vendite. Quindi a volte gli editori si fanno problemi dove in realtà non ci sono, perché il libro in fondo segue la sua strada. Anche un libro di racconti potrebbe incontrare favorevolmente l’attenzione dei lettori: è un libro che ti puoi portare sempre dietro, leggi un racconto e poi ne leggi un altro, puoi saltare da un punto all’altro. In realtà è un genere che si presterebbe maggiormente alla diffusione dell’opera di uno scrittore, oltre il fatto che ci sono grandissimi scrittori di racconti ed esclusivamente di racconti: Luca Ricci è al terzo-quarto libro solo di racconti, e adesso è uscita la raccolta di uno scrittore inglese del secolo scorso molto importante, Saki, che è uno scrittore quasi esclusivamente di racconti. Quindi a volte i racconti sono un viatico necessario per arrivare all’opera di alcuni autori: leggere Joyce senza partire dal suo primo libro di racconti sarebbe assurdo.

Invece da lettore qual è il suo rapporto con i racconti?
Il mio rapporto con il racconto è abbastanza empatico e idiosincratico perché il racconto, così come è difficile da scrivere per lo scrittore, è altrettanto spinoso da leggere perché deve avere un appeal immediato che ti deve catturare, far leggere e arrivare alla fine. Quindi quando il racconto ha dei difetti disturba la lettura più di quanto non faccia il romanzo nel quale puoi sempre pensare che dieci pagine non sono venute bene ma magari altre venti sono fatte bene, se il romanzo non è molto organico puoi sempre sperare che ci sia qualcosa insomma. Nel racconto nove volte su dieci se non è efficace lo capisci subito e da lettore è un po’ frustrante, ti fa arrabbiare. Però in una raccolta di racconti puoi muoverti più agevolmente. Quando ti prende un po’ la nevrastenia da lettore, quando leggi molto – per piacere o per dovere – il racconto ti allevia e viene incontro alla nevrastenia.

Tra i racconti di questa sera a 8×8 ce n’è qualcuno che l’ha colpita e, se sì, su quale aspetto punterebbe per valorizzarlo in un’eventuale recensione?
Tra i racconti di questa sera in realtà solo un paio mi hanno colpito. Noto però che in tutti quanti c’è un difetto  comune: spesso in molti di questi racconti non accade quasi nulla e non nel senso estetico-letterario (come un racconto incentrato sul fatto che non succeda nulla). Non accade nulla semplicemente perché il racconto viene considerato come una forma di scrittura più breve e basta. Quindi si apre una finestra su uno scorcio di vita personale o inventato e là si arriva fino a quando non si è accumulato un certo numero di battute che fanno considerare che quello è un racconto. In realtà il racconto è una struttura circolare, non è semplicemente una finestra aperta su un episodio o su un pezzo di vita. Questo è ciò che manca: la costruzione del racconto. Il racconto parte da immagini, piccole suggestioni, e spesso si chiude senza che ci sia stato un capovolgimento di senso, un momento di frizione o una tensione che invece sono fondamentali. Uno degli elementi comuni tra i grandi racconti è quello di essere circolari, cioè di avere uno sviluppo anche quando parlano apparentemente di nulla ma in cui vi è un cambiamento di senso, un momento in cui la frizione del racconto slitta e accade qualcosa. Questo è quello che manca nei racconti di stasera. Ci si misura spesso con il racconto solo in quanto più corto, senza tenere conto che le esigenze della struttura dell’arte del racconto sono molto rigide e severe, quindi richiedono in realtà un grande lavoro. Scrivere racconti non è un mestiere ma è un ritmo, un rapporto con quella struttura che si deve creare nel tempo. Spesso invece il racconto serve per chi vuole fare lo scrittore come primo approccio alla scrittura, perché di solito non ti confronti immediatamente con il romanzo che ha un passo lungo e disteso. Il fiato ancora non ce l’hai, quindi corri a distanza più breve. Però non è quello il senso del racconto, non è allenarsi per una maratona. Il racconto è gara a sé. 

Crede che la lettura dal vivo dei racconti sia un valore aggiunto e che possa influire sul suo giudizio modificandolo?
In generale sì, mi piace la lettura di autori dei propri testi. Quasi sempre l’autore è la persona che legge meglio il testo. A 8×8 la lettura conta moltissimo: molte volte è stato apprezzato il modo in cui gli autori hanno letto correggendo dei difetti del racconto e dando quell’interpretazione che fa vedere quella sfumatura in più che magari la scrittura non è riuscita a dare – per immaturità, perché è ancora aspra. Però spesso ha pesato: se il racconto ha qualcosa, una buona lettura ad alta voce influisce sul giudizio e anche sulla resa del racconto, oltre a rendere meglio l’intenzione dell’autore. Azzarderei una regola: se un autore lo legge bene vuol dire che l’ha capito e scritto bene.

Quand’è che il racconto esprime il meglio della sua forma? Con quali autori? (Ci sono italiani che ultimamente sono riusciti a comunicare qualcosa di interessante?)
Quando non lo so, perché il racconto ha una storia molto lunga. Ciò che è interessante, però, è che l’Italia è storicamente un paese di novellieri più che di romanzieri. La nostra tradizione letteraria è fatta di liriche e di novelle. Chiaramente parto dal Decameron di Boccaccio, poi ci sono le bellissime raccolte di Palazzeschi, i racconti di Moravia e Bassani. Ci sono moltissimi scrittori italiani del Novecento che sono stati grandi autori di racconti. Tra i giovani abbiamo il già citato Luca Ricci, la raccolta d’esordio – che continuo a preferire tra i suoi testi – di Giordano Meacci. Nel suo caso ha contato molto il fatto di esordire in una casa editrice come minimum fax che prestando molta attenzione alla narrativa nordamericana, che è una narrativa che valorizza lo short story telling, non ha avuto paura di pubblicare raccolte di racconti. Anche Christian Raimo ha iniziato con una raccolta di racconti a minimum fax. Sono stati coraggiosi da questo punto di vista, coerentemente con quello che era il loro orizzonte di riferimento culturale e letterario, e hanno pubblicato autori che era giusto esordissero in quella forma.

A cura di Martina Mincinesi e Sara Valente

Intervista a Loretta Santini (8×8, quarta serata)

31 marzo 2017

Da direttore editoriale di elliot, una casa editrice indipendente, come vede un’iniziativa come 8×8 che dà voce a potenziali esordienti? Può essere un’occasione di scouting?
È esattamente questo: un’occasione di scouting. Ma è anche un’occasione per testare lo stato di salute della scrittura di chi ancora non si è avvicinato in maniera professionale al lavoro editoriale e quindi non ha ancora avuto a che fare con editor, editori e agenti: in qualche modo non è ancora corrotto dal nostro terribile ambiente. E quindi è molto utile soprattutto per capire quali sono le nuove tendenze – se ce ne sono – oppure se si è ancora in un momento stagnante. Quindi sì, scoprire tendenze narrative è utile.

Tempo fa avevate una collana specifica per gli italiani, Heroes, ora invece li distribuite nei vari marchi. Cosa è stato fatto e in che direzione andrete?
L’idea di integrare e accorpare gli scrittori italiani nella collana della contemporanea è stato, secondo me, un passaggio inevitabile. Primo, perché è vero che la maggior parte di quelli che pubblichiamo sono esordienti – anche se non del tutto, però nella maggior parte sì. Rischiava di diventare una specie di ghetto, di piccola nicchia protetta che invece non si può né chiedere né tantomeno auspicare. Chi scrive e pubblica per la prima volta deve correre gli stessi rischi di chiunque altro, e deve anche essere accettata la stessa valorizzazione di scrittori magari ben più navigati. Mi sembrava un modo per rendere omaggio alla fatica di chi esordisce e allo stesso tempo per non mettere chi giudica (i critici, in questo caso) in una posizione già di pregiudizio, quindi equiparare il valore di chi esordisce a quello di altri già avanti nella carriera.

Ha riscontrato un tratto comune tra i racconti in gara in questa quarta serata? Ad esempio a livello di temi, stile e linguaggio?
Quello che ho riscontrato innanzitutto è che c’è un’incapacità a individuare temi che possono essere occasione di un uso di una scrittura umoristica, cosa che per esempio io amo moltissimo ma che magari in Italia ha una tradizione molto particolare: scrittori umoristici non ce ne sono poi tanti. Forse viene considerato un genere di serie B, cioè se non fai commuovere sei meno serio. Invece – e questa è una cosa che mi sorprende sempre – mi rendo conto che mai come in questo periodo così confuso – con personaggi come Trump o gli stessi nostri politici – ci sarebbe materia per la scrittura umoristica per tirar fuori e trattare delle cose da un’altra prospettiva. Quindi il tratto comune è questa totale assenza di gioia di vivere. E poi, tranne un paio di casi in cui c’è una personalità che sboccia e che fa capolino, c’è anche una certa uniformità di scrittura.

Per quel poco che si può capire, secondo lei come si inseriscono questi racconti nel contesto della narrativa attuale? Trova che siano in sintonia con ciò che viene pubblicato?
Mi sembra di sì, e lo dico con un po’ di dispiacere perché credo che i giovani autori dovrebbero sempre trovare una cifra nuova e diversa. La mia generazione era dettata dal problema opposto, cioè dal cercare sempre di stupire, essere unici, sconvolgere e scandalizzare; c’era una tendenza completamente diversa. Questo tipo di uniformismo e conformismo va un po’ nella direzione di ciò che vedo in giro. Posso dire una cosa che può suonare strana in questa circostanza? Io non amo molto i racconti perché mi lasciano il più delle volte in sospeso, insoddisfatta. Ho bisogno di respiro a meno che ci sia tra storia e scrittura una perfezione stilistica. La pulizia e l’uso con il bilancino delle parole nella cura dello scrivere mi danno un’emozione, ma succede raramente. Non sono un’amante dei racconti, eppure ho pubblicato delle raccolte – mi contraddico –, ma, ecco, devo essere molto molto appassionata di un autore.

Investirebbe su qualcuno di questi esordienti per un’eventuale raccolta di racconti?
Ce ne sono uno o due che mi piacerebbe vedere se saprebbero fare di più. La forma così breve è complicata: ricreare un fatto compiuto senza sbavature con una scrittura esigente – come deve essere in un racconto – è la prova più difficile. Per me sarebbe più facile giudicare romanzi. Se stasera ci avessero dato otto romanzi, a parte la lunghezza di leggerli, sarebbe stato più semplice giudicare.

A cura di Martina Mincinesi e Sara Valente

Intervista a Giulia Caminito (8×8, prima serata)

15 febbraio 2017

Sappiamo che è la tua prima volta a 8×8: cosa ti aspetti dai racconti di questa serata? Credi che la lettura dal vivo dei racconti sia un valore aggiunto in vista del giudizio?
Fin dall’inizio ero curiosa di capire la differenza tra la lettura personale e l’interpretazione degli scrittori per bilanciare le mie impressioni nel confronto con loro. Infatti ho molte domande sui contenuti: capire se gli autori avevano intenzione di inserire i racconti in un progetto, all’interno di un raccolta, se hanno avuto già esperienze del genere, come si immaginano di collocarli in un percorso più ampio.

Rispetto alla forma del racconto, cosa cerchi da lettrice e da scrittrice?
È complicato. Questo è forse un discorso banale, però purtroppo esiste una tradizione italiana di racconti ma sembra che non faccia mai lo scatto verso il grande pubblico. Io sono una grande amante dei racconti. Quello che mi aspetto, dipende da racconto a racconto. A me piacciono le raccolte in cui ogni racconto è all’interno di una costellazione. Per me è più difficile leggere un singolo racconto in un’antologia: non mi dà lo stesso effetto di una raccolta pensata da un solo autore. Quindi ricerco identità e progettualità, che ci sia qualcosa di raccontato e che l’idea sia conclusa. In certi casi si tende a lasciare molto sospesa la narrazione però questo deve essere ben calibrato. O la tua idea è la sospensione — e te la devi giocare in un certo modo — oppure in certi casi l’effetto risulta un po’ esile. 

Hai notato alcune di queste caratteristiche nei racconti della prima serata di 8×8?
Alcuni hanno questo difetto anche se è vero che gli scrittori avevano a disposizione poco spazio. Ottomila battute sono poche ed è solo sopra le diecimila che si comincia ad avere un po’ di spazio. Secondo me queste cose devono essere considerate nella valutazione. Si potrebbe chiedere agli autori se hanno tagliato dei racconti che già avevano e se li hanno adattati. Il racconto deve essere studiato e preciso all’interno dei suoi spazi, altrimenti potrebbe perdere il senso originario in cui è stato immaginato. I racconti ovviamente vanno ben misurati, ricalibrati e riletti.

Tra romanzo e racconto qual è per te la forma più congeniale di scrittura?
Per me sono allo stesso livello anche se da un punto di vista editoriale i racconti vengono considerati marginali nel percorso narrativo di un autore rispetto al romanzo, come se non avessero uno sguardo sul presente e una forza attrattiva sul pubblico. È una cosa che mi dispiace molto perché per me le due cose si equivalgono in forza. Nel racconto tendo a costruire un rapporto tra il quotidiano e il surreale, posso inserire più idee e più concentrate. Non mi disperdo nella ricerca di un contesto ma lavoro di più sul linguaggio e sulle finzioni narrative.

A proposito dello stile e del linguaggio, hai notato tra queste voci una tonalità comune?
In realtà i racconti sono tutti molto diversi. Ce ne sono alcuni che riprendono una linea della letteratura americana: la letteratura della crudeltà. Questa nei racconti continua ad avere la meglio soprattutto sui lettori giovani. Però è una cosa già sentita che non produce più l’effetto shock iniziale. Il gusto si è ormai abituato. Ho notato una prevalenza della prima persona, un senso di sospensione, però alcuni hanno un buon contesto. Infatti secondo me l’importante è che il microcosmo del racconto sia riconoscibile.

Intervista a cura di Martina Mincinesi e Sara Valente

Intervista a Alice Di Stefano (8×8, prima serata)

15 febbraio 2017

In quanto editor di esperienza presso Fazi, dalla lettura dei racconti in gara questa sera che cosa ti ha colpito di più sullo stile, il linguaggio e i temi trattati?
Essendo alla mia seconda esperienza a 8×8 questi racconti sono nettamente più belli e interessanti. Nella maggioranza sono costruiti e scritti molto bene. Però ho notato in tutti una difficoltà enorme a trovare un finale. Alcuni mi sembrano solo degli incipit mentre quelli più simili a dei racconti hanno dei finali un po’ manchevoli, zoppicanti. Si vede che gli autori non hanno trovato una soluzione e il testo rimane in sospeso.

Tra queste voci esordienti hai notato un tratto comune, una tendenza di scrittura?
Forse una scrittura molto semplice, paratattica. A volte volutamente semplificata che però non trovo molto moderna o nuova. Mi ricorda sempre l’atmosfera e le tematiche degli anni Novanta, come i Cannibali e il pulp, già viste e lette. Anche la lingua si richiama a questi modelli e non a quelli più recenti: è curioso che siano i loro ultimi riferimenti.

In generale cosa deve essere per te un racconto a livello di trama, di scrittura e di forma?
Il racconto deve avere una storia che inizia e che si conclude. Per questo ho insistito sull’assenza dei finali: è come se uno iniziasse con una buona idea ma non riuscisse a chiuderla nel giro di poche pagine. Un racconto deve colpire e fare immaginare un’atmosfera proprio attraverso la sua brevità. Per la scrittura in generale ricerco l’originalità, una certa brillantezza e la vivacità. Dal lato dello stile mi interessano i testi scritti bene e con una lingua musicale, qualsiasi sia l’argomento — anche crudele, violento e thriller.

 A partire da un’esperienza come 8×8 investiresti su racconti di esordienti?
Anche se è chiaro che vendono limitatamente rispetto al romanzo, noi di Fazi non abbiamo preclusioni né pregiudizi sui racconti in quanto prodotto editoriale. Vediamo più di buon occhio una raccolta di un solo autore anziché un’antologia a più voci.

Intervista a cura di Martina Mincinesi e Sara Valente

Intervista a Luca Ricci (8×8, prima serata)

15 febbraio 2017

Da scrittore e presumibilmente lettore di racconti, cosa cerchi in un racconto?
In quanto scrittore cerco di scrivere racconti che abbiano rispetto al romanzo una verticalità e un carattere scosceso. Più volte ho paragonato il racconto a un pezzo punk perché secondo me deve avere una melodia e una ritmica molto veloce. Mi piace sintetizzarlo graficamente con una verticale mentre invece il romanzo è un orizzontale. Quindi cerco sempre il piano inclinato di una frase che poi mi porta direttamente al finale.

Secondo te qual è la caratteristica principale che emerge dai racconti in concorso questa sera a 8×8?
I racconti di stasera sono più dei potenziali romanzi. Non ho ritrovato una velocità particolare. Nei casi più felici invece mi sarebbe piaciuto saperne di più sulla situazione, sui personaggi. Sembrano nascere come racconti contratti che in realtà avrebbero bisogno di più pagine per essere sviluppati.

Da autore di racconti e insegnante di scrittura creativa, quanto è possibile secondo te insegnare la forma e il ritmo del racconto e quanto di questo può essere appreso da uno scrittore esordiente?
Il racconto può essere la palestra dello scrittore perché ti costringe a fare economia di parole e a essere consapevole della loro importanza: meno parole ha un testo, più risalto ha una parola. In questo senso il racconto è più vicino alla poesia che non al romanzo, anche se scritto in prosa e non in versi. Quindi il racconto può essere effettivamente la forma con cui si inizia un percorso di scrittura. Ma può anche essere il punto più alto della scrittura proprio perché, a differenza del romanzo che può basarsi tutto sulla trama o sulle variazioni narrative, nel racconto si deve per forza fare uno scarto sullo stile data la brevità della storia e la presenza di pochi personaggi. Il racconto non può non avere uno stile e basarsi tutto sulla tecnica: diventerebbe un aneddoto, uno sketch. Il racconto può essere un buon punto di partenza anche per acquisire maturità. Mi viene in mente il percorso fantastico di Parise che iniziò con un romanzo astratto, Il ragazzo morto e le comete, poi passò al figurativo con Il prete bello e i racconti di La vita di provincia ma la summa l’ebbe con i Sillabari. La scrittura breve ha quindi questa doppia funzione: poter dare l’avvio ma anche consacrare, centrare la sintesi di un’esperienza di scrittura.

In un panorama editoriale che non lascia forse molto spazio al racconto e che crede abbia una diversa fortuna di pubblico, come si inserisce secondo te l’iniziativa di un concorso letterario come 8×8?
Da un lato può essere un trampolino per fare scouting, dall’altro per sensibilizzare al racconto stesso. Tutte le iniziative di questo genere sono le benvenute perché nonostante gli scrittori e frequentatori, i lettori e amanti del racconto abbiano smesso di piangersi addosso rispetto agli anni scorsi, è vero che il sistema editoriale continua ad avere dei pregiudizi sul racconto. Ancora oggi nelle librerie il racconto non trova molto spazio sugli scaffali. Anche all’estero tutto il mercato gira intorno a scritture più lunghe. Per cui 8×8 è utile per farci capire che invece esiste un pubblico e che se c’è un pubblico ci sono anche persone che si ritrovano per celebrare questa parte di mercato.

Intervista a cura di Martina Mincinesi e Sara Valente

L’artista secondo Brian Eno

23 giugno 2016

In passato un artista era simile a un architetto: doveva disegnare ogni dettaglio, per dare al mondo un’opera finita. In futuro invece sarà più simile a un giardiniere che pianta dei semi e li lascia crescere. Qui per esempio ci sono i miei fiori e il mio modo di intendere la creazione: un’opera viva. Che inizia a esistere solo quando entra nella mente e negli occhi di un visitatore. Questo per me è il futuro dell’arte.

Brian Eno, intervistato da Alessandra Mammì su D della Repubblica, 16 giugno 2016

Ho sempre solo sognato la libertà

17 giugno 2016

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Abbiamo intervistato Jami Attenberg, autrice dei Middlestein e di Santa Mazie, pubblicati da Giuntina. La trovate qui.