Archive for the ‘mestiere editoriale’ Category

Intervista a Leonardo G. Luccone: editor, agente letterario e curatore di SARÀ UN CAPOLAVORO, raccolta di lettere di Fitzgerald

15 settembre 2017

Sarà un capolavoro, Fitzgerald, a cura di Luccone, copertinaSarà un capolavoro è una raccolta di lettere di e per Francis Scott Fitzgerald che, insieme alle note di Leonardo G. Luccone, compongono una biografia dettagliata dello scrittore e consentono di seguire il tormentato processo creativo delle sue opere, offrendo anche un disincantato spaccato del mondo culturale ed editoriale degli Stati Uniti nella prima metà del ’900. Emerge il profilo di un autore dall’animo umbratile e dallo stile di vita sregolato, tormentato dai debiti, ma allo stesso tempo consapevole del proprio talento, puntuale revisore di se stesso e lettore attento degli scritti altrui, capace di slanci generosi e risentite stoccate tanto verso i colleghi (in particolare l’amico-rivale Hemingway) quanto nei confronti della sua odiata e adorata compagna, Zelda. Di tradurre le lettere se n’è occupato Vincenzo Perna, mentre a curare l’opera è stato Leonardo G. Luccone, titolare dell’agenzia letteraria Oblique: ne ho approfittato per intervistarlo sia su questa pubblicazione edita da minimum fax sia sul suo lavoro.

Come nasce Sarà un capolavoro – Lettere all’agente, all’editor e agli amici scrittori? Hai proposto tu l’idea a minimum fax o sei stato contattato dalla casa editrice?
Lavoravo alle lettere di Fitzgerald da qualche anno e ho proposto a Giorgio Gianotto, il direttore editoriale di minimum fax, di progettare una specie di biografia di Fitzgerald attraverso la corrispondenza e i diari. Mi sono reso conto che era possibile raccontare questo grande autore da un altro punto di vista. Ne viene sovvertita la sua immagine istituzionale. Fitzgerald si è consumato nella scrittura. Eccessi e stravaganze sono una componente minoritaria della sua vita, è la buccia. Il libro mostra uno scrittore consapevole del funzionamento della macchina editoriale, un uomo fragile che diventa vittima dell’architettura che aveva messo in piedi. Nelle lettere scorre la preoccupazione per l’inefficacia dei suoi scritti e per la mancanza di soldi. Un assillo che lo spinge a chiedere continui prestiti al suo agente e al suo editor. Poi c’è il padre e il marito cinico e dolcissimo, geloso e vendicativo.

Quali aspetti della personalità di Francis Scott Fitzgerald hai scoperto o ti hanno colpito maggiormente durante il lavoro di curatela?
La tenacia, il rispetto per la scrittura, l’altruismo. Fitzgerald aiuta tanti scrittori a emergere (Hemingway, Wolfe). L’abnegazione. Ma più di tutti mi ha colpito la sua sensibilità. Alla fine della stesura del Grande Gatsby Fitzgerald capisce di aver scritto un’opera unica. Lo dice senza modestia a Perkins. Allo stesso modo era spietato con i suoi racconti più effimeri, scritti in due giorni perché aveva bisogno di soldi.
Pur spendendo tantissimo, Fitzgerald era piuttosto tirato col denaro. Per quasi tutta la vita ha compilato il Ledger, un libro mastro di entrate e uscite che comprendeva anche le spese di cancelleria e le mance.

Ritieni che il sostegno anche economico del suo agente, Harold Ober, e del suo editor, Max Perkins, abbiano contribuito a tenere a galla Fitzgerald o abbiano viceversa finito per indurlo a un tenore di vita al di sopra delle sue possibilità?
Entrambe le cose. Senza quei soldi sicuri (che poi restituiva sempre) si sarebbe contenuto; ma senza quei soldi non avrebbe avuto la possibilità di cimentarsi con ogni tipo di scrittura e non avrebbe sperimentato così tanto. Di fatto Fitzgerald scrive i racconti per mantenersi come romanziere e per sostenere il suo tenore di vita. Alla fine degli anni Trenta andrà a Hollywood perché è l’unico modo che ha per guadagnare mille dollari a settimana (il minimo indispensabile per coprire le spese delle cure di Zelda e l’istruzione della figlia Scottie). Come più volte ha detto, Fitzgerald ha raccontato sempre la stessa storia: quella di un ragazzo povero che si innamora di una donna irraggiungibile e per conquistarla fa di tutto.

«Possibile che la trasformazione delle opere stupefacenti in opere riconosciute da tutti sia cessata vent’anni fa?», «Naturalmente penso che gli strilli siano diventati un cumulo di fesserie, ma questo forse è il punto di vista dello scrittore, e il lettore qualunque non capisce gli scambi di favori che spesso ci stanno sotto»: sono due delle tante sconsolate considerazioni di Fitzgerald. La ristrettezza del mondo culturale è dunque una costante a cui tocca rassegnarsi? Cosa differenziava il panorama editoriale della prima metà del ’900 da quello attuale?
Questa è un’altra delle cose che viene fuori dal libro. Ci sono pochissime differenze. Le paure e le speranze sono sempre le stesse. Lo stesso dicasi per i limiti: solo i libri che hanno successo vengono portati avanti; gli altri venivano abbandonati subito anche allora. E, curiosamente, da Belli e dannati in poi, Fitzgerald non è uno scrittore di successo in volume. Vende poco e ricava poco dai libri. Il grande Gatsby è una delusione commerciale e di critica. Dopo qualche anno non si trovano più copie nelle librerie.
Una differenza importante – con l’Italia, intendo – è la popolarità e il rispetto per i racconti, sia quelli più popolari (Fitzgerald ne scrive tantissimi per The Saturday Evening Post), sia quelli più audaci.

Come nasce Oblique? Di cosa si occupa e chi ne fa parte oltre te?
Oblique è uno studio editoriale e un’agenzia letteraria. Ci siamo costituiti dodici anni fa e ci occupiamo di editoria libraria. Non siamo un’agenzia di servizi, ci interessano gli aspetti progettuali. Aiutiamo gli editori a fare il loro lavoro. Siamo un gruppo affiatato di persone che lavorano insieme da tanti anni ormai.

Quali sono le difficoltà maggiori nel rapporto col sistema editoriale italiano contro le quali ti scontri?
La mancanza di coraggio e il cambio bisbetico delle prospettive. L’assenza della progettualità a lungo termine. Credo che l’editoria italiana rifletta abbastanza bene la politica del nostro paese, anche se per la verità non abbiamo partiti buoni come l’Einaudi e l’Adelphi o Neri Pozza.

Quali caratteristiche devono avere e come vengono selezionati gli scrittori da voi rappresentati?
Ci devono piacere. Tendenzialmente giovanissimi ed esordienti, ma non è una condizione dogmatica. Il più giovane dei nostri autori ha ventun anni e il più anziano ottantanove. La media è comunque sotto i trenta.

Harold Ober era diventato agente quando aveva compreso che non sarebbe mai stato uno scrittore di talento: tu sei mai stato tentato dalla scrittura?
Non credo che la scrittura sia una tentazione. Si è scrittori o no, si ha qualcosa da dire o no.

Da lettore, quali sono state tra le pubblicazioni recenti quelle che ti hanno particolarmente colpito?
Per fortuna tante cose. I libri sul cibo dell’editore Giulio Tommasi, i libri di Orecchio acerbo e la linea editoriale della Graywolf Press, una casa editrice del Minnesota che in pochi anni è entrata nel novero degli editori che contano in Usa.

Sorgente: Intervista a Leonardo G. Luccone: editor, agente letterario e curatore di SARÀ UN CAPOLAVORO, raccolta di lettere di Fitzgerald

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Il segreto per scrivere un racconto

11 settembre 2017

“I’ll give you the sole secret of short-story writing, and here it is:

Rule 1. Write stories that please yourself.

There is no rule 2.

The technical points you can get from Bliss Perry. If you can’t write a story that pleases yourself, you will never please the public. But in writing the story forget the public.”

O. Henry intervistato dal New York Times 

La linea editoriale

2 aprile 2016

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Spero che quanto tu verrai a Milano e a Torino poterai un po’ di mordente per incanalare questa faccenda sulla linea giusta, che vuole essere una linea culturale seria e non una improvvisazione giornalistica e che deve rappresentare una fusione tra le esigenze di cultura umanistica e le esigenze di una cultura che potremmo chiamare tecnica. La prima potrebbe essere rappresentata dalla vecchia tradizione della Casa editrice, la seconda dalla tendenza Politecnico-vittoriniana. Finiamola una buona volta di chiuderci in gruppi, gruppetti e sfruttiamo questo strumento rappresentato dalla Case editrice Einaudi che dovrebbe pescare nell’humus più fertile di tutte le tendenze vive della cultura italiana nei suoi diversi centri per fonderli con un’unica larga direttiva che possa veramente rispondere alle esigenze di tutti.

Giulio Einaudi a Cesare Pavese, 11 maggio 1946

Non fare il buffone di corte

18 agosto 2015

Dentro il cerchio

[…] Non essere insoddisfatto del tuo destino, sei un eletto.
Non cercare scuse morali per coloro che hanno tradito.
[…]
Le tue parole sono le più preziose.
[…]
Non credere all’immortalità degli scrittori, sono fesserie da professori.
[…]
Non fare il commediante, i boiardi sono abituati al divertimento.
Non fare il buffone di corte.
[…]
Guardati dalle mezze verità.
Quando tutto il mondo fa festa, non c’è ragione che anche tu vi prenda parte.
[…]
Non discutere con ignoranti di cose che sentono da te per la prima volta.
Non avere una missione.
Guardati da coloro che hanno una missione.
Non credere al “pensiero scientifico”.
Non credere all’intuizione.
Guardati dal cinismo, anche dal tuo.
[…]
Non cercare per lui circostanze attenuanti.
[…]

Danilo Kiš, Homo poeticus, Adelphi

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L’ispirazione critica di un lettore di professione

1 gennaio 2015

Nove volte su dieci la lettura di un’opera prima delude gravemente: il che è nell’ordine delle cose, e il tempo perduto a compierla, fra alternative di fiducia e scoraggiamento, è un passivo di gestione, di cui sarebbe meschino lamentarsi; ma per il lettore di professione, essa comporta un altro curioso rischio, che egli ha ragione di temere: essere còlto dalla nausea della parola scritta. […] Egli ha dunque da preservare un minimo di freschezza; giacché per scarso che gli paia il valore di quel che scrive, la qualità anche del suo lavoro, come di quello dei creatori che egli ammira e serve, dipende da uno stato d’animo raro: l’ispirazione critica.

Paolo Milano, Il lettore di professione, Feltrinelli, Milano 1960. Per approfondimenti Leggere per professione, un ritratto di Paolo Milano sul sito di Oblique.

Corso per redattori editoriali a Roma con Oblique

15 dicembre 2014

Il corso principe per redattori editoriali di Oblique ha l’obiettivo di formare il redattore moderno. Il redattore moderno conosce alla perfezione la tradizione di un mestiere artigianale come quello del redattore e dell’editore.

via Corso principe per redattori editoriali.

L’apprendistato da Calvino: imparare a scrivere un risvolto

8 aprile 2014

Così entrai alla Einaudi (dell’incontro con l’editore, e soprattutto della mia conoscenza di Giulio Bollati ho già detto), prendendo servizio il 1° settembre di quell’anno. Calvino, puntuale, era lì: e il mio tavolo era perpendicolare al suo, nella stessa stanza. Cominciò il mio anno di praticantato con lui, che non durò i trecentosessantacinque giorni del calendario, perché – prime ferie a parte – Calvino andava e veniva da Roma o da altre città: ma a dimostrazione del concetto espresso da Agostino nelle Confessioni (il tempo non esiste, è una misura interiore dell’uomo) fu il più lungo della mia vita, e certo il più fecondo.
Dirò subito che raramente – sul lavoro, non dico per altro ordine d’esperienze – ho sofferto come in quel periodo. «Io sono per una pedagogia repressiva», aveva dichiarato Calvino, ovviamente con un certo margine d’ironia, in una delle prime sedute d’addestramento: e aveva tenuto fede a quel enunciato.
Preciso anche, per spiegarmi meglio (scrivere di lui e di quell’esperienza, quarant’anni dopo, è per me estremamente difficile), che il criterio a cui s’ispirò fu quello della terza delle Lezioni americane, che – com’è noto – ha per titolo (e contenuto) Esattezza.
Mi limiterò a ricordare le tre componenti dell’esattezza per Italo: 1) un disegno dell’opera ben definito e ben calcolato; 2) l’evocazione d’immagini visuali nitide, incisive, memorabili; 3) un linguaggio il più preciso possibile come lessico e come resa delle sfumature del pensiero e dell’immagine. E subito sotto, a guisa di sfogo, Calvino confessa una propria «ipersensibilità o allergia»: gli sembra infatti «che il linguaggio venga sempre usato in modo approssimativo, casuale, sbadato», e ne prova «un fastidio intollerabile». […]
Dovevo imparare da lui il disegno, le immagini, il linguaggio per ognuna di queste «funzioni». Disegno: «In che collana esce? Quante righe hai? Quante ne vuoi riservare all’intreccio? Quante al suggerimento di lettura?» Aveva cominciato così con me: con domande-osservazioni molto terra terra, che, in realtà, sottintendevano tutta una «teoria della proposta» editoriale, maturata in lui in anni di esperienza quotidiana (quindici, per l’esattezza, all’epoca in cui mi riferisco). «Stai attento che noi non imponiamo mai un libro, ma lo proponiamo. Allo stesso modo, non lo giudichiamo mai, ma suggeriamo una delle tante strade per leggerlo. Non lasciarti andare mai a valutazioni. Tu, al massimo, indichi un percorso: e devi lasciar ben intendere che non è il solo, ma uno dei tanti. Il lettore affronta una prima volta il libro seduto in poltrona, aprendo il giornale e scorrendo la colonnina pubblicitaria: le due, tre righe che trova sotto autore e titolo non devono assolutamente intimorirlo. Incuriosirlo, semmai: e, se possibile, metterlo a suo agio. Solo allora lo affronterà una seconda volta, stavolta in piedi, tra uno scaffale e l’altro del suo libraio. Qui avrai a tua disposizione non più due righe, ma dieci, quindici, venti. Non credere che ti riesca tanto più facile persuaderlo quanto più spazio hai a disposizione. Il lettore, in quel secondo approccio, che è delicatissimo, e di fondamentale importanza perché l’incontro volga a buon fine, è come al secondo appuntamento con una ragazza, con cui ha appena scambiato due battute in tram. Tu andresti avanti con una che ti riversa addosso un catino di parole, la seconda volta che vi vedete? Invece, se costei è riservata senza essere musona, se parla quel tanto che basta da metterti una certa curiosità, tu hai voglia, comunque vadano le cose, di andare avanti. E in libreria, per andare avanti, devi comprare, comunque sia, foss’anche a credito…».

Guido Davico Bonino, da Alfabeto Einaudi, Garzanti

Editoria è conoscenza degli uomini

4 aprile 2014

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Editoria è conoscenza degli uomini. E la bellezza, la chiave di questo lavoro è che deve essere premiata l’intelligenza, che a sua volta proprio del rapporto con gli uomini, oltre che dei testi, si alimenta. Ma non deve essere mai una intelligenza fine a se stessa, improduttiva e pigra. Devi dunque stimolarla di continuo, provocarla. Non devi soffocarla, spegnerla sotto la monotonia di una eccessiva routine. Il lavoro di routine lo devi anche fare, Cesare Pavese il lavoro di routine lo faceva e ne era orgoglioso, a volta fino al punto da fare apparire, ma solo apparire, che quello era il suo unico orgoglio: ma era lui che si governava, non era governato.

Giulio Einaudi in Severino Cesari, Colloquio con Giulio Einaudi, Einaudi

Editoria secondo Giulio Einaudi

3 aprile 2014

La chiamo «editoria e no», questo criterio, e non voglio certo dire con ciò che noi della Einaudi siamo l’editoria e gli altri no. «Editoria e no» non perché la casa editrice Einaudi sia la migliore, ma per sottolineare un impegno civile, che una parte dell’editoria ha preso con la società. L’editoria «sì» è quella che invece di «andare incontro al gusto del pubblico», gusto che si pretende di conoscere ma si confonde spesso col proprio, introduce nella cultura le nuove tendenze della ricerca in ogni campo, letterario artistico scientifico storico sociale, e lavora per fare emergere gli interessi profondi, anche se va contro la corrente. Invece di suscitare l’interesse epidermico, di assecondare le espressioni più in superficie ed effimere del gusto, favorisce la formazione duratura. Di un gusto, appunto; e anche di un pubblico, di un mercato se vuoi.
Quel «no» di «editoria e no» caratterizza invece gli editori che non si pongono in questa prospettiva, ma cercano di soddisfare i desideri più ovvi del pubblico. E su questi fondano la loro impresa… Basata sul nulla, sul vuoto. Che non lascia traccia di sé.

Giulio Einaudi, in Severino Cesari, Colloquio con Giulio Einaudi

Pavese a Bompiani, a proposito della traduzione di “Uomini e topi”

31 dicembre 2013

Torino, 9 ottobre 1937

Egregio Signore,

ho avuto Uomini e topi di Steinbeck che mi pare buono. Mi mandi pure il contratto alle condizioni fissate. Per la consegna, è troppo la fine di novembre? inteso che, se sarò pronto prima, manderò.
Vorrei però che fosse ben chiaro come — trattandosi di un libro dialettale — ho ampia libertà in fatto di stile canagliesco.
Attendo Sue nuove.

Cordialmente

Cesare Pavese