Nel presente c’è Sabrina, alle soglie dell’età adulta, che ha appena ritrovato il padre dopo più di dieci anni; c’è la madre ferita e abbandonata, che l’ha cresciuta ma non è riuscita a ricostruirsi una vita; c’è Carlotta, la figlia della nuova compagna del padre, diventata in breve tempo la sorella che Sabrina ha sempre desiderato. Nel passato, quasi vent’anni prima, c’è quella stessa coppia prima del crollo: non riescono ad avere figli e ci provano in ogni modo, anche con l’aiuto di Silvia, la sorella di lei, fino al miracolo – la nascita di Sabrina –, che ha effetti devastanti sulle vite di questi pochi personaggi in una Roma appena accennata. Un inaspettato viaggio di padre e figlia nella Sicilia profonda mostra le radici mitiche di questa storia e i fondamenti della sorellanza. A raccontare è il padre di Sabrina, un uomo con seri problemi mentali e anni di ricoveri alle spalle, stremato dalle macchinazioni di tutte le sorelle, che è convinto di subire. Il figlio delle sorelle è un romanzo sulle ossessioni e sulla liquefazione della famiglia tradizionale, costruito su un’impalcatura di omissioni. Luccone mette a nudo la fragilità dei personaggi con un montaggio che segue i dettami della memoria e uno stile vagheggiante sostenuto da dialoghi in presa diretta.
D’altro canto, Burke faceva un uso parsimonioso delle similitudini. E gli autori moderni dovrebbero seguire il suo esempio. Di recente, infatti, è scoppiata una terribile epidemia. Le similitudini si accumulano sulle pagine dei nostri giovani scrittori fitte come brufoli sulla faccia di un ragazzino, e sono altrettanto inguardabili. Una similitudine deve avere una sua ragion d’essere. Evocando il ricordo di una cosa familiare, consente di vedere con più chiarezza l’oggetto del paragone, oppure, menzionandone una non familiare, attira l’attenzione del lettore. È pericoloso utilizzarla come mero ornamento; è detestabile utilizzarla per sfoggiare brillantezza; è assurdo utilizzarla quando non serve ad abbellire né a far colpo (per esempio: «La luna, come un enorme biancomangiare, tremolava sopra le cime degli alberi»).
[W.S. Maugham, Lo spirito errabondo, trad. it. di G. Pannofino, Adelphi, Milano 2018, di p. 171]
[…] come il balletto classico, la traduzione letteraria è un’attività guidata da modelli irrealistici, vale a dire da modelli tanto rigorosi che generano fatalmente in chi vi si dedica con maggiore ambizione un certo appagamento, o la sensazione di non essere quasi mai all’altezza. E, al pari del balletto classico, la traduzione letteraria è un’arte di repertorio. Le opere ritenute più importanti vengono regolarmente ritradotte: perché la resa appare ormai troppo libera, o non sufficientemente accurata; perché si pensa che le vecchie traduzioni contengano troppi errori; o perché la lingua, che all’epoca sembrava trasparente, ora appare datata.
I ballerini si esercitano nello sforzo di raggiungere l’obiettivo non del tutto chimerico della perfezione: un’espressività esemplare e priva di errori. Nel caso della traduzione letteraria, invece, considerati i molteplici obblighi cui essa deve rispondere, la resa può essere eccellente, ma mai perfetta. La traduzione comporta sempre, e per definizione, una perdita della sostanza originale. Tutte le traduzioni si rivelano, prima o poi, imperfette, e alla fine, anche nel caso delle rese più esemplari, finiscono per essere considerate provvisorie.
Susan Sontag, Tradurre letteratura, Archinto, traduzione di Paolo Dilonardo
Qui si fa a botte. A quanti di voi frulla ancora per la mente la regoletta sulla virgola prima della e che ci inculcavano alle elementari? (Dico «ci», ma devo confessarvi che a me non è successo. Più che altro perché credo che l’ottima maestra Tucci non abbia mai spiegato le virgole, o io ero assente, o altrove, o non me lo ricordo, ma facciamo conto – visti gli schiamazzi sull’argomento – che anche io sia stato traviato come la maggior parte di voi.) Sono sicuro, intendo, che vi abbiano imposto un comportamento per l’ultimo elemento di un elenco. Ecco: il mondo si divide in quelli che non metterebbero mai e poi mai la virgola davanti a e congiunzione ma, cascasse il mondo, ne francobollano una davanti ai ma, e quelli che la mettono sempre e comunque davanti a e e davanti a ma. Poi ci sono, sparuti, i pensatori silenziosi. Una minoranza senza volto che si chiede: «Ma qui ci va la virgola?». Do subito la conclusione così stiamo tutti più tranquilli:
La virgola prima di e e prima di ma ci va solo se è necessaria.
Leonardo G. Luccone, Questione di virgole. Punteggiare rapido e accorto, Laterza
È curioso notare come nel Novecento e nei primi anni di questo secolo una certa stasi normativa e una scarsa permeabilità a possibili evoluzioni (da aggiungere, a mio parere, a un insufficiente ruolo della didattica nelle scuole secondarie e all’università) abbiano dato adito allo sviluppo rocambolesco di stili interpuntivi improntati su una semplificazione radicale come, per esempio, l’egemonia del punto fermo e la virgola multifunzione. Ciò che potrebbe sembrare una legittima scelta stilistica è piuttosto il risultato di ignoranza e pigrizia.
Un discorso a parte andrebbe fatto per l’estensione e la proliferazione iconica dei segni paragrafematici. Siamo più bravi a scegliere la faccina giusta che a deciderci tra punto o punto e virgola. E poi, va detto, una emoticon risolve in un attimo un sacco di guai.
Leonardo G. Luccone, Questione di virgole. Punteggiare rapido e accorto, Laterza
I’ve never made a career of anything, you know, not even of writing. I started out with nothing in the world but a kind of passion, a driving desire. I don’t know where it came from, and I don’t know why—or why I have been so stubborn about it that nothing could deflect me. But this thing between me and my writing is the strongest bond I have ever had—stronger than any bond or any engagement with any human being or with any other work I’ve ever done. I really started writing when I was six or seven years old. But I had such a multiplicity of half-talents, too: I wanted to dance, I wanted to play the piano, I sang, I drew. It wasn’t really dabbling—I was investigating everything, experimenting in everything. And then, for one thing, there weren’t very many amusements in those days. If you wanted music, you had to play the piano and sing yourself. Oh, we saw all the great things that came during the season, but after all, there would only be a dozen or so of those occasions a year. The rest of the time we depended upon our own resources: our own music and books. All the old houses that I knew when I was a child were full of books, bought generation after generation by members of the family. Everyone was literate as a matter of course. Nobody told you to read this or not to read that. It was there to read, and we read.
Katherine Anne Porter, intervista di «the Paris Review», 1963
“I’ll give you the sole secret of short-story writing, and here it is:
Rule 1. Write stories that please yourself.
There is no rule 2.
The technical points you can get from Bliss Perry. If you can’t write a story that pleases yourself, you will never please the public. But in writing the story forget the public.”
Only amateurs say that they write for their own amusement. Writing is not an amusing occupation. It is a combination of ditch-digging, mountain-climbing, treadmill and childbirth. Writing may be interesting, absorbing, exhilarating, racking, relieving. But amusing? Never!
I finally understood that I really did have to put in the hard work, that becoming a writer was, in its own way, sort of like becoming a brain surgeon.
Non credevo in lui. Non avevo capito quanto fosse necessario da parte mia dargli fiducia. Lo ritenevo senz’altro intelligente e dotato, ma non ero certissima che sarebbe diventato uno scrittore. Non riconoscevo in lui l’autorevolezza che, a mio giudizio, uno scrittore doveva possedere. Era troppo impaziente, troppo permaloso con tutti, troppo megalomane. Ero convinta che gli scrittori fossero gente calma, malinconica, esageratamente consapevole. Li consideravo naturalmente speciali, dotati dalla nascita di una qualità rara, luminosa e impressionante, di cui Hugo non disponeva. Pensavo che un giorno o l’altro se ne sarebbe accorto. Frattanto, Hugo abitava una realtà fatta di riconoscimenti e castighi che mi erano imperscrutabili e bizzarri quanto quelli vissuti da uno psicopatico.
Alice Munro, “Materiali”, Una cosa che volevo dirti da un po’, Einaudi, traduzione di Susanna Basso