“Siamo irradiati da un senso di colpa che pesa sulle generazioni future. Siamo colpevoli e ce ne freghiamo.”
Moses Sabatini, Questo mondo che respira, 2004
“Siamo irradiati da un senso di colpa che pesa sulle generazioni future. Siamo colpevoli e ce ne freghiamo.”
Moses Sabatini, Questo mondo che respira, 2004
Ah, Fitzgerald!
Da ragazzo, Scott (perché nessuno all’infuori di sua madre lo chiamò mai Francis) scriveva di Zelda: “Mi sono innamorato di un turbine di vento, e devo tessere una rete grande abbastanza da imprigionarlo e cacciarlo via dalla mia testa, una testa piena del tintinnio di monete che sfuggono via, l’incessante carillon del povero…”. E Zelda sembrava rispondergli, molti anni dopo, in una lettera dalla clinica psichiatrica svizzera in cui era finita: “Scott, ti amo più d’ogni altra cosa sulla terra e, se ti sei offeso, io sono disperata. Ti prego, amamai. La vita è molto confusa. Io ti amo”.
Edoardo Nesi, Storia della mia gente, Bompiani
Il momento in cui sono arrivato più vicino a lasciarti è stato quando in rue Palatine mi hai detto che ero un frocio, ma a quel punto qualunque cosa dicessi suscitava in me una sorta di pena spassionata nei tuoi confronti. Nonostante la tua brillante capacità d’osservazione e la tua intelligenza superiore, riesco a indovinare, senza prove e persino con un certo stupore, perché e da dove è nata quella scorciatoia mentale. Vorrei che Belli e dannati fosse un libro scritto con maturità, perché è tutto vero. Ognuno ha distrutto se stesso, ma non ho mai pensato che ci siamo distrutti a vicenda.
Sarà un capolavoro. Lettere all’agente, all’editor e agli amici scrittori, minimum fax, a cura di Leonardo Luccone, traduzione di Vincenzo Perna
Quando arrivammo a casa, con la ghiaia che scrocchiava sotto le ruote della macchina, mi chiese se poteva andare in bagno.
«Certo», le dissi, vagamente emozionata all’idea di averla in casa, come fosse un dignitario straniero in visita. La accompagnai al bagno più bello, che era accanto alla camera dei miei. Tamar ci sbirciò dentro, vide il letto e arricciò il naso. «Che trapunta orrenda», disse sottovoce.
Fino a quel momento era stata semplicemente la trapunta dei miei, ma di colpo provai una forma di vergogna per procura nei confronti di mia madre, della trapunta pacchiana che aveva scelto, che era perfino stata tanto stupida da trovare carina.
Emma Cline, Le ragazze, Einaudi Stile libero Big, traduzione di Martina Testa
Mamma ci condusse in una camera dove c’erano due gemelli coperti da copriletti blu identici che emanavano una lucentezza artificiale. Mi aspettavo che si sarebbe alzata una nuvola di polvere una volta seduta sopra. In seguito, quando avrei avuto un sacco di tempo per osservare ciascun oggetto della casa, i centrini che sembravano fatti all’uncinetto ma in realtà erano di plastica, i fiori profumati ma finti, i portarotolo della carta igienica decorati, pensai che perfino quei copriletti parlavano dell’infelicità e della vulnerabilità della signora Edwards. Solo una persona che non aveva idea di come essere a proprio agio e felice nel mondo avrebbe potuto scegliere un tessuto così sgradevole, scivoloso e carico di elettricità statica per adornare la camera degli ospiti.
Frances Greenslade, Il nostro riparo, Keller editore
Hazel Morse was a large, fair woman of the type that incites some men when they use the word “blonde” to click their tongues and wag their heads roguishly. She prided herself upon her small feet and suffered for her vanity, boxing them in snub-toed, high-heeled slippers of the shortest bearable size. The curious things about her were her hands, strange terminations to the flabby white arms splattered with pale tan spots–long, quivering hands with deep and convex nails. She should not have disfigured them with little jewels.
She was not a woman given to recollections. At her middle thirties, her old days were a blurred and flickering sequence, an imperfect film, dealing with the actions of strangers.
Dorothy Parker, Big Blonde
Hazel Morse era una bella donna alta e ben piantata, una donna di quel tipo che induce gli uomini, quando pronunciano la parola “bionda”, a schioccar la lingua e ad alzar la testa con aria furbesca. Era orgogliosa dei suoi piedini e si sacrificava per questa vanità, imprigionandoli in certe pantofoline dalla punta schiacciata e dai tacchi altissimi, della misura più piccola che sia portabile. Ma soprattutto erano curiose le sue mani, lunghe mani oscillanti, dalle unghie incassate e convesse, che terminavano in modo strano quelle braccia flaccide e bianche, sparse qua e là di efelidi pallide. Quelle mani non avrebbe dovuto mai sfigurarle con piccoli gioielli.
Non era donna dedita ai ricordi. A trentacinque anni circa, i suoi giorni erano una fuggevole e labile sequenza, una mediocre pellicola che mostrava solo volti e gesti di sconosciuti.
Dorothy Parker, “La bella bionda”, Il mio mondo è qui, Bompiani, traduzione di Eugenio Montale
Hazel Morse era una bella donna alta e formosa, il tipo che spinge certi uomini, quando pronunciano la parola “bionda”, a schioccare la lingua scuotendo maliziosamente la testa. Si vantava dei suoi piedini minuscoli e soffriva per vanità costringendoli in scarpine strette con tacchi a spillo, della misura più piccola che riuscisse a sopportare. La cosa più curiosa erano le sue mani, bizzarre terminazioni di braccia candide e flosce punteggiate di pallide macchie di sole, mani lunghe e palpitanti con unghie profonde e convesse. Non avrebbe mai dovuto deturparle con gioiellini da quattro soldi.
Non era una donna portata all’introspezione. Giunta a cavallo tra i trenta e i quaranta, i giorni passati erano una sfilza di immagini sfocate e tremolanti, un film imperfetto, che parlava di socnosciuti.
Dorothy Parker, “Una bella bionda”, Tanto vale vivere, La Tartaruga Edizioni, traduzione di Chiara Libero
Sull’Atlantico un minimo barometrico avanzava in direzione orientale incontro a un massimo incombente sulla Russia, e non mostrava per il momento alcuna tendenza a schivarlo spostandosi verso nord. Le isoterme e le isòtere si comportavano a dovere. La temperatura dell’aria era in rapporto normale con la temperatura media annua, con la temperatura del mese più caldo come con quella del mese più freddo, e con l’oscillazione mensile aperiodica. Il sorgere e il tramontare del sole e della luna, le fasi della luna, di Venere, dell’anello di Saturno e molti altri importanti fenomeni si succedevano conforme alle previsioni degli annuari astronomici. Il vapore acqueo nell’aria aveva la tensione massima, e l’umidità atmosferica era scarsa. Insomma, con una frase che quantunque un po’ antiquata riassume benissimo i fatti: era una bella giornata d’agosto dell’anno 1913.
Le automobili sbucavano da vie anguste e profonde nelle secche delle piazze luminose. Il nereggiar dei pedoni disegnava cordoni sfioccati. Nei punti dove più intense linee di velocità intersecavano la loro corsa sparpagliata i cordoni si ingrossavano, poi scorrevano più in fretta e dopo qualche oscillazione riprendevano il ritmo regolare. Centinaia di suoni erano attorcigliati in un groviglio metallico di frastuono da cui ora sporgevano ora si ritraevano punti acuminate e spigoli taglienti, e limpide note si staccavano e volavano via. A quel frastuono, senza che se ne possano tuttavia descrivere le caratteristiche, chiunque si fosse trovato lì ad occhi chiusi dopo una lunghissima assenza avrebbe capito di essere nella città capitale di Vienna, residenza della Corte. Le città si riconoscono al passo, come gli uomini.
Robert Musil, L’uomo senza qualità, Einaudi, traduzione di Anita Rho
Un fronte freddo autunnale arrivava rabbioso dalla prateria. Qualcosa di terribile stava per accadere, lo si sentiva nell’aria. Il sole era basso nel cielo, una stella minore, un astro morente. Raffiche su raffiche di entropia. Alberi irrequieti, temperature in diminuzione, l’intera religione settentrionale era giunta al termine. Neanche un bambino nei giardini. Ombre e luci sulle zoysie ingiallite. Querce rosse e querce di palude e querce bicolori riversavano una pioggia di ghiande sulle case senza ipoteca. Le controfinestre rabbrividivano nelle stanze da letto vuote. E poi il ronzio monotono e singhiozzante di un’asciugabiancheria, la contesa nasale di un soffiatore da giardino, il maturare di mele nostrane in un sacchetto di carta, l’odore della benzina con cui Alfred Lambert aveva ripulito il pennello dopo la verniciatura mattutina del divanetto di vimini.
Le tre del pomeriggio erano un’ora pericolosa nei sobborghi gerontocratici di St. Jude. Alfred si era svegliato nella grande poltrona blu in cui si era addormentato dopo pranzo. Aveva finito il suo pisolino e il prossimo notiziario locale iniziava soltanto alle cinque. Due ore vuote erano una fistola che generava infezioni. Si alzò a fatica, raggiunse il tavolo da ping-pong e si mise in ascolto di Enid, ma non la sentì.
In tutta la casa risuonava un campanello d’allarme che nessuno poteva udire eccetto Alfred e Enid. Era il campanello d’allarme dell’ansia.
Jonathan Franzen, Le correzioni, Einaudi, traduzione di Silvia Pareschi
Adesso c’erano gerani alla finestra della cucina e qualcosa che somigliava all’allegria nel candore e nella freschezza delle tendine. Nuove aiuole si stendevano lungo il viottolo. Per il matrimonio di Ames erano tornati a casa tutti i Boughton, tranne Jack, ovviamente. Era l’ultimo matrimonio che avrebbe celebrato, aveva detto il padre, e il più lieto di tutti. […] Lila, l’improbabile sposa, in tailleur di raso giallo e cappellino senza tesa, aveva indugiato sorridendo con imbarazzo affabile, sopportando le loro fotografie, secondandoli. Aveva le braccia piene di rose che aveva coltivato e colto personalmente. Quei fiori erano il suo grande vanto. La prendevano ancora in giro perché si era rifiutata di lanciare il bouquet. Come la sua canonica, il vecchio Ames sembrava trasformato pur rimanendo uguale a se stesso. Adesso non era solo paterno ma anche padre, non solo cortese ma anche cavaliere di una donna che sembrava sempre consapevole delle cortesie che le riservava e ironicamente commossa.
Marilynne Robinson, Casa, Einaudi, traduzione di Eva Kampmann
Furono uniti in matrimonio nel salotto della casa del reverendo Boughton, con tutti i figli del celebrante presenti tranne, ovviamente, uno. Portarono addirittura dabbasso Mrs Boughton con indosso un bel vestito e la sistemarono nella sua poltrona. Le ragazze si chinarono per dirle che era un matrimonio, il matrimonio di John. Bello, vero? Poi la lasciarono alla sua quiete sorridente, perché si agitava sempre se percepiva che si aspettavano di più da lei.
Dopo la cerimonia e il pranzo preparato dalle figlie di Boughton, andarono a casa del vecchio. Lila non aveva mai capito la faccenda delle forchette e dei coltelli, che bisognava usarli secondo una certa regola. Ma lui, suo marito, le era seduto accanto, e vicino, e tutti i sentimenti benevoli di cui era oggetto adesso erano dovuti anche a lei. C’era una grande torta bianca decorata con rose di glassa, e le sorelle risero di quante ne avevano fatte e di quanto poche fossero venute simili a quelle delle figure sulla rivista. Piuttosto che ad altre cose. Cavolfiori. Funghi atomici. Gracie ne aveva fatta cadere una per terra e si era irritata tanto da lavarsene le mani e andare a fare una passeggiata, ma Faith aveva capito il trucco, appena in tempo, prima che cominciassero ad arrivare gli ospiti. C’era glassa ovunque in cucina. Teddy disse che aveva sorpreso Glory a leccarsi le dita. Ridevano tutti, tutti così abituati gli uni agli altri, così belli, anche i maschi. Lila non vedeva l’ora di andare via.
Marilynne Robinson, Lila, Einaudi, traduzione di Eva Kampmann
Ha una voce incredibilmente soave. Il fatto che al mondo esistesse una voce siffatta e che io fossi l’uomo destinato ad ascoltarla, mi sembrò allora e mi sembra anche adesso una grazia insondabile.
Cominciò a venire a casa mia insieme ad alcune delle altre donne, per prendere le tende da lavare, o sbrinare la ghiacciaia. E poi cominciò a venire da sola per prendersi cura del giardino. Lo fece diventare bellissimo e rigoglioso. E una sera, quando la trovai là, vicino alle splendide rose, le chiesi: – Come potrò sdebitarmi di tutto questo?
E lei mi rispose: – Dovrebbe sposarmi –. E lo feci.
Marilynne Robinson, Gilead, Einaudi, traduzione di Eva Kampmann
Tornarono indietro verso il centro di Gilead.
Lui disse: – Immagino che ancora non si fidi di me neanche un po’.
– È che in genere non mi fido del primo che capita. Non vedo perché dovrei -. Continuarono a camminare.
– Le rose sono bellissime. Quelle sulla tomba. È molto gentile occuparsene.
Lei si strinse nelle spalle. – Mi piacciono le rose.
– Sì, però vorrei potermi sdebitare in qualche modo.
Lei si sorprese a dire: – Dovrebbe sposarmi. – Lui si bloccò, e lei si allontanò attraversando la strada a passo frettoloso, il rossore della vergogna e della rabbia così cocente che questa volta di sicuro non avrebbe potuto continuare a vivere. Quando lui la raggiunse, quando le sfiorò il braccio, lei non osava guardarlo.
– Sì, – disse lui, – ha ragione. Lo farò.
Marilynne Robinson, Lila, Einaudi, traduzione di Eva Kampmann
Il Vecchio solleva d’impeto il coperchio del pianoforte, le sue dita tornano a mischiarsi con l’avorio dei tasti per coprire di suono le parole distanti. La mano dell’Ospite gli afferra il polso.
“Dunque non hai avuto fiducia nel Signore tuo Dio. Ti sei ribellato alla sua parola e hai disprezzato il suo disegno.”
“Lungi da me l’idea di ribellarmi al Signore: se ho agito per ribellione o infedeltà verso il Signore, che Egli non mi salvi! Io mi sono sempre condotto davanti a Dio in
perfetta buona coscienza.”
“Dio ti ha messo alla prova. Ti ha passato al crogiolo come l’argento, ti ha fatto cadere in un agguato, ha messo un peso ai tuoi fianchi. Ha fatto cavalcare uomini sulla tua testa, ti ha fatto passare per il fuoco e l’acqua—”
“E io non mi sono ribellato, non mi sono tirato indietro. Ho offerto il dorso a coloro che mi percuotevano.”
“Tu hai avuto paura e ti sei dato alla fuga.” L’Ospite si è accostato all’acquasantiera; parla guardandovi dentro, quasi a interrogare un riflesso. “Sei fuggito davanti
ai Filistei.” Si volta verso il Vecchio come per affondare il colpo già con lo sguardo. “Non ti fa onore quello che hai fatto.”
“Nessuno è buono, all’infuori di uno solo: Dio.”
Sergio Claudio Perroni, Renuntio Vobis, Bompiani
L’uomo e la sua società stanno morendo per eccesso di realtà; ma d’una realtà privata del suo senso e del suo nome; privata, cioè, di Dio. Dunque, d’una realtà irreale. […] Affondare gli occhi nel nostro male tenendo presente il Dio che abbiamo lasciato o, quantomeno, il dolore d’averlo lasciato, non significa veder meno: significa vedere ancora di più; e significa, inoltre, non poter più usare la parola (quella parola che è appunto ciò che si fa carne) come menzogna; menzogna che è servita e serve per usare la carne;per colpirla, crivellarla e stenderla, assassinata, su una delle strade che avevamo costruito per il nostro bene e per la nostra vita.
Giovanni Testori, Corriere della Sera, 20 marzo 1978
“Se ti è caro ascoltare, imparerai; se apri il tuo orecchio, sarai saggio.” Il Vecchio si è alzato dallo sgabello, va verso lo scrittoio; sotto la veste bianca, il rosso delle babbucce guizza come il fuoco di una candela capovolta. “Io non trattengo la parola quando è necessaria e non nascondo la mia sapienza.”
Sergio Claudio Perroni, Renuntio Vobis, Bompiani
«Se siete privi di sapienza, domandatela a Dio, che dona a tutti con semplicità e senza condizioni. Domandatela però con fede, senza esitare, perché chi esita somiglia all’onda del mare, mossa dal vento. Il Signore non dona agli uomini indecisi».
Emmanuel Carrère, Il Regno, Adelphi
“Ora io mi struggo nell’intimo e mi opprimono giorni di tristezza. Di notte mi straziano le ossa, e i dolori che mi rodono non hanno tregua. Eppure gioisco nelle sofferenze che sopporto, e quello che manca ai patimenti di Cristo lo completo sulla mia carne per amore del suo corpo, che è la Chiesa, della quale sono divenuto ministro, secondo la missione che Dio mi ha affidato per realizzare la sua parola.”
[…] “Per uno scarso vantaggio si percorre un lungo cammino, ma per la vita eterna molti a stento alzano da terra un piede… Il vostro amore è come nube al mattino,come la rugiada che all’alba svanisce.”
Sergio Claudio Perroni, Renuntio Vobis, Bompiani
«L’amore è paziente. L’amore è servizievole. L’amore non invidia. Non si vanta. Non si gonfia d’orgoglio. Non fa niente di brutto. Non cerca il suo interesse. Non tiene conto del male ricevuto. Non cerca il suo interesse. Non gode dell’ingiustizia. Gode della verità. Perdona tutto. Sopporta tutto. Spera tutto. Subisce tutto. Non viene mai meno».
Emmanuel Carrère, Il Regno, Adelphi