Tratto da I verbali del mercoledì — Riunioni editoriali Einaudi 1953-1963, a cura di Tommaso Munari, Einaudi
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Si decide per Salinger, 5 novembre 1958, riunione einaudi
23 dicembre 2014Leggere i classici, e Leopardi — secondo Calvino
3 novembre 2014Resta il fatto che il leggere i classici sembra in contraddizione col nostro ritmo di vita, che non conosce i tempi lunghi, il respiro dell’otium umanistico; e anche in contraddizione con l’eclettismo della nostra cultura che non saprebbe mai redigere un catalogo della classicità che fa al caso nostro.
Erano le condizioni che si realizzavano in pieno per Leopardi, data la sua vita nel paterno ostello, il culto dell’antichità greca e latina e la formidabile biblioteca trasmessigli dal padre Monaldo, con annessa la letteratura italiana al completo, più la francese, ad esclusione dei romanzi e in genere delle novità editoriali, relegate tutt’al più al margine, per conforto della sorella («il tuo Stendhal» scriveva a Paolina). Anche le sue vivissime curiosità scientifiche e storiche, Giacomo le soddisfaceva su testi che non erano mai troppo up to date: i costumi degli uccelli in Buffon, le mummie di Federico Ruysch in Fontenelle, il viaggio di Colombo in Robertson.
Oggi un’educazione classica come quella del giovane Leopardi è impensabile, e soprattutto la biblioteca del conte Monaldo è esplosa. I vecchi titoli sono stati decimati ma i nuovi sono moltiplicati proliferando in tutte le letterature e le culture moderne. Non resta che inventarci ognuno una biblioteca ideale dei nostri classici; e direi che essa dovrebbe comprendere per metà libri che abbiamo letto e che hanno contato per noi, e per metà libri che ci proponiamo di leggere e presupponiamo possano contare. Lasciando una sezione di posti vuoti per le sorprese, le scoperte occasionali.
Italo Calvino
L’apprendistato da Calvino: imparare a scrivere un risvolto
8 aprile 2014Così entrai alla Einaudi (dell’incontro con l’editore, e soprattutto della mia conoscenza di Giulio Bollati ho già detto), prendendo servizio il 1° settembre di quell’anno. Calvino, puntuale, era lì: e il mio tavolo era perpendicolare al suo, nella stessa stanza. Cominciò il mio anno di praticantato con lui, che non durò i trecentosessantacinque giorni del calendario, perché – prime ferie a parte – Calvino andava e veniva da Roma o da altre città: ma a dimostrazione del concetto espresso da Agostino nelle Confessioni (il tempo non esiste, è una misura interiore dell’uomo) fu il più lungo della mia vita, e certo il più fecondo.
Dirò subito che raramente – sul lavoro, non dico per altro ordine d’esperienze – ho sofferto come in quel periodo. «Io sono per una pedagogia repressiva», aveva dichiarato Calvino, ovviamente con un certo margine d’ironia, in una delle prime sedute d’addestramento: e aveva tenuto fede a quel enunciato.
Preciso anche, per spiegarmi meglio (scrivere di lui e di quell’esperienza, quarant’anni dopo, è per me estremamente difficile), che il criterio a cui s’ispirò fu quello della terza delle Lezioni americane, che – com’è noto – ha per titolo (e contenuto) Esattezza.
Mi limiterò a ricordare le tre componenti dell’esattezza per Italo: 1) un disegno dell’opera ben definito e ben calcolato; 2) l’evocazione d’immagini visuali nitide, incisive, memorabili; 3) un linguaggio il più preciso possibile come lessico e come resa delle sfumature del pensiero e dell’immagine. E subito sotto, a guisa di sfogo, Calvino confessa una propria «ipersensibilità o allergia»: gli sembra infatti «che il linguaggio venga sempre usato in modo approssimativo, casuale, sbadato», e ne prova «un fastidio intollerabile». […]
Dovevo imparare da lui il disegno, le immagini, il linguaggio per ognuna di queste «funzioni». Disegno: «In che collana esce? Quante righe hai? Quante ne vuoi riservare all’intreccio? Quante al suggerimento di lettura?» Aveva cominciato così con me: con domande-osservazioni molto terra terra, che, in realtà, sottintendevano tutta una «teoria della proposta» editoriale, maturata in lui in anni di esperienza quotidiana (quindici, per l’esattezza, all’epoca in cui mi riferisco). «Stai attento che noi non imponiamo mai un libro, ma lo proponiamo. Allo stesso modo, non lo giudichiamo mai, ma suggeriamo una delle tante strade per leggerlo. Non lasciarti andare mai a valutazioni. Tu, al massimo, indichi un percorso: e devi lasciar ben intendere che non è il solo, ma uno dei tanti. Il lettore affronta una prima volta il libro seduto in poltrona, aprendo il giornale e scorrendo la colonnina pubblicitaria: le due, tre righe che trova sotto autore e titolo non devono assolutamente intimorirlo. Incuriosirlo, semmai: e, se possibile, metterlo a suo agio. Solo allora lo affronterà una seconda volta, stavolta in piedi, tra uno scaffale e l’altro del suo libraio. Qui avrai a tua disposizione non più due righe, ma dieci, quindici, venti. Non credere che ti riesca tanto più facile persuaderlo quanto più spazio hai a disposizione. Il lettore, in quel secondo approccio, che è delicatissimo, e di fondamentale importanza perché l’incontro volga a buon fine, è come al secondo appuntamento con una ragazza, con cui ha appena scambiato due battute in tram. Tu andresti avanti con una che ti riversa addosso un catino di parole, la seconda volta che vi vedete? Invece, se costei è riservata senza essere musona, se parla quel tanto che basta da metterti una certa curiosità, tu hai voglia, comunque vadano le cose, di andare avanti. E in libreria, per andare avanti, devi comprare, comunque sia, foss’anche a credito…».
Guido Davico Bonino, da Alfabeto Einaudi, Garzanti
La forza di una descrizione
2 giugno 2013Descrivere vuol dire tentare delle approssimazioni che ci portano sempre un po’ più vicino a quello che vogliamo dire, e nello stesso tempo ci lasciamo sempre un po’ insoddisfatti, per cui dobbiamo continuamente rimetterci ad osservare e a cercare come esprimere meglio quel che abbiamo osservato.
Calvino, Salinari, La lettura, Zanichelli
Esemplare risposta di Pavese a Calvino
16 febbraio 2012Torino, 29 luglio 1949
Caro Calvino,
non mi dispiace che Tra donne sole non ti piaccia. Le ragioni che ne dài sono la trascrizione fiabesca di un tema letterario; un abbozzo di novella di Italo Calvino. Cavallinità e peni di faggio sono pura e bella invenzione (tutte le mitologie s’incontrano: il faggio è l’albero del Monte Pelion, il monte dei centauri).
Applichi due schemi, come due occhiali, al libro e ne cavi impressioni discordanti che non ti curi di comporre. C’è la definizione di Talino e Momima come fratelli, la scoperta che faccio sempre un viaggio all’altro mondo, che per me bestiale e decadente s’identificano […]; poi applichi lo schema realistico evocatorio (Proust, Radiguet, Fitzgerald) dell’insussistenza di questo mondo scoperto. Evidentemente questo mondo è un’esperienza dei vari io […] e questi io sono la vera serietà (non fiaba) del racconto. Ma tu — scoiattolo della penna — calcifichi l’organismo scomponendolo in fiaba e in tranche de vie. Vergogna.
Mi ha comunque molto consolato la scoperta del filone unitario tra le varie opere.
Godo dei successi cannibalici. Figúrati se vengo a San Remo. Fossi matto.
Pavese
Calvino lettore di Pavese
14 febbraio 2012Sanremo, 27 luglio 1949
Caro Pavese,
Tra donne sole è un romanzo che ho subito deciso che non mi sarebbe piaciuto. Sono ancora di tale opinione, sebbene l’abbia letto con grande interesse e divertimento.
Ho deciso che è un viaggio di Gulliver, un viaggio tra le donne, o meglio tra strani esseri tra la donna e il cavallo; è una specie di viaggio nel paese degli Hauihnhnn, i cavalli di Swift, cavalli con impreviste somiglianze umane, orribilmente schifosi come tutti i popoli incontrati da Gulliver. È certo un modo nuovo di vedere le donne, e di trarne vendetta allegra o triste. E la cosa che scombussola di più è quella donna-cavallo pelosa, con la voce cavernosa e l’alito che sa di pipa, che parla in prima persona e fin da principio si capisce che sei tu con la parrucca e i seni finti che dici: “Ecco, una donna sul serio dovrebb’esser così”. […]
Al lesbismo invece nessuno ci crede. Non è che una parola magica per indicare qualcosa d’oscuro e proibito praticato dalle donne-cavallo. Più che a Saffo si pensa a Pasife: o a strani riti con peni equini in legno di faggio. A ogni modo il racconto sta in questo girare intorno a un segreto morboso che cova lì in mezzo, e avvicinarglisi a poco a poco. Ed è condotto da papa; alla Cuor di tenebra insomma.
Poi ho scoperto che Tra donne sole e Paesi tuoi sono stessa cosa: due viaggi di persone “civili” tra i “selvaggi”. Talino e Momina sono lo stesso simbolo. Il mondo contadino e il mondo decadente borghese sono egualmente selvaggi e vengono giudicati (o meglio, visti; chi si può erigere a giudice dei cannibali?) da chi ne è fuori, per via d’un lavoro che ne trascende l’ambiente o le istituzioni (famiglia patriarcale, comunità salottiera): cioè chi lavora alle macchine agricole (e non chi lavora semplicemente la terra), chi fa i vestiti alle donne-cavallo (e non chi fa i quadri o anche le case, ma dal di dentro). E il vero messaggio del libro è un approfondimento del tuo insegnamento di solitudine, con in più qualcosa di nuovo sul senso del lavoro, sul sistema lavoro-solitudine, sul fatto che i rapporti tra esseri umani non fondati sul lavoro diventano mostruosi, sulla scoperta dei nuovi rapporti che nascono dal lavoro […] Tutto ciò t’avrà dimostrato come abbia, di questo libro “non piaciuto”, gustato tutti i possibili riferimenti morali: e altrettanto potrei dirti della struttura narrativa. Quel che non mi convince è, e già altre volte ho avuto occasione di dirtelo, la tua rappresentazione dei borghesi. […] Per scriver bene del mondo elegante bisogna conoscerlo e soffrirlo fino alle midolla come Proust, Radiguet e Fitzgerald, amarlo e odiarlo non importa, ma aver chiara la propria posizione rispetto ad esso. Tu non l’hai chiara: si scopre dall’insistenza con cui ritorni sul tema, che non è vero che te ne infischi, ma non hai, mi sembra, fatto ancora la scoperta del piglio che devi prendere rappresentando la gente chic.
Calvino
Calvino editor e ufficio stampa
25 gennaio 2012È morta la traduttrice che teneva il tempo
21 gennaio 2009È morta Adriana Motti.
Avevamo ognuno la sua stanza e tutto quanto. Erano tutt’e due sulla settantina, e forse anche più. Però c’erano cosa che li mandavano in sollucchero — in modo stupido naturalmente.
Io sono il più fenomenale bugiardo che abbiate mai incontrato in vita vostra. È spaventoso. Perfino se vado all’edicola a comprare un giornale, e qualcuno mi domanda cosa faccio, come niente dico che sto andando all’opera.