Posts Tagged ‘Canada’

L’amore secondo Samara Meyer

27 luglio 2018

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Ho preso la gru di carta con l’indirizzo di Kyle («se ti senti sola» mi aveva scritto Jenny, non ricordavo nemmeno più quante settimane fa) e sono uscita in fretta e furia. Ma nell’istante in cui ho varcato la porta sapevo che non ne avevo bisogno. Sapevo perfettamente in che modo Jenny se ne era andata. Aveva lasciato tracce di sé ovunque, grondavano dai rami, sfavillavano dai lampioni, scorrevano lungo i canali di scolo. Quell’idrante antincendio non era di un rosso naturale, e sapevo che lei ci era passata accanto. L’albero all’angolo tra la Saint-Laurent e la Pine era di un verde impossibile, e sapevo che lei lo aveva toccato. Vicino a una macchina parcheggiata c’era una pozzanghera piena di arcobaleni – amaranto, cadmio, ceruleo, eliotropo, tangerino –, e sapevo che in quel punto lei si era arresa alle lacrime, le gocce erano cadute a terra finché i suoi occhi non erano diventati grigi come marmo. Ovunque era andata aveva versato colore, aveva macchiato il mondo attorno a lei. Questo era il sentiero di briciole di pane che aveva lasciato per me.
L’ho seguito attraversando diciannove isolati. Il tragitto non era sempre dritto; Jenny aveva girovagato, camminato in cerchi stretti, era tornata sui propri passi. In quei punti, lo sapevo, aveva avuto parecchi dubbi. Ma c’erano anche strisce di colore denso, ininterrotto, quando si era sentita sicura di aver preso la decisione giusta, l’unica possibile. All’angolo tra la Milton e Parc ho individuato una macchiolina vermiglia, e così ho capito che per un secondo si era perfino messa a ridere.
Mentre seguivo i suoi colori mi chiedevo se quello fosse amore. La capacità di scoprire l’umore della persona amata in ogni cosa, in un gatto randagio o in una molecola vagante, settimane dopo che lei ci era entrata in contatto. Mi domandavo come avrebbe reagito quando mi sarei presentata davanti alla porta di casa. Quando le avrei detto che ero dispiaciuta, che ero stata una stupida, che avevo sbagliato tutto. Quando mi sarei messa in ginocchio e l’avrei implorata di perdonarmi.

Sigal Samuel, I mistici di Mile End, Keller

 

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Tra i tesori di The Word

10 novembre 2017

Mi piace andare a casa delle persone e comprare grosse collezioni. È sempre  un’avventura. Quando ti trovi di fronte buste e buste piene di libri saltano sempre fuori storie interessanti. E io sto lì a pensare alla felicità che provo quando arrivo a casa e metto a posto i miei nuovi tesori.

Intervista a Adrian King-Edwards, libraio di The Word, Montreal

Ragazze, sorelle, trapunte, copriletti

2 ottobre 2016

Quando arrivammo a casa, con la ghiaia che scrocchiava sotto le ruote della macchina, mi chiese se poteva andare in bagno.
«Certo», le dissi, vagamente emozionata all’idea di averla in casa, come fosse un dignitario straniero in visita. La accompagnai al bagno più bello, che era accanto alla camera dei miei. Tamar ci sbirciò dentro, vide il letto e arricciò il naso. «Che trapunta orrenda», disse sottovoce.
Fino a quel momento era stata semplicemente la trapunta dei miei, ma di colpo provai una forma di vergogna per procura nei confronti di mia madre, della trapunta pacchiana che aveva scelto, che era perfino stata tanto stupida da trovare carina.

Emma Cline, Le ragazze, Einaudi Stile libero Big, traduzione di Martina Testa

Mamma ci condusse in una camera dove c’erano due gemelli coperti da copriletti blu identici che emanavano una lucentezza artificiale. Mi aspettavo che si sarebbe alzata una nuvola di polvere una volta seduta sopra. In seguito, quando avrei avuto un sacco di tempo per osservare ciascun oggetto della casa, i centrini che sembravano fatti all’uncinetto ma in realtà erano di plastica, i fiori profumati ma finti, i portarotolo della carta igienica decorati, pensai che perfino quei copriletti parlavano dell’infelicità e della vulnerabilità della signora Edwards. Solo una persona che non aveva idea di come essere a proprio agio e felice nel mondo avrebbe potuto scegliere un tessuto così sgradevole, scivoloso e carico di elettricità statica per adornare la camera degli ospiti.

Frances Greenslade, Il nostro riparo, Keller editore

Avere la casa di qualcun altro tutta per sé

30 agosto 2016

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«Fai come vuoi» disse Beatrice e tirò la sua piccola valigia bianca da sotto il letto, spazzò via la polvere e piegò vestiti che non le avevo mai visto prima in una pila ordinata sul divano. Beatrice si metteva sempre e solo due completi: pantaloni elasticizzati blu e un cardigan avorio o pantaloni elasticizzati grigi e un cardigan verde. Ma quel giorno scoprii che aveva un armadio pieno di altre cose: tailleur-pantaloni dai colori pastello, camicette di crêpe con fiocchi sul colletto, e foulard a motivo cachemire. Mentre faceva la valigia parlava tra sé e sé. Aveva preso quest’abitudine subito dopo la partenza di Jenny, diceva cose di poco conto tipo: «Meglio fare il lavaggio a secco» o «dove ho messo l’ombrello?» Era una cosa che mi irritava, ma del resto tutto ciò che la riguardava mi irritava, mi
irritavano perfino i condimenti che teneva in frigo e non usava mai. Sapori antiquati, salsine alla menta e salsa HP – prima o poi dovevano per forza andare a male, per esempio dopo tre anni. Chiuse la valigia e la piazzò vicino alla porta due giorni prima della partenza.
Avrei dovuto trovare qualcosa di gentile da dirle. Avrei dovuto essere più generosa, ma ero felice di vederla partire.
Avere la casa di qualcun altro tutta per sé non è la stessa cosa che avere la propria casa tutta per sé. Eppure, una soffocante nuvola di rabbia e tacite accuse mi avvolse nel  momento in cui lei fu ai piedi delle scale. Mi feci una cioccolata calda e guardai Get Smart con i piedi appoggiati sul tavolino. Mi fumai una sigaretta, una di quelle di Jenny. Non c’era alcol in casa. Per un attimo pensai che sarebbe stato carino comprarne un po’ ma poi lasciai perdere perché avrebbe implicato parlare con delle persone.

Frances Greenslade, Il nostro riparo, Keller editore

Le madri danno e cedono

17 marzo 2016

“Le persone che vivono sole diventano egoiste” pensai. Anche Bea era egoista, pur non essendo esattamente sola. Forse perché né Bea né Rita avevano figli. Le madri danno e cedono, perfino quando non ricevono niente in cambio. Perlomeno così dovrebbe essere.

Frances Greenslade, Il nostro riparo, Keller

Decisioni

10 gennaio 2016

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Cara Maggie,
scusa per la lettera deprimente di ieri sera. Credo che stessi cercando di rimandare il più possibile il momento di andare a letto perché odio la mattina più di ogni altra cosa. Mi sveglio ed è tutto ancora vero, e io semplicemente non voglio svegliarmi, cosa che posso fare non andando a letto, capisci che intendo?
Sei seduta? Immagino di sì visto che stai leggendo questa lettera. Altrimenti, dovresti sederti, così non cadrai a terra. Non arrabbiarti, ti prego, non pensare che sono suonata, che sono una stupida, ci ho riflettuto un sacco e ho deciso che alla fine la terrò. Tengo mia figlia.
Chi c’è nel settimo cerchio dell’inferno??? (Ti immagino che stai dicendo questo, come faceva Ted, perciò scrivo la tua parte così mi sembra di averti qui con me).
Finora l’ho detto solo a Ginger e lei si è entusiasmata e mi ha proposto di prendere un appartamento insieme, ma io le ho detto che no, non posso vivere in città. Voglio andare a casa, ovunque sia, da qualche parte lassù con te e i coyote e le cinciallegre. No, non ho ancora pensato a un piano, perché come ti ho scritto l’altra volta non credo ci sia una grande richiesta di dattilografe nel Chilcotin, ma le donne pioniere ce l’hanno fatta con tutti i loro bambini. Ho detto a Ginger che può venire a vivere con noi. Spero che non ti offenderai. Ginger ti piacerebbe. Tanto sapevo che diceva di no, quindi non mi costava niente dirglielo.
Se Robert smetterà un attimo di guardarmi le tette oggi glielo dico. Ho sempre questa sensazione che tutti rimangano delusi da me. Continuo dopo.

Frances Greenslade, Il nostro riparo, Keller editore

La vita

10 gennaio 2016

Sylvia portò Mr Crozier in uno chalet in affitto in riva al lago, dove lui morì poco prima della caduta delle foglie.
La famiglia Hoy fece fortuna, come spesso succedeva a chi aveva un’officina meccanica.
Mia madre lottò con un male debilitante, che mise fine a tutti i suoi sogni di diventare ricca.
Dorothy Crozier ebbe un ictus, ma si riprese e divenne celebre per aver iniziato a comprare dolcetti di Halloween da consegnare ai fratelli minori di quei bambini che aveva cacciato dalla porta di casa.
Io sono diventata adulta, e poi vecchia.

Alice Munro, “Certe donne”, Troppa felicità, Einaudi, traduzione di Susanna Basso

Gli esseri umani sono imprevedibili

3 dicembre 2015

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Scese di nuovo il buio, improvviso come la sera precedente, e con il buio la lieve brezza che aveva rovistato tra gli abeti si placò. Mamma preparò un fuoco, e i fruscii e il rumore dei ramoscelli che spezzava riecheggiavano in quello strano silenzio. Spossate, io e Jenny ci mettemmo comode sulle sedie pieghevoli condividendo una coperta sopra le ginocchia e osservammo il fuoco che attecchì crepitando e avvolgendosi intorno al ceppo più grosso.
«Una giornata perfetta» disse mamma sistemandosi anche lei sulla sedia.
«Non hai mai paura?» le chiese Jenny.
«Paura di cosa?»
«Di qualunque cosa. Degli orsi, dei lupi, dei puma».
«Mi fanno più paura gli esseri umani» disse mamma.
«A chi ti riferisci?» fece Jenny.
«A nessuno in particolare» disse. «Mi sembra che ci sia molto più da temere dagli uomini che dagli animali che hai citato. Gli esseri umani sono imprevedibili».

Frances Greenslade, Il nostro riparo, Keller

Come mai mamma non tornava?

19 novembre 2015

 

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Come mai mamma non tornava? Come mai non ci dava sue notizie? A volte ripensavo alla madre di Vern e alla sua stanza del cucito. Jolene, un tempo, era una madre che creava fantasie a partire da pezzetti di stoffa colorati e si chinava sulla sua macchina da cucire per realizzare trapunte per le persone care. Chi era diventata adesso? La compagna di uno stronzo che sembrava quasi odiare. Forse nostra madre era diventata una persona diversa, conosciuta da tutti solo come Irene, una bella donna rossa di capelli, con le cosce muscolose e le mani forti.
Beatrice era proprio irrecuperabile: non scaraventava più gli occhiali per la stanza in preda alla frustrazione – la morte di Ted l’aveva liberata, sembrava quasi felice –, ma non faceva che friggere salsicce e bollire patate, controllare la posta, astenersi dai commenti – rumorosamente. Ora che i commenti erano diventati necessari, lei si asteneva. La biasimavo perché non faceva nulla per trovare nostra madre. La odiavo per il suo silenzio. Sapevo che provava imbarazzo per noi. La odiavo per questo. Attorno a noi si accumulava un silenzio impenetrabile sulla cosa più importante di tutte.
A volte mi veniva voglia di avvicinare qualcuno a caso per strada e chiedergli: «Dov’è mia madre?» Un insegnante, o un poliziotto. «Lo sa dov’è mia madre? Mi può aiutare a cercarla?» Perché invece tacevo?

Frances Greenslade, Il nostro riparo, in uscita per Keller editore

Cos’è il decoro?

15 agosto 2015

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Una separazione consensuale non gli impediva di dare l’indirizzo di Angelica come fosse il suo. La separazione in sé non arrecò grossi disturbi, se non qualche saltuario corpo a corpo riguardo la divisione degli oggetti domestici. Una volta Angelica si presentò nel bel mezzo di una cena che Victor aveva organizzato a casa sua e portò via la mobilia della sala da pranzo. Gli ospiti erano ancora all’aperitivo, nel brutto e freddo salone sull’altro lato dell’ingresso. Finsero di non vedere […] — tutti tranne Lily, che strinse il suo bicchiere di Campari con entrambe le mani e rimase immobile sulla soglia a guardare.
Era la prima volta che vedevamo Angelica. Dentro una valigetta di coccodrillo portava un’ingiunzione di un tribunale italiano, firmata da un suo parente, e sei copie di un permesso per trasportare tutto quanto oltre frontiera, senza dover pagare dazi doganali. Arrivò con un furgone, che fece parcheggiare all’autista proprio davanti alla porta d’ingresso, come in una retata della polizia. Lily passò in rassegna con lo sguardo il suo abito rosso, ben stretto da una cintura, il cappello di paglia rossa e lucida, lo smalto per unghie dello stesso identico colore del cappello. I capelli, giallo nasturzio, erano più lunghi di quelli di Lily. Trascinò una scaletta fuori dalla cucina, si tolse con un calcio i delicati sandali rossi, salì a piedi nudi. (Il tavolo era già stato spostato, il tappeto arrotolato e caricato sul furgone.)
Angelica esaminò il lampadario a bracci, per vedere se fosse possibile tirarlo giù, mentre Victor, ai piedi della scaletta, osservava con placida disapprovazione le gambe nude della moglie. “È indecoroso, Angelica” disse. Lei rispose con l’equivalente di “cos’è il decoro?” ma in una lingua più violenta e personale, e cominciò a svitare le lampadine. (Lily mi fece ricordare, in seguito, che Victor non aveva mai smesso di grattarsi la nuca.) Alla fine si arrese, la lasciò lì, e portò la sua compagnia di sette persone al ristorante, dove pagò con un assegno che avrebbe potuto anche essere a vuoto: lo sventolò con un gesto teatrale per asciugare l’inchiostro della firma e suggerì al cameriere di farlo incorniciare.

Mavis Gallant, “Meglio lasciar correre”, Varietà di esilio, Bur, traduzione di Giovanna Scocchera