Posts Tagged ‘Chicago’

Ho sempre solo sognato la libertà

17 giugno 2016

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Abbiamo intervistato Jami Attenberg, autrice dei Middlestein e di Santa Mazie, pubblicati da Giuntina. La trovate qui.

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Famiglie contemporanee

18 marzo 2016

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Ed ora ecco questa casa di mattoni, in stile coloniale, con due robuste colonne sul davanti che facevano sentire Benny al sicuro, come se la sua famiglia fosse protetta, due piani, tre stanze da letto, due bagni e mezzo, una cucina luminosa, un soggiorno ombreggiato, un locale bar nel seminterrato, un giardino sul retro con spazio sufficiente per una piscina, una magnifica terrazza e una rete per il volano durante l’estate. (Si era parlato di costruire un gazebo, ma non fino a quando avesse visto a quanto ammontava il suo premio annuale). Un garage, con dentro due Lexus sfarzose. Una rimessa con uno di quei tosaerba che puoi usare standoci sopra. Non che lui avesse mai tosato l’erba. C’era un tizio che lo faceva. Non sapeva chi fosse; sua moglie si occupava di tutte quelle cose. Rachelle si prendeva cura di lui, questo è vero, Richard lo ricordò a sé stesso. Le aveva affidato questo compito da tanto tempo. Ma lui aveva bisogno di mangiare. I suoi figli avevano bisogno di mangiare.
«Abbiamo fame» disse a Rachelle.
«C’era un sacco di cibo a tavola stasera» disse lei.
«I ragazzi stanno ancora crescendo. Hanno bisogno di più delle sole verdure» disse lui. «E io sto improvvisamente diventando calvo se non l’hai notato».
«Non c’è alcuna prova scientifica che colleghi la perdita dei capelli al maggiore consumo di verdure».
Richard lanciò in alto le mani, gesticolando verso il cielo, e poi verso la testa, e poi giù di nuovo.
«È vero» disse lei. «L’ho cercato su Internet».
Tirò un’altra boccata dal suo spinello e allora si rese conto che era fatto, e più affamato che mai, e che non c’era una sola dannata cosa in casa che valesse la pena di mangiare. Si chiese se lei se ne sarebbe accorta se lui fosse andato a fare una passeggiata fino al più vicino fast food, un McDonald’s a circa un chilometro di distanza. Forse avrebbe potuto far entrare di nascosto delle patatine fritte per i ragazzi. Ma lei probabilmente ne avrebbe sentito l’odore. Non ce l’avrebbe mai fatta ad andare oltre il pianterreno.

Jami Attenberg, I Middlestein, Giuntina, traduzione di Rosanella Volponi

Alcune ragioni per cui non lascerei Chicago: un elenco incompleto e senz’ordine

10 luglio 2015

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1. Guidare verso ovest al tramonto in estate: accecato dal sole, non riesci a vedere le macchine davanti a te; i brutti depositi e le autofficine sono di un arancio fiammante. Quando il sole tramonta, tutto acquista profondità: le facciate di mattoni si velano di blu; ci sono sbavature di tenebra al carboncino lungo l’orizzonte. Il cielo e la città sembrano infiniti. Ovest è ovunque tu volga lo sguardo.
2. Il modo in cui d’inverno le persone si stringonosotto le tiepidi luci alla fermata di Granville sulla Elle, molto simili a giovani polli sotto una lampadina. È un’immagine di solidarietà umana imposta dalla crudeltà della natura, la storia di Chicago e della civiltà.
[…]
7. Guardare dritto a ovest la sera da qualunque grattacielo di Edgewater o Rogers Park: gli aerei sospesi e luccicanti sopra O’Hare. Una volta, con mia madre in visita, abbiamo trascorso un’intera serata seduti al buio, ad ascoltare Frank Sinatra, guardando gli aerei che somigliavano a lucciole stordite, trafitti dalla costante meraviglia che è questo mondo.
8. La felice scarsità di personaggi celebri a Chicago, perlopiù atleti falliti e strapagati. Oprah, una di Friends, e molti altri di cui non ho mai saputo il nome o mi sfugge in questo momento si sono trasferiti a New York o a Hollywood o in clinica, dove possono sfoggiare la finta insegna delle loro umili origini chicaghesi, mentre noi possiamo rivendicarli senza essere realmente responsabili della vacuità delle loro vite da prima pagina.
9. I parrocchetti di Hyde Park, miracolosi superstiti degli inverni più rigidi, un colorato esempio di vita che rifiuta fermamente di morire, con quell’istinto che ha reso Chicago dura e grande. In realtà io non ne ho mai visti: la possibilità che siano un’invenzione rende l’intera faccenda ancora più gustosa.
10. Lo skyline del centro di notte visto dall’Adler Planetarium: finestre illuminate nella cornice di palazzi bui contro un cielo ancora più buio. Sembra che le stelle siano state distribuite e incollate allo spesso muro della notte chicaghese; una fredda, inumana bellezza che contiene l’immensità della vita, ogni finestra una possibile storia, dentro la quale un immigrato si sobbarca un turno serale a pulire lo sporco d’impresa.
11. Il colore grigioverde del lago leggermente spumoso quando i venti soffiano da nordovest e il cielo è intirizzito.
12. Le giornate estive, lunghe e umide, quando le strade sembrano lucide di sudore; quando l’aria è densa e calda come un tè col miele; quando le spiagge sono affollate di famiglie: padri addetti al barbecue, madri che prendono il sole, figli che sfiorano l’ipotermia nelle secche del lago. Poi un’onda di aria gelida spazza i parchi, una pioggia torrenziale infradidcia qualsiasi creatura vivente, e qualcuno, da qualche parte, rimane senza corrente. (Mai fidarsi di una giornata estiva a Chicago).
[…]
16. Le famiglie pachistane e indiane che passeggiano solenni su e giù per Devon Street nelle sere d’estate; le attempate coppie di ebrei russi riunite sulle panchine a Uptown, che gorgheggiano pettegolezzi nelle loro morbide consonanti sopra gli strepiti di obsolete radio a transistor; le famiglie messicane di Pilsen che affollano il Nuevo Leon per la colazione domenicale; le famiglie afroamericane maestosamente vestite per la messa in attesa di un tavolo al Dixie Kitchen di Hyde Park; i rifugiati somali che giocano a calcio in sandali sul campo sportivo del Senn High School; le giovani madri di Bucktown coi materassini da yoga in spalla come fossero bazooka;l’enorme quantità di vita quotidiana di questa città, molta della quale merita da sola un racconto o due.
17. Un fiume di rosso e un fiume di bianco che scorrono in direzioni opposte lungo la Lake Shore Drive, come si vedono da Montrose Harbor la notte.
[…]
19. Le sontuose dimore di Beverly; le desolate case a schiera di Pullman; i freddi edifici del canalone di La Sale Street; la garrula bellezza dei vecchi alberghi del centro; l’austera arroganza della Sears Tower e dell’Hancock Center; le pittoresche case di Edgewater; la tristezza del West Side; lo splendore decrepito dei teatri e degli alberghi di Uptown; i depositi e le autofficine del Northwest Side; le migliaia di lotti vuoti e di edifici scomparsi cui nessuno presta attenzione e che nessuno ricorderà. Ogni edificio racconta un pezzo della storia della città. Solo la città conosce tutta la storia.
20. Se a Studs Terkel Chicago è bastata per passarci un’intera vita, allora va più che bene anche per me.

Aleksandar Hemon, Il libro delle mie vite, Einaudi, traduzione di Maurizia Balmelli