In questi anni, al centro dell’attenzione degli editori, dei tanti (e nuovi) attori della filiera del libro, delle pagine e supplementi culturali si sono imposte le «tecnologie» nelle loro multiformi declinazioni: internet e web 2.0, device (iPhone, iPad, smartphone), e-reader dedicati (Kindle o Nook), standard (Pdf o ePub?), piattaforme e software (aNobii, GoodReads, Book-Clubs-Resource.com, eccetera), Drm (sì o no?), digital lending (ma a che condizioni?), metadati (ma cosa sono, e a cosa servono?) eccetera. Tutto ruota attorno a loro, imponendo ritmi e tempi (e temi) del discorso giornalistico e del dibattito, professionale e culturale. Quasi più nulla resta d’altro. Eppure in questi anni il lettore (o il cliente della libreria) non è «cambiato» meno dei device che trova esposti nei multistore delle catene o nelle home page dei principali store on line. Esprime nuovi «bisogni» di lettura (generi, linguaggi, autori, letterature che non sono più solo quelli «occidentali»). Esprime nuovi comportamenti nella ricerca e nello scambio di informazioni su cosa leggere e comprare. Cerca nuovi luoghi in cui esercitare il suo diritto all’acquisto. E vuole questi luoghi diversi rispetto a soli cinque, dieci anni fa. Gli stessi andamenti del mercato degli ultimi tempi non possono venir semplicemente appiattiti su questioni di «congiuntura economica», di spostamenti verso altri supporti, di aggressive politiche competitive (le «promozioni»!). Ci dicono, innanzitutto, cosa il «cliente» si aspetta dalle formule del negozio che decide di frequentare e di premiare mettendo mano alla carta di credito o alla tessera del bancomat. Così che lo spostamento di fatturato tra i canali di vendita può (deve) esser letto (anche) come una spia di cambiamenti in atto nei comportamenti dei lettori. Prima ancora che nell’acquisto di un libro, di un autore, di un marchio editoriale, nell’acquisto di un «prodotto» commerciale: il negozio fisico oppure on line. Si compra sempre più da librerie on line (dal 3,2% del 2008 al 6,0% del 2011; Fonte: Nielsen) e nelle librerie di catena (dal 36,6% del 2008 all’odierno 41%) che più di altre sanno o/rire «atmosfera» (bar e ristoranti, punti di incontro) prima ancora che assortimento e servizi. Rimane stabile (circa il 17%) il banco libro della Grande distribuzione (troppo esiguo l’assortimento/servizio rispetto alla domanda del pubblico?), cala (dal 43% al 37%) la libreria a conduzione famigliare; e non solo per la pressione competitiva (e finanziaria) dei maggiori concorrenti ma per la dicoltà (finanziaria innanzitutto, e pure per «inadeguata cultura imprenditoriale», incapacità a fare come IndieBound negli Stati Uniti) a star dietro ai cambiamenti del cliente.
1. Una delle domande che gli editori si pongono sempre più spesso in questi anni è: «Cosa possiamo imparare dalle trasformazioni che sono avvenute in altri settori? Dalla musica al cinema, alle televisioni (al plurale), all’editoria quotidiana e periodica? Che indicazioni ne possiamo trarre?» Detto che l’editoria libraria
(con maggiore intensità e anticipo nel settore professionale/universitario) non è certo rimasta in questi anni alla finestra a guardare ai cambiamenti tecnologici – il mercato digitale vale comunque, tra banche dati professionali, libri con estensioni digitali, servizi editoriali collegati a internet, circa il 10% di quei 3,4 miliardi di
euro che costituiscono il mercato del libro in Italia –, la questione ha più che ragionevoli motivi per essere posta. Soprattutto perché ci aiuta a individuare meglio le domande per capire come è cambiato in questi anni il nostro «cliente».Tanto più oggi, che esiste un mercato reale degli e-book (e delle applicazioni).Magari più piccolo di quanto si auspicava nel 2009, ma c’è. Dai 1609 titoli in italiano del dicembre 2009 siamo oggi a oltre 20 mila. Con un fatturato che dovrebbe aggirarsi (il condizionale è d’obbligo) attorno ai 3,8 milioni di euro a fine 2011 (1,5 milioni a fine 2010; Fonte: stime Associazione Italiana Editori). Abbiamo una realtà significativa e importante rappresentata dai social network dedicati ai libri e alla lettura. Alla scelta del libro si arriva sempre più attraverso la rete (dall’11% del 2007 al 15% di oggi, la indicano come «fonte» informativa); sempre meno attraverso le recensioni (dal 40% al 38% negli stessi anni; Fonte: AIE, Università di Tor Vergata, 2011). In questo contesto si continuano a leggere libri di carta più che dieci o quindici anni fa. Lo dicono i dati Istat. Anche se nel 2011 si è verificato un curioso fenomeno ancora tutto da interpretare. Magari si legge la pagina e si «entra» nel libro (romanzo o informazione che sia) in modo diverso: il 17% di chi ha visto un film tratto da un libro poi dichiara di averne comprato il romanzo (Fonte: AIE, Osservatorio contenuti digitali, 2009). Come ha fatto notare Pierdomenico Baccalario in un articolo di qualche mese fa, «le storie del futuro cambieranno perché cambieranno i loro lettori. […] Le storie di successo vengono espanse in un universo di storie coerenti dove non esiste [più] un vero inizio e una vera fine, nel senso che inizio e fine possono essere diversi per ogni singolo utente che vi partecipa dato che non è possibile prevedere il momento in cui entrerà in contatto con la storia e, soprattutto, con quali conoscenze». Questo non vale solo per le saghe fantasy – a cui Baccalario in primo luogo si riferiva – ma iniziava a valere già (qualche anno fa) anche per ER dove si poteva «entrare» a diversi punti della storia televisiva, ma anche dalle pagine del romanzo. «Un utente» continuava Baccalario «può appassionarsi a una storia partendo da un videogioco, leggere uno dei libri che la narra dove, oltre al libro tradizionale, troverà cartoline e appunti con numeri di telefono che volendo può davvero chiamare; o ancora: seguire una puntata del telefilm. Solo successivamente, soddisfatto di quanto ha letto visto o giocato, cercando su internet, chiacchierando sui social network o riconoscendo una maglietta nella vetrina di un negozio, scoprirà che la storia a cui si è a/ezionato fa parte di un universo narrativo più vasto.» Tecnologie, certo, ma quello che diventa centrale sono i cambiamenti nei comportamenti dei lettori che obbligano a nuove scelte editoriali. La forma romanzo non è a/atto morta ma migra su nuovi e di/erenti media. E i media si ibridano, come i modi di distribuire e di consumare i contenuti da parte degli utenti. Più di qualcuno ha fatto notare come si sia creata una serialità televisiva di (grande) qualità, complessità e varietà narrativa, e al tempo stesso di largo consumo (Six Feet Under, I Soprano, Mad Men, e Wire eccetera). Una serialità televisiva che non ha nulla da invidiare alla grande narrativa popolare. E la narrazione sull’e-book (ma ancor prima nelle keitai-novel) si sta adattando (si può adattare), grazie alle tecnologie, ai nuovi ritmi e spazi della mobilità urbana. Diventa Kindle Single come nel caso di Fatal Voyage di John Hooper: instant e-book sul naufragio della Concordia. Genere (?) pensato certo per gli schermi degli e-reader, dell’iPad o dello smartphone, ma innanzitutto per i nuovi comportamenti in mobilità del lettore: a un tempo della lettura che si contrae e diventa interstiziale e frammentato. Una lettura che quando è su carta ha bisogno di trame e personaggi forti, storie dalla marcata capacità di coinvolgere il lettore: non a caso la letteratura di «genere» (giallo, noir, fantasy, graphic novel in parte) in questi anni ha acquisito una centralità (e un prestigio culturale e commerciale) che prima non aveva. Vale per l’universo del libro quanto Giovanni De Mauro (direttore di «Internazionale ») ha osservato di recente: «Il mondo dei giornali, quelli di carta, è certamente in dicoltà ma il giornalismo non è stato mai in dicoltà. Anzi! Oggi il numero di persone che legge articoli di giornale sul web [ma aggiungiamo noi anche attraverso la free-press lungo gli spostamenti urbani] è enormemente superiore a quanto lo era [il numero dei lettori di giornali] qualche anno fa quando il web non c’era». Dunque il numero di lettori interessati alle notizie giornalistiche «è aumentato. Il problema è che le notizie e i giornali li leggono sul web; e molto spesso solo sul web. È questo quello che non va e che bisogna tentare di correggere » («Giornale della libreria», 12, 2011, pp. 44-45). Detto altrimenti gli editori, ma pure il giornalista, sono alla ricerca gli uni di «modelli economicamente sostenibili per tutta l’editoria giornalistica», l’altro di scritture (e generi giornalistici) capaci di rispondere a questa diversa maniera di fruire dell’informazione. Come lo sono gli editori (di libri) rispetto ai nuovi modi di accedere a grandi narrazioni – ma possiamo trasporre questo aspetto all’editoria professionale, a quella universitaria, a quella turistica e d’arte – che non passano più (solo) attraverso la pagina del romanzo ma attraverso videogiochi, la nuova serialità televisiva, il cinema, le comunità di social reading. Come l’informazione fiscale passa da applicazioni, newsletter, banche dati, manuali, corsi di aggiornamento. 2. I dati sulla lettura del 2011 fanno segnare, per la prima volta dal 2007, una Wessione nel numero di italiani con più di sei anni di età che dichiarano di «aver letto almeno un libro nei 12 mesi precedenti». Nel 2010 erano il 46,8% di questa popolazione, nel 2011 sono scesi al 45,3%. Se guardiamo ai valori assoluti sono scomparsi, tra 2010 e 2011, 723.000 lettori. Non è la prima volta nell’ultimo decennio in cui ci troviamo alle prese con un fenomeno «qualitativamente» analogo che si manifesta all’interno di una crescita tendenzialmente lenta (e senz’altro inadeguata) del mercato della lettura: cioè del potenziale mercato a cui editori e librerie possono far riferimento. Era avvenuto nel 2001, nel 2005, e ora nel 2011. A conferma di un fatto spesso sottovalutato: la lettura (di libri) è diventata nei decenni scorsi un’attività di consumo. Chi oggi legge (un libro) o entra in una libreria non è detto che domani continui a leggere o a entrare in libreria. Molto dipende dall’o/erta: titoli, prezzi, distribuzione, promozioni, nuovi autori. Il lettore, il cliente deve essere ri-conquistato ogni volta da chi i libri li fa, e da chi i libri li vende. Accanto al tradizionale «non lettore» e al «lettore occasionale» è nato nel decennio scorso anche il «non lettore occasionale». La lettura, sia essa di libri, quotidiani o periodici, è diventata una delle possibili opportunità che l’individuo (lettore/consumatore) si riserva di praticare, rispetto ai diversi modi di occupare il proprio tempo libero, raccogliere informazioni, aggiornarsi professionalmente, studiare, «evadere». La lettura si colloca – almeno nei mercati editoriali occidentali avanzati – sempre più all’interno di altre pratiche e attività del consumo: in primo luogo quelle riguardanti il proprio tempo libero (dalle guide per il turismo al variopinto mondo dell’audiovisivo e dei videogiochi), le mode, gli hobby (manuali) e così via. Non si spiega altrimenti il fatto che la lettura stia perdendo in molti Paesi le caratteristiche di un processo lineare (più o meno veloce e continuo) di crescita (tipologia che aveva invece contraddistinto le dinamiche del XIX e del XX secolo) tra processi di alfabetizzazione ed estensione dell’obbligo scolastico, biblioteche circolanti e sviluppo di moderni sistemi di public library. La convinzione che chi diventa per la prima volta nella sua vita lettore di un libro sia comunque un lettore acquisito per sempre perde di valore in favore di un’immagine di lettore che deve ogni volta essere ri-conquistato: con nuovi sistemi di prodotti/autori, mode e tendenze culturali e letterarie, generi e letterature (quelle del «Sud del mondo» per usare un’espressione superata ma sintetica), meccanismi di fidelizzazione, distribuzione del libro nel maggior numero possibile di luoghi che il potenziale lettore si trova a frequentare: stazioni ferroviarie, aeroporti, centri commerciali, grandi magazzini, catene di noleggio di film, negozi specializzati (farmacie, garden center, bar-librerie eccetera). Tornano così a essere ancora più centrali le politiche editoriali: «La distribuzione è da vent’anni che cambia continuamente sotto i nostri occhi». Il lavoro di editore resta quello di «fare scouting, editing, selezionare e quindi o/rire una qualità editoriale mediamente migliore ai propri lettori […] permette[rgli] di scegliere tra titoli che hanno un senso dato dal progetto editoriale della casa editrice, dalla collana, dalla copertina, da come il libro ti invita a essere letto. Tutte cose che resteranno anche quando i libri di carta non ci saranno più. Il gusto dell’editore resta un punto di riferimento per quella categoria di persone che chiamiamo lettori» (Stefano Mauri, «Giornale della libreria», 11, 2011, pp. 14-16). E le nuove forme di transmedialità costituiranno una parte importante della produzione editoriale e del mercato dei diritti. Certo il lavoro dell’editore non è stato in questi anni (e non lo sarà nei prossimi) facile, di fronte ai cambiamenti nei gusti, nel sen- timent di un pubblico spaventato da crisi economiche, cambiamenti tecnologici, spread, disoccupazione, default, guerre di/use e non sempre lontane. È semmai mancata negli anni scorsi una riWessione su cosa hanno significato quei mega best seller in cui all’inizio credevano poco (o comunque non molto) gli stessi editori e i librai che li prenotavano. Quali bisogni intercettavano, prima ancora che dai lettori abituali, dalla società intera. «I bambini» a/erma Roberto Denti «come gli adulti hanno bisogno di sognare: il mondo reale non è una meraviglia. I genitori leggono l’oroscopo, i ragazzi [ma anche i grandi] Harry Potter e Paolini.» Le arti magiche – nell’evasione narrativa in cui ci si immerge – possono sembrare buone soluzioni per i giovani adulti (o per i giovani anziani) di fronte alle bolle che esplodono: tra sopravvalutazione della new-economy o del mercato immobiliare. Così come le grandi cospirazioni possono tenere assieme 11 settembre, Lehman Brothers e l’Area 51. Go/redo Fofi in una conversazione del 1983 suggeriva di distinguere tra «best seller e best seller». Ci sono «quelli che devono il loro successo di vendite […] alla capacità dell’editore di orchestrare un lancio in grande stile». Il pubblico che raggiungono «è quello di lettori […] abbastanza tradizionali», e che non «va[nno] oltre» questa cerchia di pubblico. «C’è poi un altro tipo di best seller […]. Un libro che scatta verso i vertici delle classifiche di vendita» per altri motivi. «Scatta, ha successo di vendite perché coglie una situazione, la interpreta, è fatto proprio da un lettore molto più di massa, molto più diversificato di quanto non avvenga» per l’altro. Qui «siamo in presenza di romanzi che hanno un successo di vendite […] perché rispondono a dei bisogni di lettori reali in un determinato momento della società» (Il superlibro, Il lavoro editoriale, Ancona,1983). E sempre Roberto Denti aggiungeva in quella stessa intervista: «I bambini oggi cominciano prestissimo a vedere i cartoni animati in dvd, si abituano alla rapidità visiva ed emotiva o/erta dalle storie portate sugli schermi. Poi cercano questo anche nelle pagine dei libri. L’editoria e la narrativa si sono adattate [in questi anni] a questo cambio importante nel gusto dei giovani lettori» («La Repubblica», pagine di Milano, 2 febbraio 2012, p. 22). È ormai chiaro che «a seguito del nuovo ambiente digitale, i bambini e gli studenti di oggi apprendono e gestiscono l’informazione e la comunicazione in modo sostanzialmente diverso da noi» (Paolo Ferri, Nativi digitali, Bruno Mondadori, Milano, 2011, p.12). Se questo è vero, quali saranno le conseguenze – una volta che questi «nativi digitali» diventeranno sempre più autonomi nelle loro scelte di acquisto e di lettura – per gli editori? Se i loro modelli di vedere e costruire il mondo sono cambiati, quali domande di contenuti narrativi, di linguaggi eccetera porranno ad autori, editor, case editrici? Il fatto di «parlare» il linguaggio digitale dei pc, dei videogiochi e di internet cosa significa (cosa significherà) per il lavoro editoriale? Cosa significherà in termini di nuovi modelli di business da immaginare ed esplorare? Anche se diverse indagini mettono in evidenza (per ora) nella dieta dei digital natives una convivenza di schermi e pagine, mai come oggi la lettura infantile (di libri) risulta in crescita, e il mercato (a pezzi e valori) in ampliamento. La pagina di un libro per un ragazzo – è stato detto – fa parte (ancora? fino a quando?) della modernità accanto agli schermi di iPhone, videogiochi, internet. Un fenomeno evidente nei processi educativi indagati dal Programme for International Student Assessment: i nativi digitali che utilizzano internet hanno livelli di apprendimento migliori. E i livelli sono più alti tra coloro che non ne fanno un uso «troppo frequente». Ovvero (probabilmente) che integrano forme e paradigmi diversi di apprendimento, lettura, organizzazione dell’informazione/contenuti, esplorazione della pagina/schermo. La domanda, che esplicitamente Paolo Ferri poneva nel suo libro sul versante dell’editoria scolastica, è se essa è pronta «a ristrutturare» la sua «o/erta di contenuti e il suo modello di business secondo le nuove regole del capitalismo digitale» (p. 132). Domanda che si potrebbe estendere, senza alcuna dicoltà, all’editoria tutta. Le logiche di business (come i comportamenti del lettore) non saranno più (o saranno sempre meno) sequenziali e lineari. Si dovranno ristrutturare secondo linee di riusabilità, frammentazione, condivisione, gratuità (parziale), multipiattaforma eccetera, con gli inevitabili investimenti finanziari. Le nuove forme di transmedialità, di granularità nello «spacchettamento»/riconfezionamento dei contenuti costituiranno una parte importante della produzione editoriale e del mercato dei diritti. Ma proprio per questo, fino a quando la carta (dei quotidiani come quella dei libri) riuscirà a finanziare, con i suoi margini, il passaggio al digitale? Fino a quando l’editore potrà resistere alla potenza di fuoco finanziaria dei tre big player che adottano – lo si dimentica troppo spesso – modelli di business diversi da quelli editoriali? 3. Dicevamo come la crescita della lettura che abbiamo avuto lungo tutto il decennio, e che resta comunque un dato di fondo ampiamente positivo, non può far dimenticare come il tessuto dei lettori nel nostro Paese sia rimasto fragile e strutturalmente debole. Nelle regioni a indice di lettura più alto non si arriva al 60% della popolazione (che legge, teniamolo presente, «un» solo libro all’anno): 58% Trentino-Alto Adige e Friuli; 56% Liguria; 54% Lombardia; 52% Piemonte. A cui corrispondono il 30% della Sicilia e il 31% della Puglia. Questa crescita (modesta) dell’1,2%-1,3% (in media annua) avviene – lo abbiamo visto – in un contesto di profonda riorganizzazione dei modi di accedere a contenuti informativi, culturali, educativi. Di comportamenti dominati da una crescente pervasività tecnologica e da nuove forme narrative, ma anche di nuovi modi di accedere a contenuti professionali (per prendere gli estremi di tutto lo spettro editoriale). Anzi siamo in presenza di crescenti divaricazioni nei comportamenti: le donne leggono sempre più dei loro coetanei maschi; il Nord più del Sud eccetera. La crescita che abbiamo avuto nel decennio scorso (+12,6% dal 1998) è stata il prodotto più di logiche editoriali e distributive (rinnovamento del tessuto delle librerie, sviluppo di nuovi canali, nuove politiche d’autore eccetera) che di riorganizzazione (e investimenti) delle infrastrutture (apertura di nuove biblioteche, promozione della lettura). Così se mancano alcuni titoli forti (e i best seller vendono meno rispetto solo a qualche anno fa) il lettore/ cliente non legge (o legge meno) o non compra (o compra meno). I best seller (ma anche i collaterali nella loro stagione d’oro) avevano avuto la funzione di concentrare l’attenzione sul libro, sull’importanza di leggere e di entrare in libreria. Venendo meno una parte importante dell’o/erta – per minor fiuto editoriale, per cambiamenti di gusto nel pubblico che l’editore fatica a interpretare, perché l’autore non può inventare un best seller all’anno e la vena creativa si esaurisce eccetera – tutto il mercato ne risente: sul versante degli acquisti, su quello della lettura.
C’è però un altro aspetto. Il più inquietante. La contrazione che abbiamo avuto in Italia tra 2010 e 2011 sembra provenire tutta dai piani alti della lettura. Dei 723.000 lettori in meno che abbiamo a saldo 2011, il 61,8% è fatto da persone che leggono (leggevano?) più di un libro al mese (sono in proiezione 447.000 persone: -11,1% sul 2010). Poco meno di 300 mila sono i lettori medi (-2,7%). È un andamento dicile da interpretare – servirebbero delle analisi sui Wussi interni – tanto più che i forti lettori sono quelli a più alto reddito e titolo di studio. Dicile immaginare che abbiano abbandonato la lettura dei libri di punto in bianco. Chi legge (almeno) un libro al mese non può (non dovrebbe) diventare un non lettore. Certo, possono esserci stati degli slittamenti progressivi verso fasce di lettura meno intensa, ma che non ci sembra di cogliere dai dati. La domanda resta. Le risposte possono essere diverse. L’anomalia non è del 2011 ma del 2010 dove, per ragioni non meno dicili da decifrare, c’è stato un picco (anomalo?) di lettura. Oppure: si è letto meno travolti da consumi informativi diversi legati alla situazione politica e sociale italiana? A quella internazionale? Per il cambiamento nella struttura dell’o/erta editoriale? Sul versante best seller, ma anche per la crescita del fenomeno rese che può aver penalizzato l’assortimento di catalogo presente sui banchi delle librerie e a cui proprio i forti lettori potevano essere più attenti? Ma viene da osservare la curiosa vicinanza tra i 400 mila e-reader che si dicono presenti sul mercato italiano (Fonte GFK, giugno 2011), l’1,1 milioni di individui che accedono a internet da tablet (Fonte: Nielsen), e i 700 mila forti lettori in meno che riscontriamo dai dati Istat. La stessa Nielsen stimava già in 550-600 mila i lettori di e-book nel trimestre ottobre-dicembre 2010, riconfermando un dato di 520 mila acquirenti di e-book nei 12 mesi del 2010-2011 (Fonte: Nielsen per Cepell). Tanto più che i forti lettori sono (in Italia come in tutto il mondo) la parte di popolazione in cui si concentra la di/usione iniziale di e-reader e del fenomeno e-book. L’e/etto, su un mercato della lettura fragile come quello italiano, potrebbe anche essere questo.
4. Già nel periodo ottobre-dicembre 2010, il 43% dei volumi acquistati (dichiarazioni d’acquisto, a essere corretti) nei vari canali di vendita non costava più di 10 euro (se si alza la soglia a 15 euro, si arrivava al 71%). Quasi un anno dopo (luglio-settembre 2011) la soglia dei 10 euro tocca il 56% degli acquisti e il prezzo di 15 euro riguarda l’80%. Il «prezzo» più che il titolo sarà nel 2012 (non è dicile da prevedere) il principale elemento attorno a cui ruoterà molta parte del mercato: prezzo della carta, prezzo dell’e-book. Oggi molta parte del pubblico premia «la soglia psicologica dei 10 euro per le novità». «In questo modo si accetta implicitamente la sfida dell’e-book che si metterà [con un’IVA del 21% ma già proiettata verso un prossimo 23%] a cavallo dei 10 euro per le novità di peso.» (Gian Arturo Ferrari, «Corriere della Sera», 12 febbraio 2012, pp. 44-45; ma nell’«agenda digitale» del governo si prospetta, non si sa con quanto fondamento visti i problemi intracomunitari, un’IVA al 4% per i soli e-book.) Come è già avvenuto, i comportamenti di scelta e d’acquisto del pubblico dei lettori si stanno muovendo in una direzione che punta a «comprare» il prezzo (non necessariamente lo sconto o la promozione) prima ancora di autore e marchio? Un acquisto del «prezzo» assieme a una migliore qualità della confezione editoriale, e non più solo di una confezione basic come avvenne negli anni lontani dei supereconomici? Dopo tutto il cliente ha imparato in questi anni ad apprezzare forme meno spartane di discount, e le imprese della distribuzione a stare nei margini anche con un layout e un’illuminazione più accurata. Che poi questo cambiamento sia solo congiunturale – i due (?) anni in attesa della ripresa dei consumi – è tutto da vedere. Può essere plausibile, ma l’e-book potrebbe cambiare non poco le carte in tavola. Già oggi nel 48% di lettori di libri (uso i dati di Nielsen che si riferiscono alla popolazione con più di 14 anni) c’è già un 2,4% di persone (1,3 milioni) che «dichiarano» di leggere e-book. Nel 2010 erano l’1,3%: 681 mila persone. Tanto più che questi comportamenti del cliente/lettore incrociano in Italia una distribuzione che resta gravata (ancora) da importanti fattori di inecienza: incidenza delle rese, peso del magazzino. Prezzi medi bassi – che certamente rispondono alla minor capacità di spesa del lettore – significano margini più bassi per tutti: librai, distributori, editori, autori. Il tutto, a parità di inecienza. Ovvero, come ha sintetizzato Gian Arturo Ferrari: «Non saranno straordinari, ma neanche cari». Ma che e/etti avranno sulla filiera produttivo-distributiva del libro così come l’abbiamo vista riprofilarsi in questi anni? Il nodo potrebbe essere tutto qui: editoriale e autoriale assieme. Forse stiamo dedicando troppe energie (e troppi pensieri) a tecnologie, spin-off, e-book, agency model, transmedialità, self-publishing, enhanced-book, nuove forme del libro rispetto a quelle che si dovrebbero dedicare ai lettori, ai libri (e agli autori) del presente.
Giovanni Peresson, tratto dall’Almanacco Guanda