Posts Tagged ‘einaudi’

Omaggio a Pastorale americana

31 ottobre 2016

La sua stanza era in fondo a un’ulteriore rampa di scale, in una cantina, in effetti. C’erano una branda, una vecchia scrivania a scomparti assai malridotta, e un paio di sedie rigide senza poggiapiedi.
«Le sedie reggono, sta’ tranquilla» le disse. «Quasi tutto quello che abbiamo è rimediato in discarica, ma sulle sedie esigo che ci si possa sedere.»
Con un senso di sfinimento, Sally sedette.
«Che cosa sei?» chiese. «Che cos’è quello che fai? è una specie di casa di accoglienza per detenuti o malati di mente, questa?»
«Ma no. Qui accogliamo proprio chiunque arrivi.»
«Compresa me.»
«Compresa te» disse lui, senza sorridere. «Non abbiamo nessuno che ci finanzi, tranne noi stessi. Ci arrangiamo con un po’ di riciclaggio dei rifiuti che raccogliamo in giro. Quei giornali. Bottiglie. Tiriamo su qualcosa qui e là. E, a turno, sollecitiamo gesti di solidarietà.»
«Cioè, chiedete l’elemosina?»
«Mendichiamo» fece lui.
«Per strada?»
«Quale posto migliore? Sì, per strada. Ma entriamo pure in qualche locale con cui abbiamo un accordo, anche se non sarebbe legale.»
«Lo fai anche tu?»
«Non potrei chiederlo agli altri, se non lo facessi personalmente. Ho dovuto vincermi. Quasi tutti abbiamo dovuto vincere qualcosa. Poteva essere la vergogna. O magari il concetto di “mio”. Se qualcuno ti scuce un biglietto da dieci o anche solo un dollaro, ecco che spunta fuori il concetto di proprietà privata. Di chi sono quei soldi, eh? Sono miei, oppure – aiuto, aiuto – sono nostri? Se la risposta che ci si dà è sono miei, di solito la persona se li spende subito e poi torna col fiato che puzza di alcol e dice, non so come mai, ma oggi ho rimediato un centesimo. Poi capita che si senta in colpa e finisca per confessare. Oppure no, non importa. Li vediamo sparire per giorni di seguito – settimane – e poi ricompaiono quando si mette male. Qualche volta invece li vedi battere le strade per conto loro, facendo sempre finta di non riconoscerti. E non tornano più. Il che va benissimo. Sono i nostri ex allievi, diciamo così. Se si crede nel sistema, ovvio.»
«Kent…»
«Da queste parti mi chiamo Giona.»
«Giona?»
«L’ho scelto io. Avevo pensato a Lazzaro, ma mi pareva troppo compiaciuto. Puoi chiamarmi Kent, se preferisci.»
«Vorrei sapere che cosa è successo alla tua vita. Non tanto cosa ci fai con queste persone…»
«Queste persone sono la mia vita.»
«Sapevo che l’avresti detto.»

Alice Munro, «Buche-profonde», Troppa felicità, Einaudi, traduzione di Susanna Basso

Manganelli su Doris Lessing

26 luglio 2016

Caro Davico,
[…] Doris Lessing: l’aspra sudafricana (The Four-Gated City) arriva con 700 pagine, un aneddoto progressista e psicologico da giustapporre ad altri cinque volumi. La Lessing è una discendente degli amori ancillari di Victor Hugo, ma ha preso chiaramente dalla proava. La sua pagina sa di virtuosa varichina, i suoi periodi vanno in giro con le calze ciondoloni; e poi questa donna ha qualcosa da dire, e in meno di tremila pagine avrebbe l’impressione di essere rimasta un po’ sulle generali. Nel nostro mondo editoriale si sente la mancanza di Baldini & Castoldi o del vecchio Corbaccio in tunica gialla […].
Spero di venire presto. Affettuosamente
Giorgio Manganelli
1970

Centolettori. I pareri di lettura dei consulenti Einaudi 1941-1991, a cura di Tommaso Munari, Einaudi, 2015

La proprietaria della casa

24 luglio 2016

Ero l’unico della famiglia ad aver passato l’intera infanzia lì dentro. Da ragazzino, quando i miei genitori dovevano uscire, contavo quanti secondi mancavano al momento di prendere pieno ancorché temporaneo possesso della casa, e finché rimanevano fuori mi dispiaceva che dovessero tornare. Da allora in poi, per decenni, osservai sdegnato l’addensamento sclerotico delle foto di famiglia, mi irritai quando mia madre mi usurpò cassetti e armadi, e alla sua richiesta di far sparire le mie vecchie scatole piene di libri e carte, reagii come un gatto domestico al quale si volesse inculcare uno spirito comunitario. Mia madre, a quanto pareva, era convinta che quella casa le appartenesse.

Jonathan Franzen, Zona disagio, Einaudi, traduzione di Silvia Pareschi

C’è anche questo tipo di libraio

18 Maggio 2016

La casa dove abitava era appartenuta a Dreyfuss, il quale aveva versato l’anticipo grazie a un’eredità in cui, dopo il suicidio della madre, aveva anche aperto un negozio di libri usati in una traversa di Piedmont Avenue. La casa aveva rispecchiato le condizioni della mente di Dreyfuss: per molto tempo abbastanza ordinata, poi sempre più ingombra di oggetti eccentrici come jukebox d’epoca, e infine piena zeppa di documenti per la sua “ricerca” e di cibarie per un “assedio” imminente. La sua libreria, che la gente si divertiva a visitare per l’esperienza di parlare con una persona più intelligente di loro (perché nessuno era più intelligente di Dreyfuss; aveva una memoria fotografica e sapeva risolvere a mente problemi scacchistici e logici di alto livello), si era riempita di odori putrescenti e paranoia. Dreyfuss ringhiava ai clienti mentre batteva gli acquisti alla cassa, e poi si mise a urlare contro chiunque entrasse, e poi cominciò a lanciare libri addosso alla gente, cosa che portò ad alcune visite della polizia, e di conseguenza a un’aggressione, e di conseguenza al suo ricovero forzato. Quando uscì, con la prescrizione di un nuovo cocktail di farmaci, Dreyfuss scoprì che il negozio non c’era più, il magazzino era stato liquidato per pagare l’affitto arretrato e i danni veri o inventati, e la casa era stata pignorata.

Jonathan Franzen, Purity, Einaudi, traduzione di Silvia Pareschi

L’amore non è un rapporto alla pari

17 Maggio 2016

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Per un certo tempo dopo il matrimonio era stata oggetto di un tale desiderio che non le dispiaceva quando finalmente il marito si addormentava. Ad un certo punto, però, lui aveva cominciato a dormire subito ed era da allora che lei aveva preso a star sveglia più di frequente, e a fissare il buio, interrogandosi sulle peculiarità degli uomini, ponendosi dubbi sul futuro, fino a una notte in cui aveva scosso il marito per svegliarlo e comunicargli il proprio desiderio. Magnanimo, lui le aveva messo una delle sue lunghe braccia bianche intorno alla vita; lei si era girata verso di lui, fremente di gioia e di aspettativa, fiduciosa. Ma non era successo altro, e in un attimo il marito si era riaddormentato.
Fu la notte in cui Mrs Bridge decise che se il matrimonio poteva anche essere un rapporto alla pari, l’amore non lo era.

Evan S. Connel, Mrs Bridge, Einaudi, traduzione di Giulia Boringhieri

La linea editoriale

2 aprile 2016

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Spero che quanto tu verrai a Milano e a Torino poterai un po’ di mordente per incanalare questa faccenda sulla linea giusta, che vuole essere una linea culturale seria e non una improvvisazione giornalistica e che deve rappresentare una fusione tra le esigenze di cultura umanistica e le esigenze di una cultura che potremmo chiamare tecnica. La prima potrebbe essere rappresentata dalla vecchia tradizione della Casa editrice, la seconda dalla tendenza Politecnico-vittoriniana. Finiamola una buona volta di chiuderci in gruppi, gruppetti e sfruttiamo questo strumento rappresentato dalla Case editrice Einaudi che dovrebbe pescare nell’humus più fertile di tutte le tendenze vive della cultura italiana nei suoi diversi centri per fonderli con un’unica larga direttiva che possa veramente rispondere alle esigenze di tutti.

Giulio Einaudi a Cesare Pavese, 11 maggio 1946

Da Lila a Gilead

6 marzo 2016

 

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Lila sapeva come sarebbe andata davvero. Un giorno lei e il bambino sarebbero stati a guardare mentre calavano John Ames nella fossa, Mrs Ames da una parte e il padre, John Ames, dall’altra, insieme alla madre e al piccolo John Ames e alle sue sorelle, un piccolo giardino di Ames, tutti interrati là in attesa della resurrezione. Sapeva che era assurdo, ma se li immaginava sempre che spuntavano un giorno di giugno, proprio in mezzo alle rose, senza spezzare un gambo né ammaccare un petalo. Si stringevano la mano, si davano pacche sulle spalle, troppo presi dalla circostanza per notare i suoi fiori. Tranne Mrs Ames, che si abbassava per coglierne uno e mostrarlo alla bambina: Questa è una rosa. Guarda com’è fresca, senti come profuma. La teneva lontana dalla mano della bambina perché nel mondo che avevano lasciato c’erano le spine. Quel giorno sarebbe potuto arrivare tra mille anni. Ma presto, prima che raggiungesse l’età dello sviluppo, il bambino, in piedi al suo fianco, le avrebbe chiesto dove sarebbero stati sepolti loro, lui e lei, perché i posti erano tutti occupati, e Lila avrebbe risposto: Fa niente. Vagheremo un po’. Fino ad arrivare in nessun luogo, e ci troveremo bene. Ho degli amici là.
Avrebbe mantenuto tutte le promesse fatte, il bambino avrebbe imparato Santo, santo, santo e il Salmo 100. Avrebbe pregato prima di mangiare, a colazione, pranzo e cena, finché lei avesse avuto voce in capitolo. Ogni giorno di ogni anno che avrebbe vissuto a Gilead avrebbe ricordato ciò che era accaduto proprio quel giorno, ripassandolo mentalmente così da poter dire, prima o poi: Una volta, quando ancora non camminavi, lui ti portò a pesca. Teneva la canna e il cestino in una mano e te nell’incavo del braccio e si incamminò lungo la strada nel sole del mattino, a lunghi passi come un uomo più giovane, parlandoti, ridendo. Un’ora dopo tornò, posò il cestino vuoto sul tavolo e disse: – Abbiamo piantato la canna e abbiamo guardato le libellule. Poi ci siamo stancati un po’ –. E che sguardo le aveva rivolto, dal dolore che gli dava la felicità. Come se le dicesse: Quando sarà abbastanza grande da capire, raccontagli del giorno in cui siamo andati a pesca. Allora lei gli disse: – Dovresti mettere tutto per iscritto –.

Marilynne Robinson, Lila, Einaudi, traduzione di Eva Kampmann

Se uno non ha il minimo talento perché si ostina a scrivere?

22 febbraio 2016

La qualità più importante per uno scrittore, non c’è nemmeno bisogno di dirlo, è il talento. Se uno non ha il minimo talento letterario può scervellarsi finché vuole, metterci tutto il suo ardore, non scriverà mai nulla di valido. Più che una qualità necessaria, questa è una condizione preliminare. Senza carburante, anche l’automobile più bella non va avanti.

Murakami, L’arte di correre, Einaudi, traduzione di Antonietta Pastore

L’importante è la continuità, nella corsa, nella scrittura

15 gennaio 2016

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Da quando sono arrivato alle Hawaii mi alleno quotidianamente. Sono già due mesi e mezzo che ho ripreso questo stile di vita: correre senza saltare nemmeno un giorno, a meno di qualche impedimento eccezionale. Stamattina ho corso per un’ora e dieci minuti ascoltando sul mio walkman due album dei Lovin’ Spoonful che ho registrato su MD, Daydream e Hums of the Lovin’ Spoonful.
Sono nella fase in cui devo lavorare sulla resistenza e aumentare la distanza che percorro, mentre il tempo che impiego per il momento è irrilevante. Basta che copra in silenzio il numero di chilometri che mi sono prefisso, mettendoci le ore necessarie. Se desidero arrivare più lontano aumento in proporzione la velocità, ma se accelero il ritmo, riduco la durata dell’allenamento, perché l’essenziale per me è ritrovare domani il piacere fisico che provo oggi. Quando scrivo un romanzo è fondamentalmente la stessa cosa. Anche se sento che potrei continuare, a un certo punto poso la penna. Così mi sarà più facile mettermi al lavoro il giorno seguente. Ernest Hemingway ha detto qualcosa di simile. L’importante è la continuità – non spezzare il ritmo. Nel caso di un’opera molto lunga è fondamentale. Se si riesce a mantenere un ritmo costante, qualche risultato bene o male lo si ottiene. Ma bisogna insistere finché il volano non comincia a girare regolarmente a velocità fissa.

Murakami Haruki, L’arte di correre, Einaudi, traduzione di Antonietta Pastore

La vita

10 gennaio 2016

Sylvia portò Mr Crozier in uno chalet in affitto in riva al lago, dove lui morì poco prima della caduta delle foglie.
La famiglia Hoy fece fortuna, come spesso succedeva a chi aveva un’officina meccanica.
Mia madre lottò con un male debilitante, che mise fine a tutti i suoi sogni di diventare ricca.
Dorothy Crozier ebbe un ictus, ma si riprese e divenne celebre per aver iniziato a comprare dolcetti di Halloween da consegnare ai fratelli minori di quei bambini che aveva cacciato dalla porta di casa.
Io sono diventata adulta, e poi vecchia.

Alice Munro, “Certe donne”, Troppa felicità, Einaudi, traduzione di Susanna Basso