Posts Tagged ‘emanuele tonon’

Facevamo le scenette

16 settembre 2017

Nel Giardino l’uomo e la donna erano nudi senza vergogna, erano una cosa sola. Noi facevamo le scenette, ridevamo per un mezzo bicchiere di vino in quella congraga di eunuchi pelosi truccati da quello che più ci mancava e che cercavamo nella mammella della Vergine che suggeriva il nostro Dio bambino. Ci si induriva il pene e ne aveamo orrore, a guardare la Vergine con la mammella esposta.
Emanuele Tonon, “Fervore”, Mondadori

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Tutto quell’amore inutile

11 marzo 2016

Eravamo così felici, così felici per niente, amavamo così sterminatamente tutto e tutti da essere sacri solo per quell’amore dilapidato, solo per le nostre gambette nude sotto al saio, quella vanità da passerella che portavamo in giro, le nostre gambette pelose sotto alla gonna santa. Tutta quella sterminata felicità, tutto quell’amore inutile.

Emanuele Tonon, Fervore, Mondadori

Eravamo una famiglia

3 marzo 2016

A rotazione ognuno si prendeva cura di una parte del convento. Era tutto un andirivieni di scope e stracci. Eravamo sedici maschi che pulivano i loro segni in quello spazio sacro, i loro scarti. Qualcuno non sapeva nemmeno tenere in mano una scopa e non avrebbe mai imparato a farlo. Finite le pulizie ci si preparava per lo studio. Si tornava in cella a prendere i quaderni e la penna, si scendeva nella sala dello studio, accanto alla biblioteca conventuale. Non pativamo la gogna dell’accademia. Stavamo lì, composti, con i quadernoni a righe aperti sui banchi ad appuntare le parole del frate di turno che ci impartiva lezioni di storia del francescanesimo, di storia della spiritualità, di teologia ascetica e mistica, di psicologia della vita conscrata. Tu divoravi i libri. Avevi fame, volevi conoscere. Nell’anno di noviziato avevi scoperto Dostoevskij, Melville, il potere della parola che proiettava la tua mente verso il silenzio, verso la liberazione.
Si arrivava, più o meno storditi, a mezzogiorno. Raccoglievamo i nostri quaderni, lasciavamo la biblioteca per tornare brevemente in cella. E poi di nuovo giù a precipizio, in chiesa per la preghiera dell’Ora Sesta. Lasciavamo il Coro per il refettorio, per il pranzo. Chi mangiava piano, chi voracemente. C’erano i secchi e c’erano i grassi. C’era chi ingrassava solo per il vento e chi assottigliava solo per il vento. Eravamo una congrega di sconosciuti che si erano trovati, casualmente, arrivando da terre diverse, alla stessa tavola. Il cibo è comunione. Coi gomiti poggiati sulla stessa mensa percorsa e ripercorsa da generazioni di frati, mangiavamo le fave crude con l’olio e il sale, alla stessa tavola bevevamo il vino centellinato che altri frati avevano provveduto a spremere dal grappolo, a pestare nella tinozza. Dormivamo uno accanto all’altro, in quella sacra promiscuità. Ci inventavamo il mondo e la vita, stavamo tutti dentro quella sacra rappresentazione. Ci amavamo come si amano gli angeli, quegli esseri alati che hanno portato la confusione in questo mondo. Qualcuno, timidamente, provava ad amoreggiare con un altro: c’era chi faceva il maschio e chi faceva la femmina. Chi faceva la moglie e chi il marito. Chi la madre e chi il padre. Chi il figlio, chi il nipote. Eravamo una famiglia.

Emanuele Tonon, Fervore, Mondadori

Portavamo nella nostra carne di foca il peso di una felicità impossibile

4 febbraio 2016

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Saltavamo come foche impazzite, e non sapevamo saltare. Saltavamo come foche su un campo minato, pieni d’amore per quel Dio che ci avevano insegnato a adorare. Stavamo fuori da quel mondo che aveva misconosciuto l’adorazione, che ne aveva orrore. Adoravamo un ciborio, ci squagliavamo davanti a una pala d’altare, ci faceva male tutto, sanguinavamo dal costato, inzuppavamo di miele una maglia della salute che conservava memoria del sudore di frati ormai abitatori dell’altro mondo, ormai depositati nel cimitero conventuale. Portavamo nella nostra carne di foca il peso di una felicità impossibile e saltavamo sul prato goffi, goffi come solo gli angeli e le foche sanno essere. Ma non sapevamo niente. Prendevamo in mano il badile e lo affondavamo nella terra, ci si inspessivano i palmi, ci facevano male, a sera. C’erano quelli così delicati che cadevano a terra e squittivano come topolini, c’erano quelli così forti che zappavano anche per altri due topolini; eravamo quel bestiario sacro, quei campi che aprivamo con la zappa nell’attesa di una nascita. E gli squarci che facevamo nella terra, per gettarci poi il seme, andavano richiudendosi, lasciavano fermentare il seme che poi riapriva la terra, buttava davanti ai nostri occhi quella meraviglia di germoglio che sarebbe diventato frutto, che ci avrebbe nutriti. Tra la terra e il cielo c’erano le nostre bocche ansiose, il nostro bisogno di ruminare, di bere. C’erano le nostre preghiere inutili di cui il mondo aveva bisogno per diventare grano da macina, per diventare pane, perché tutto fosse ricondotto a quel Dio fattosi pane, quel Dio che adoravamo, che amavamo come sposi impazziti di desiderio, gelosi fino alla malattia, fino al furore con cui ci cingevamo i fianchi, ci spremevamo i lombi, noi sterili, noi figli di un batterio diventato pesce, noi pesci zampettanti, noi foche da circo, eunuchi che avevano l’ardire di salvare il mondo solo salmodiando e zappando, così certi della fine da indossare tuniche marrone, da ridurci ad angeliche scimmie sterili nell’attesa di un imminente altro mondo, di un regno di sola felicità.

Emanuele Tonon, Fervore, Mondadori

Tu sei la mia mamma sbriciolata

13 luglio 2015

la luce prima, emanuele tonon, oblique studio

Eri la mia regina. Mi dicevi, prima di andare a dormire, sorridendo: mi ritiro nelle mie stanze. E le tue stanze erano questa piccola cucina e questo piccolo salotto che ti faceva pure da camera da letto. La nostra vita insieme sembrava stesse prendendo il giusto verso. Invece, non era vero niente.

Amore, in questo tempo che ci separa, in questa mia solitudine di orfano, voglio provare a dirti le ultime parole che so. Eri arrivata nel mondo in un paesino della Calabria, un paesino tutto in salita. Dalla cima del monte potevi dominare con lo sguardo la costa tirrenica e quella ionica. Raggiungere la vetta del paesino partendo dalla tua casa era questione di polmoni e di gambe. Chissà come salivi tu quelle stradine, come parlavi con le amiche, come nascondevi la meraviglia del tuo corpicino, come vivevi umiliata da quel mondo di uomini. Io ho imparato quelle strade nelle mie estati di bambino, quando scendevamo dal profondo Nord verso quell’altro mondo che era la Calabria. Eri la prima di cinque figli. Due, te compresa, sono morti. Le sole cose che so di te bambina e adolescente me le hai raccontate a cucchiaini. Io, tuo figlio che ti scrive, di te conosco solo le poche cose che mi hai raccontato vincendo il tuo pudore di donna abituata al silenzio. Le altre cose le ho raccolte, le ho mendicate in giro, ne ho fatto tesoro. Ci sono misteri di te che non potrò mai sapere. Voglio ricomporre il tuo corpo sezionato, svuotato. Tu sei la mia mamma sbriciolata, spezzettata. Posso parlarti solo da questi pezzi di te che hai lasciato in giro per il mondo, tu che faticavi a varcare l’ingresso di questa casa dalla quale sei stata sottratta, improvvisamente. Io ho bisogno di fare memoria di te, di renderti la vita che mi hai dato, almeno così. Posso amarti solo nella ricomposizione di te, nel riempimento di te, lasciandomi andare allo scavo nella memoria, alla ricerca dell’introvabile tra i muri freddi di questa casa dal soffitto basso. Le cose di te, amore, non sono ferme laggiù, dove stai distesa: sono in giro per il mondo, sono in questa casa, scavalcano, precedono, guardano indietro me arrancare, me scavare, me stupito di trovare niente. Lo scavo inutile nella memoria: gli anfratti, i pertugi, i cunicoli. Il tempo obbliga alla distanza, esige l’accettazione dell’assenza, non ammette cedimenti. A me cedono le gambe, mamma, posso ricordarti solo in ginocchio.

Emanuele Tonon, La luce prima, Isbn edizioni

Sic: ci hai obbligati a immaginare quello che sarebbe potuto essere

23 ottobre 2014

Ci hai consegnata questa breve memoria di te. Ci hai obbligati a immaginare quello che sarebbe potuto essere, a inventarci una storia del motociclismo con te in griglia. In verità nel circo ci si dimentica tutto in fretta, o almeno in fretta si finge di dimenticare. Cosa sarebbero, oggi, le corse se ci fossi tu? Starebbero tutti lì a battibeccare, a dire che sei pericoloso per il solo fatto che guidi una moto dovendo sopperire alle limitazioni di una fisicità eccessiva per il motociclismo coll’estro e l’aggressività. Chi corre, oggi, l’uomo o la macchina? Chi fa la differenza, oggi, l’uomo o la macchina?

Ti avevano insegnato a puntare quel centimetro di spazio attraversato il quale si entra nell’energia oscura, quello scoppio inconoscibile che possiamo solo immaginare. Oggi è tutto chiaro, si corre nella materia conosciuta, nel nichilismo certo di un’erogazione controllata. Come avresti potuto continuare tu a stupirci? Chi ti avrebbe permesso di farlo? Il grande circo è stato spesso un grande spettacolo pianificato. Piloti cresciuti perché facenti parte di un progetto ultrasponsorizzato, protetti da strutture che fanno girare grandi quantità di denaro. Piloti che, in un modo o nell’altro, devono vincere, con aiuti di ogni tipo. Tu sei arrivato alla vittoria solo perché eri un campione. Sembra abbiano fatto di tutto per non farti crescere, come pilota. Già dovevi combattere con i tuoi ottanta chili, con la tua altezza, con tutto quanto ti faceva perdere, inevitabilmente, tanti decimi sul dritto. Non avevi strutture, non avevi sponsor. Avevi tuo padre e gli amici. Avevi anche tanti nemici. E avevi l’invidia di molti a farti correre controvento. Per questo sei diventato maestro dell’aria, finché hai potuto ci hai regalato lo spettacolo epico di chi vince partendo da dietro, quell’ultimo che diventa primo per solo coraggio, per solo talento. Non si vince per solo talento, mai. Si vince per un brodo perfetto, dove basta un solo grano di sale in più o in meno a rovinare tutto. La vita è la massima invenzione di esseri destinati a quell’altra invenzione che è la morte.

Emanuele Tonon, I circuiti celesti, 66thand2nd

La sete verticale di Tonon

13 gennaio 2014

L’intero racconto è incendiato dalla sete «verticale» dell’autore. Nell’universo di Tonon la trascendenza non può prescindere dalla carne, Dio stesso non offre una metafisica consolazione dal male e dalla morte. E’ in questo mondo desolato che l’epica antica risorge nella vita, eccezionale e umanissima, di Marco Simoncelli: «Non si vince per solo talento, mai. Si vince per un brodo perfetto, dove basta un solo grano di sale in più o in meno a rovinare tutto. La vita è la massima invenzione di esseri destinati a quell’altra invenzione che è la morte».

via“I circuiti celesti” di Emanuele Tonon.

Marco Simoncelli ha vinto poco ma è come se avesse vinto tutto.

28 dicembre 2013

Ognuno ha dovuto sacrificare qualcosa al proprio sogno, ma è un sacrificio che fa sgorgare pura felicità. Il sogno di vincere con le moto grosse per Marco. Il sogno di pubblicare libri per me. Il sogno ti può schiacciare se smetti di sognarlo. Il sogno deve essere sempre sognato per sfavillare meraviglia. Continuo a scrivere perché è come se dovessi ancora esordire, perché è come se non avessi pubblicato niente. Solo così posso continuare a stare nel fervore. Ho vinto poco, praticamente niente, ma scrivere è già la mia vittoria. Marco ha vinto poco ma è come se avesse vinto tutto.

Emanuele Tonon, I circuiti celesti, 66thand2nd

Felici da dimenticare

16 novembre 2013

I grandi, dentro il recinto, si ubriacavano, noi, furtivi, ci aggiravamo armati di taniche e tubo di gomma. Svitavamo il tappo del serbatoio, infilavamo il tubo trasparente, un soffio forte e poi via di aspirazione. Ci arrivava in gola, la miscela, infilavamo il tubo fulmineamente nella tanica, facevamo scorrere il liquido prezioso mentre sputavamo i residui che ci sballavano per qualche secondo. Eravamo così poveri che la miscela era oro. Ma eravamo felici, ci era dato di dimenticare i banchi di scuola, ci era dato di dimenticare la fabbrica, i campi. Tornavamo a casa stonati, attraversando il buio delle stradine di campagna, molti di noi finivano inevitabilmente nei fossi. Qualcuno è andato a morire, qualche anno dopo, dilaniandosi o carbonizzandosi contro un muro, quando giunse il tempo delle automobili.

Emanuele Tonon, I circuiti celesti, 66thand2nd

Vincere con facilità

24 ottobre 2013

Il talento non conosce calcolo, nell’agone. Guardare solo avanti, in attesa di alzare gli occhi al cielo, in una verticalità che, vada come vada, non potrà mai conoscere sconfitta. Cosa dovrebbe fare lo scrittore se non questo? Kafka si trasformava in una blatta, si lasciava perforare dalle mele, per puntare solo al cielo. Bisogna commuovere le stelle, oppure tutto è vano, tutto è solo intrattenimento, come fare i balli fitness in riva al mare a ferragosto, tutti campioni di ballo sterminati dalla voglia, dal bisogno di nientificarsi sulla spiaggia, lontani da qualunque gloria perché sta dentro l’unica gloria possibile. E allora chi guarda al cielo e prova a commuovere le stelle diviene un mostro, uno che può far crollare il sistema infallibile del ballerino da spiaggia, del venditore di case ammuffite. Vincere con facilità è lo sport per eccellenza di questo tempo terminale, uno sport pieno di campionissimi.

Emanuele Tonon, I circuiti celesti, 66thand2nd