
Diversamente da me, che a passeggio per gli stabilimenti ho avvertito l’influsso benefico ma purtroppo sfocato di ciò che fu, Chief trovò dinanzi ai suoi occhi la prova che almeno una volta nel recente passato, e forse l’unica in Italia dopo il Rinascimento, è stato realmente possibile concepire l’attività industriale non come mero strumento di possesso del mondo, al fine di guadagnarsi nuovi spazi di dominio con bulimia da licantropi, ma piuttosto come sistema d’influenza sul mondo, e sui luoghi fisici direttamente controllati attraverso lo strumento dell’economia, baricentro magnetico che secondo un principio atavico di etica e giustizia doveva restituire molti dei sacrifici pretesi alle forze che lo alimentavano, uomini e territorio, e che col loro sforzo lo rendevano possibile ed efficiente. Sottoforma di benessere e alta qualità della vita. Solo attendendo a questi principi, per Olivetti, l’idea d’industria come mezzo e di uomo come fine avrebbe avuto senso.
Non c’era utopia in quella visione, e la prova è proprio Ivrea.
Ivrea è il resoconto fisico, esistente e incancellabile, che di fronte a una volontà umana precisa, di fronte a un’autentica e sincera visione del mondo e della società, fu possibile, per quasi trent’anni, coordinare l’azione alle idee, e che l’uomo, anche se dotato e in grado di esercitare potere, prestigio e denaro, non è per natura improntato al male né alla consuetudine dell’assoggettamento e dello sfruttamento smoderato, e che anzi, attraverso le politiche concrete si poteva agevolmente dimostrare la negazione dell’esistenza di una malvagità intrinseca nell’uomo, il pensiero centrale e fin troppo ricorrente nella filosofia politica moderna, da Machiavelli e da Hobbes fino a Kant.
A Ivrea non si metteva in discussione il sistema produttivo che frattanto si era affermato su scala planetaria come macchina mondiale, cioè quello capitalista via via sempre più libertino.
Adriano Olivetti non era un rivoluzionario tout court.
Apparteneva all’élite, è innegabile, ma non possedeva spirito conservativo di casta, era culturalmente onnivoro, fuorché, si dice, per una certa idiosincrasia alla musica. Proponeva una visione etica del modello occidentale. Dall’analisi capillare della sua vita d’intellettuale e d’industriale appare evidente che nel suo animo fosse del tutto assente l’enzima orientato all’accumulazione, o l’idea di governare il territorio con logiche feudali attraverso qualsiasi forma di autoritarismo.
Perciò Olivetti, e l’agente Chief lo conferma nel suo rapporto, is very sensitive to the danger of comunist control: intuiva che nell’accezione concreta, nel socialismo reale, ovvero quella Russia staliniana e della sua area d’influenza, il modello produttivo in uso si modificava solo leggermente dal capitalismo reale, per lo più nei crismi della sua organizzazione esteriore e interna; ma nel profondo, specie nel suo misurarsi con il mercato estero, e soprattutto nei meccanismi di funzionamento sostanziali, si tramutava in un rigido capitalismo di stato altamente burocratizzato e accentratore, nient’altro che un monolitico apparato di potere gestito da pochi individui mimetizzati da stato che mirava a sopravvivere come dominio piuttosto che a migliorare le condizioni di vita collettive, o in assoluta distonia con le sue premesse ideologiche, di liberare l’uomo dalla lotta feroce per la sopravvivenza.
Le linee di produzione Olivetti, maestose e rifulgenti della luce del sole, cangianti come cartine tornasole in grado di assecondarne tutti i furori piromani, così come le lunatiche timidezze invernali trasmutando ogni luminescenza in un riflesso dai colori differenti, erano immensi contenitori di uomini, rifinite come vagoni ipermoderni, veri gioielli di tecnologia. E proprio come vagoni di prima classe, erano aperte all’invasione della luce, e soprattutto, dello sguardo altrui.
Chief ebbe sicuramente modo di girare liberamente per Ivrea, quasi come in una sorta di esperimento virtuoso in divenire, abbandonandosi all’habitat naturale di un voyeur dell’idealismo, un vero e proprio paradiso per studiosi di natura umana se si è disposti ad ammettere che come tali si possano considerare, in una certa accezione, gli agenti segreti.
Con pudica gentilezza, allora come oggi, le sale per la costruzione e per il collaudo, piene di postazioni di legno e di meccanismi di collaudo, concedevano alla vista di chi le popolava nei grandi spazi interni nelle ore lavoro, il godimento del panorama, per mezzo d’innovative pareti a vetrata, il pan de verre teorizzato da Le Corbusier e messo in partica dagli architetti milanesi Figini e Pollini, ideatori di muraglie trasparenti che annullavano i confini psicologici tra le sale di assemblaggio e i monti della Valle d’Aosta, monumentali, testimonianze empiriche dell’esistenza di un Dio super partes, intento a lasciarsi contemplare nella maestosità irriducibile delle rocce, quasi che le tracce di sé risiedessero nei chiaroscuri da sindone scavati nei fianchi delle montagne, in immagini rupestri sfocate, nei calchi di nervature umane tratteggiate dalle piogge e dalle alabastrine bande tracciate dalla neve.
I vetri, insomma, concedevano alla curiosità di chi passeggiava da quelle parti, o di chi, in controluce, decideva di fermarsi per pochi attimi a contemplare quella sintesi di male e bene, di coercizione e volontà, di alienazione e realizzazione, di decoro e pavidità che può essere l’uomo, specie se immerso nell’apparato produttivo che lo trascende, e che in apparenza lo sovrasta, se non intervenisse la natura a ristabilire l’equilibrio.
Ecco perché a Ivrea è quasi come se ai piedi della Serra Morenica lunga più di venti chilometri, davanzale levigato in superficie da una mano artigiana o meglio ancora da un tornio, o da una rettificatrice, si vada lentamente innalzando, a ogni sorgere del sole, un’immensa casa degli specchi, un geometrico diamante opalino volto a creare il più perfetto gioco di rimandi tra la propria anima profonda, per nulla facile da riconoscere nelle difficoltà reali e nei meccanismi che l’hanno forgiata, e quella del luogo biologico in cui la fabbrica sorge e di cui è cuore pulsante, il canavese. Affinché l’anima della terra originaria e la propria, di fabbrica inconsueta per gli standard convenzionali, stabiliscano un rapporto basato sul continuo e ininterrotto permearsi.
A Ivrea regnava soprattutto un principio, la trasparenza.
Giancarlo Liviano D’Arcangelo, Invisibile è la tua vera patria, il Saggiatore