Posts Tagged ‘Keller editore’

La scrittura non difende più dalla follia

17 novembre 2016

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A ogni parola la mia pazzia aumenta, si slega da me, esce dal mio controllo. Scrivevo su pezzetti di carta, come commettessi un crimine. Forse che ormai la scrittura non mi difendeva più dalla follia, dalla morte, da me stesso. Dovevo allontanarmi da questa posizione di narratore di poco conto, montando sul palco dovevo incarnare il vero ruolo dello spettacolo. Da una tasca senza fondo della mia borsa, tirai fuori il mio affilato coltello cecoslovacco con manico di legno. Per legittimare, anche solo un poco la sua presenza piena di minaccia, lo posai accanto alla lettera d’addio di mia moglie. Sapevo che non avrei aperto la busta in quel momento; il coltello mi era molto più vicino che le frasi di separazione. Era freddo, appuntito, sapeva il fatto suo; lontano dal privato e dal sentimentale.

Aslı Erdoğan, Il mandarino meraviglioso, Keller editore, traduzione di Giulia Ansaldo

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Ragazze, sorelle, trapunte, copriletti

2 ottobre 2016

Quando arrivammo a casa, con la ghiaia che scrocchiava sotto le ruote della macchina, mi chiese se poteva andare in bagno.
«Certo», le dissi, vagamente emozionata all’idea di averla in casa, come fosse un dignitario straniero in visita. La accompagnai al bagno più bello, che era accanto alla camera dei miei. Tamar ci sbirciò dentro, vide il letto e arricciò il naso. «Che trapunta orrenda», disse sottovoce.
Fino a quel momento era stata semplicemente la trapunta dei miei, ma di colpo provai una forma di vergogna per procura nei confronti di mia madre, della trapunta pacchiana che aveva scelto, che era perfino stata tanto stupida da trovare carina.

Emma Cline, Le ragazze, Einaudi Stile libero Big, traduzione di Martina Testa

Mamma ci condusse in una camera dove c’erano due gemelli coperti da copriletti blu identici che emanavano una lucentezza artificiale. Mi aspettavo che si sarebbe alzata una nuvola di polvere una volta seduta sopra. In seguito, quando avrei avuto un sacco di tempo per osservare ciascun oggetto della casa, i centrini che sembravano fatti all’uncinetto ma in realtà erano di plastica, i fiori profumati ma finti, i portarotolo della carta igienica decorati, pensai che perfino quei copriletti parlavano dell’infelicità e della vulnerabilità della signora Edwards. Solo una persona che non aveva idea di come essere a proprio agio e felice nel mondo avrebbe potuto scegliere un tessuto così sgradevole, scivoloso e carico di elettricità statica per adornare la camera degli ospiti.

Frances Greenslade, Il nostro riparo, Keller editore

Avere la casa di qualcun altro tutta per sé

30 agosto 2016

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«Fai come vuoi» disse Beatrice e tirò la sua piccola valigia bianca da sotto il letto, spazzò via la polvere e piegò vestiti che non le avevo mai visto prima in una pila ordinata sul divano. Beatrice si metteva sempre e solo due completi: pantaloni elasticizzati blu e un cardigan avorio o pantaloni elasticizzati grigi e un cardigan verde. Ma quel giorno scoprii che aveva un armadio pieno di altre cose: tailleur-pantaloni dai colori pastello, camicette di crêpe con fiocchi sul colletto, e foulard a motivo cachemire. Mentre faceva la valigia parlava tra sé e sé. Aveva preso quest’abitudine subito dopo la partenza di Jenny, diceva cose di poco conto tipo: «Meglio fare il lavaggio a secco» o «dove ho messo l’ombrello?» Era una cosa che mi irritava, ma del resto tutto ciò che la riguardava mi irritava, mi
irritavano perfino i condimenti che teneva in frigo e non usava mai. Sapori antiquati, salsine alla menta e salsa HP – prima o poi dovevano per forza andare a male, per esempio dopo tre anni. Chiuse la valigia e la piazzò vicino alla porta due giorni prima della partenza.
Avrei dovuto trovare qualcosa di gentile da dirle. Avrei dovuto essere più generosa, ma ero felice di vederla partire.
Avere la casa di qualcun altro tutta per sé non è la stessa cosa che avere la propria casa tutta per sé. Eppure, una soffocante nuvola di rabbia e tacite accuse mi avvolse nel  momento in cui lei fu ai piedi delle scale. Mi feci una cioccolata calda e guardai Get Smart con i piedi appoggiati sul tavolino. Mi fumai una sigaretta, una di quelle di Jenny. Non c’era alcol in casa. Per un attimo pensai che sarebbe stato carino comprarne un po’ ma poi lasciai perdere perché avrebbe implicato parlare con delle persone.

Frances Greenslade, Il nostro riparo, Keller editore

Esplosioni

20 gennaio 2016

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Non posso dire che mamma avesse torto sulle mie capacità di badare a me stessa. Non ci misi molto a riconoscere in Bea Edwards la bomba a orologeria che era. Dopo appena tre settimane dal nostro arrivo capii che ciò che poteva farla esplodere era imprevedibile. Toccava a me apparecchiare la tavola la sera. A volte Ted rientrava ben oltre l’ora di cena, quando uno dei suoi compagni di bevute lo riaccompagnava a casa e lo spingeva su per la rampa di compensato fino alla porta. Era capace di farlo anche da solo se non aveva alzato troppo il gomito.
Una sera avrei fatto meglio a non chiedere se sarebbe tornato per cena. «Devo apparecchiare anche per Ted?» domandai a Bea mentre disponevo i piatti in tavola.
«Come faccio a saperlo?» rispose bruscamente.
Ma questo era niente. Questa risposta insofferente era la normalità per Bea. Fu più tardi, mentre lavavamo i piatti e io le passai anche il piatto pulito, inutilizzato, di Ted, che Bea esplose. Le sue mani insaponate emersero bruscamente dall’acqua calda. Si strappò gli occhiali appannati dalla faccia, li scagliò a terra, dove andarono a sbattere contro la griglia del frigorifero, e sbraitò: «Ho così poco da fare qui? così poco? così poco?» I suoi occhi pallidi schizzarono fuori dalle orbite, gonfi di lacrime, nel bel mezzo della macchia rossa che era diventata la sua faccia. «Ora devo anche lavare i piatti puliti! Devo lavare pure i piatti che non sono stati usati! È così chefate le cose a casa vostra? Eh?» Cominciò ad arraffare dagli armadietti piatti e piattini puliti, tazze e scodelle pulite, e ad ammucchiarli a casaccio accanto al lavandino. Si fermò solo dopo che aveva sgombrato ogni singolo ripiano della cucina. Indietreggiai, le mani intrecciate davanti a me. Le scrutai il viso, che si gonfiava e si faceva sempre più rosso, le vene che pulsavano sulle tempie. “Sarebbe potuta letteralmente esplodere” pensai. E invece si afflosciò come uno strofinaccio zuppo, e con un singhiozzo strozzato sibilò: «Lavali». Uscì dalla cucina, la porta oscillante dietro di lei. E così feci.

Frances Greenslade, Il nostro riparo, Keller editore

Decisioni

10 gennaio 2016

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Cara Maggie,
scusa per la lettera deprimente di ieri sera. Credo che stessi cercando di rimandare il più possibile il momento di andare a letto perché odio la mattina più di ogni altra cosa. Mi sveglio ed è tutto ancora vero, e io semplicemente non voglio svegliarmi, cosa che posso fare non andando a letto, capisci che intendo?
Sei seduta? Immagino di sì visto che stai leggendo questa lettera. Altrimenti, dovresti sederti, così non cadrai a terra. Non arrabbiarti, ti prego, non pensare che sono suonata, che sono una stupida, ci ho riflettuto un sacco e ho deciso che alla fine la terrò. Tengo mia figlia.
Chi c’è nel settimo cerchio dell’inferno??? (Ti immagino che stai dicendo questo, come faceva Ted, perciò scrivo la tua parte così mi sembra di averti qui con me).
Finora l’ho detto solo a Ginger e lei si è entusiasmata e mi ha proposto di prendere un appartamento insieme, ma io le ho detto che no, non posso vivere in città. Voglio andare a casa, ovunque sia, da qualche parte lassù con te e i coyote e le cinciallegre. No, non ho ancora pensato a un piano, perché come ti ho scritto l’altra volta non credo ci sia una grande richiesta di dattilografe nel Chilcotin, ma le donne pioniere ce l’hanno fatta con tutti i loro bambini. Ho detto a Ginger che può venire a vivere con noi. Spero che non ti offenderai. Ginger ti piacerebbe. Tanto sapevo che diceva di no, quindi non mi costava niente dirglielo.
Se Robert smetterà un attimo di guardarmi le tette oggi glielo dico. Ho sempre questa sensazione che tutti rimangano delusi da me. Continuo dopo.

Frances Greenslade, Il nostro riparo, Keller editore

Un fiore vivo è come un bambino

15 dicembre 2015

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Maria, ma dove hai preso quelle belle giorgine, così floride e allegre?» chiede Vasjutka alla vicina oltre la staccionata.
«Io alle mie ci sono stata dietro, ma gli ha preso un malaccio. Si sono tutte raggomitolate, come chioccioline, e non c’è stato nulla da fare. O me le avevano date poco buone, o Varvara di notte mi ci ha fatto il malocchio, ché son tutte spennate.
Che razza di strega è quella. Lo sa Iddio cosa è successo ai miei fiori. Sono morti, caput. Mi è rimasta questa robaccia qui. A me piacciono i fiori belli, grandi, non questa minutaglia». Vasjutka butta una bracciata di giorgine sul sentiero. «Ma santo cielo! Tutti mi chiedono da chi ho preso questo, da chi ho preso quello, finiranno col farmi andare tutto a male al momento di coglierle, me le faranno marcire nelle aiuole» risponde Maria con voce seccata. «Me le ha date Darusja la dolce. Anche i gigli e anche questa rosa. Me li ha portati la primavera scorsa».
«Prima di star male di nuovo?»
«Ma no, dopo. Poverina, ha attraversato tutto il paese tenendo i bulbi in braccio, fasciati come bambini piccoli. Li ha avvolti nella coperta che usa per coprirsi, li ha stretti al petto per tenerli al caldo e poi, a casa, li ha scoperti, come si fa quando si toglie le fasce a un bambino. Mi sono sentita stringere il cuore, tanto che ho deciso di non prendermela più per il mio Slavko… lui non è mica un anormale… magari gli fosse preso un accidente quando l’avevo in corpo. Ogni giorno che passa mi divora un po’ di più, con tutto quel bere, fosse andato a fuoco… Accid… Che la lingua mi si copra di foruncoli per quello che ho detto…»

…Darusja la dolce è seduta nell’aiuola in mezzo ai fiori, a pochi passi dalle due donne, intreccia e scioglie la sua treccia ormai rada e grigia, sente che parlano di lei e di tanto in tanto se la ride.
Sono loro, le sue vicine, che non hanno sale in zucca né Dio nel cervello, perché pensano che sia scema. Ma lei non è scema, Darusja è dolce.
Che c’è di strano se in inverno ha avvolto i bulbi delle giorgine nella coperta? Nevicava e c’era ancora ghiaccio dappertutto. Darusja ha dato i bulbi dei fiori ai compaesani, perché in autunno ne aveva tirati fuori tanti, ne aveva più che patate in cantina. Li aveva portati anche alle case dove i fiori non sbocciavano mai. Doveva andare in giro con i bulbi ignudi, con quel freddo? Che fa Vasjutka quando porta fuori il nipotino? Lo lascia così, in calzoncini? No, lo avvolge in una coperta, poi lo prende in braccio e così attraversa il villaggio. Un fiore vivo è come un bambino.

Marija Matios, Darusja la dolce, Keller, traduzione dall’ucraino di Francesca Fici

Gli esseri umani sono imprevedibili

3 dicembre 2015

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Scese di nuovo il buio, improvviso come la sera precedente, e con il buio la lieve brezza che aveva rovistato tra gli abeti si placò. Mamma preparò un fuoco, e i fruscii e il rumore dei ramoscelli che spezzava riecheggiavano in quello strano silenzio. Spossate, io e Jenny ci mettemmo comode sulle sedie pieghevoli condividendo una coperta sopra le ginocchia e osservammo il fuoco che attecchì crepitando e avvolgendosi intorno al ceppo più grosso.
«Una giornata perfetta» disse mamma sistemandosi anche lei sulla sedia.
«Non hai mai paura?» le chiese Jenny.
«Paura di cosa?»
«Di qualunque cosa. Degli orsi, dei lupi, dei puma».
«Mi fanno più paura gli esseri umani» disse mamma.
«A chi ti riferisci?» fece Jenny.
«A nessuno in particolare» disse. «Mi sembra che ci sia molto più da temere dagli uomini che dagli animali che hai citato. Gli esseri umani sono imprevedibili».

Frances Greenslade, Il nostro riparo, Keller

Come mai mamma non tornava?

19 novembre 2015

 

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Come mai mamma non tornava? Come mai non ci dava sue notizie? A volte ripensavo alla madre di Vern e alla sua stanza del cucito. Jolene, un tempo, era una madre che creava fantasie a partire da pezzetti di stoffa colorati e si chinava sulla sua macchina da cucire per realizzare trapunte per le persone care. Chi era diventata adesso? La compagna di uno stronzo che sembrava quasi odiare. Forse nostra madre era diventata una persona diversa, conosciuta da tutti solo come Irene, una bella donna rossa di capelli, con le cosce muscolose e le mani forti.
Beatrice era proprio irrecuperabile: non scaraventava più gli occhiali per la stanza in preda alla frustrazione – la morte di Ted l’aveva liberata, sembrava quasi felice –, ma non faceva che friggere salsicce e bollire patate, controllare la posta, astenersi dai commenti – rumorosamente. Ora che i commenti erano diventati necessari, lei si asteneva. La biasimavo perché non faceva nulla per trovare nostra madre. La odiavo per il suo silenzio. Sapevo che provava imbarazzo per noi. La odiavo per questo. Attorno a noi si accumulava un silenzio impenetrabile sulla cosa più importante di tutte.
A volte mi veniva voglia di avvicinare qualcuno a caso per strada e chiedergli: «Dov’è mia madre?» Un insegnante, o un poliziotto. «Lo sa dov’è mia madre? Mi può aiutare a cercarla?» Perché invece tacevo?

Frances Greenslade, Il nostro riparo, in uscita per Keller editore

Il lettore deve potersi fidare

7 agosto 2015

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“Sono persuaso che i lettori forti chiedano progetti chiari. Nell’editoria il tempo è molro importante. […] La qualità di un catalogo cresce piano piano. Io vorrei essere un editore di catalogo e di progetto. Mi interessa il long seller. Il lettore deve potersi fidare della K in copertina”.

Roberto Keller, colloquio con Enrico Arosio, Espresso, 7 agosto 2015

È tempo di centrifuga, e di partire

31 gennaio 2014

La lavatrice gira disegnando cerchi impazziti. È tempo di centrifuga. E sputa tutto la lavatrice. Sputa attraverso piccoli fori, mentre il tamburo trattiene lenzuola bianche che si fanno nodo. Si è messa in ginocchio Adriana, davanti all’oblò. Segue i giri con pupille stordite. Non ha parole sulle labbra; tra le mani il flacone di plastica con l’ultimo goccio di ammorbidente celestino: colore stupido per i suoi gusti. Ha i piedi nudi, i talloni ben in vista sono un rosario di ragadi e duroni. L’ampio fiocco del grembiule, annodato con precisione, sa quasi di festa, ma festa non è. La treccia lunga, mesciata, attraversata da una ciocca viola, è strozzata da due elastici da pacco che saranno cavoli a sfilarli via. Ma Adriana se ne frega, sono due settimane che non si pettina. Una piccola sveglia vecchio stile scodinzola piano il suo tic tac.

Quando è partita – qualche anno fa – da quelle quattro case sgretolate che insieme danno nome al suo paese, aveva con sé una sporta di plastica con dentro niente, tranne due paia di mutande di cotone spesso e una giacchetta di lana pelosa, pungente. Le strade lì erano sentieri segnati da piscio e sterco di capre, pecore e galline magre. Allora partire le era sembrato obbligatorio e forse semplice, come rompere tra i denti una zolletta di zucchero. Sua madre non l’aveva accompagnata neppure fino alla porta; l’aveva salutata dal letto, senza smuovere troppo le coperte. Nessuno capiva niente della sua malattia e lei non capiva più niente di nessuno. La figlia le era parsa un’ombra da scacciare con uno scatto della mano, come si fa per scansare una mosca. E la mosca se ne era andata ronzando parole scarne.

Maria Rosaria Valentini, Mimose a dicembre, Keller editore