Posts Tagged ‘mondadori’

Facevamo le scenette

16 settembre 2017

Nel Giardino l’uomo e la donna erano nudi senza vergogna, erano una cosa sola. Noi facevamo le scenette, ridevamo per un mezzo bicchiere di vino in quella congraga di eunuchi pelosi truccati da quello che più ci mancava e che cercavamo nella mammella della Vergine che suggeriva il nostro Dio bambino. Ci si induriva il pene e ne aveamo orrore, a guardare la Vergine con la mammella esposta.
Emanuele Tonon, “Fervore”, Mondadori

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Intervista a Stefano Petrocchi (8×8, quarta serata)

3 aprile 2017

Da direttore della fondazione Bellonci, che promuove la diffusione della narrativa italiana anche all’estero, come viene recepita la nostra letteratura? Pensa che ci sia una preferenza per un genere in particolare (romanzo o raccolta di racconti)? Secondo lei viene apprezzata la nuova generazione di autori o vengono ancora prediletti gli scrittori del Novecento?
Ci sono alcuni scrittori italiani contemporanei, diciamo della generazione trenta-quarantenni – per esempio Teresa Ciabatti lo ha detto in un’intervista a «The Huffington Post» qualche giorno fa, ma lo ha detto anche Nicola Lagioia in passato –, che ritengono la narrativa contemporanea italiana non meno interessante di quella americana, francese o inglese. Questo è secondo me un punto di vista minoritario, ma non lontano dalla verità. Ci sono grandi autori italiani che in questo momento non hanno nulla da invidiare ai celebrati americani, francesi e inglesi; se questa percezione – minoritaria da noi – è anche diffusa fuori d’Italia, non saprei. Secondo me noi scontiamo una non altissima propensione di alcuni paesi stranieri a tradurre la nostra narrativa. Naturalmente c’è il fenomeno Ferrante, che ha cambiato un po’ questo panorama negli ultimi anni, ma gli autori più tradotti credo tendano a essere gli stessi da molti anni, vale a dire Dacia Maraini, Alessandro Baricco, Italo Calvino. Questi autori faticano meno a entrare rispetto agli autori più recenti, anche se qualcosa si sta muovendo: per esempio il fatto che recentemente sia stato tradotto in inglese – da un premio Pulitzer quale Jhumpa Lahiri e pubblicato da Europa Editions negli Stati Uniti – il libro di Domenico Starnone, Lacci, è una cosa molto interessante, che apre scenari nuovi. Ecco, il fatto che Europa Editions, che è la testa di ponte dell’editore e/o negli Stati Uniti, abbia tutta la narrativa in traduzione, non solo italiana ma anche europea in generale, è molto importante e sta contribuendo a far cambiare le cose.

Con il premio Strega state facendo un gran lavoro di rinnovamento sia nel sistema di acquisizione delle opere sia dal punto di vista delle votazioni. In che direzione state andando? Ci possiamo aspettare sorprese o la logica dell’accentramento editoriale determinerà l’esito dei vincitori?
Sono due cose diverse. Intanto quello che sta facendo il premio Strega è andare verso i lettori. Si è sempre detto che il premio – questo lo abbiamo anche misurato statisticamente – dà un grande impulso alle vendite dei vincitori, pari a quattro-cinque volte di più rispetto a quello che avevano venduto prima dell’assegnazione. Se c’è questa corrispondenza tra le scelte della giuria del premio e il gusto dei lettori, non c’è ragione per non includere i lettori stessi nel processo di selezione delle opere. Lo abbiamo fatto raggiungendo un numero abbastanza grande di voti espressi dai lettori forti che abbiamo individuato insieme alle librerie indipendenti italiane; abbiamo istituito il premio Strega giovani dove cinquecento ragazzi di tutta Italia leggono i libri della dozzina, la selezione di partenza del premio Strega; abbiamo creato molti circoli di lettura all’estero coordinati dagli istituti italiani di cultura – sono circa una ventina e coinvolgono potenzialmente duecento persone, dieci per ciascun circolo, sono composti perlopiù da amanti della nostra lingua, non solo da italofoni per nascita. È una direzione su cui proseguiremo, forse fin da quest’anno: quando ad aprile dovremo annunciare la dozzina dei candidati probabilmente annunceremo anche l’allargamento ulteriore della giuria. Se questo potrà portare a risultati inaspettati nelle votazioni potrebbe accadere, ma non è uno scopo primario. Quello che ci interessa è avvicinare di più i lettori al premio. Registro che i grandi editori vincono il premio Strega più o meno nella stessa percentuale in cui vincono anche gli altri premi italiani: il panorama letterario italiano non comprende solo il nostro premio, ma anche altri importanti riconoscimenti, altrettanto storici quali il premio Campiello, il premio Mondello e così via. E più o meno i risultati sono simili, ovvero noi non facciamo le riforme del premio contro qualcuno, ma le facciamo badando semplicemente ad allargare la platea dei lettori e a premiare i migliori. Che il libro migliore sia edito da un grande editore o da un piccolo editore non deve avere importanza.

Dal punto di vista letterario cosa indaga o ascolta lo Strega?
Ultimamente è stato notato che i libri che hanno vinto il premio rispecchiano in maniera molto fedele alcuni macrofenomeni della società, per esempio il libro vincitore di Francesco Piccolo, Il desiderio di essere come tutti, è un romanzo che racconta la crisi della sinistra, quella preberlusconiana e postberlusconiana; il libro di Walter Siti che aveva vinto l’anno prima racconta come la grande finanza influisce sulle nostre vite e come abbia punti di contatto con la criminalità organizzata; potrei citare ovviamente anche il libro di Edoardo Nesi del 2011, Storia della mia gente, che racconta il disfacimento di un polo industriale, quello del settore tessile di Prato, dove peraltro operava lo stesso Nesi come imprenditore. È un fatto: ultimamente la cronaca penetra molto, in modo molto forte, nei libri proposti al premio. Forse viene meno quell’aspetto fantastico della letteratura che pure è importante, ovvero la capacità non solo di rispecchiare il mondo in cui siamo ma anche di farcene immaginare un altro. Sta di fatto che questo filone molto aderente alla realtà è decisamente prevalente negli ultimi tempi.

Ha scritto un libro pieno di storie attorno ai premi Strega. Che effetto le ha fatto stare dall’altra parte a sentire i giudizi dei critici e dei lettori, e presentare il libro in giro per l’Italia?
Ah beh, interessante! Ma non è che ci siano stati tantissimi giudizi… per esempio è interessante quello che ha scritto un lettore di aNobii – l’unico commento – che dice: «Che il premio Strega fosse una pastetta lo sapevamo già; sentircelo raccontare è persino stucchevole, un libro sostanzialmente inutile». Un bagno di umiltà notevole. In realtà quello che alcuni hanno riconosciuto è la cosa che stava dietro, ovvero l’intenzione di raccontare le storie intorno al premio non è tanto quella di mettere in piazza i suoi retroscena, quanto quella di far capire come questo premio, che la stessa fondatrice aveva chiamato «una polveriera» – da qui il titolo del libro –, accende in qualche modo gli animi – ci sono scrittori che si trasfigurano quando concorrono al premio. Io racconto di una battuta che fece Anna Maria Rimoaldi, che ha diretto il premio dopo Maria Bellonci, su uno scrittore che di solito era un pezzo di ghiaccio ma che la sera in cui vinse il premio Strega tremava come una foglia. Ecco, è l’umanità degli scrittori e degli editori che in realtà volevo raccontare.

Secondo lei quali devono essere le caratteristiche di un buon racconto a livello di trama, scrittura e forma? Ha un testo o un autore di riferimento che consiglierebbe come modello agli esordienti nel racconto?
Io amo molto i romanzi brevi; in inglesi li chiamano short novel. Da noi sono anche definiti racconti lunghi. Per esempio: Giro di vite di Henry James, Un anno terribile di John Fante, La figlia oscura di Elena Ferrante – un racconto gotico straordinario. Mi interessano romanzi che in poche pagine riescono a tendere un arco narrativo che è come un lungo respiro, dall’inizio alla fine non ti lasciano riprendere fiato. Non sono un grandissimo lettore di racconti, devo dire la verità, però mi piacciono moltissimo i racconti brevissimi, fulminanti, per esempio quelli di Max Aub in Delitti esemplari, dove in un racconto dice «L’ho ucciso perché era più forte di me», e in quello successivo «L’ho ucciso perché ero più forte di lui». Oppure un racconto di Mario Benedetti di tre righe, Il loro amore non era semplice.

In un panorama editoriale che non lascia forse molto spazio al racconto perché crede abbia una diversa fortuna di pubblico, come si inserisce secondo lei l’iniziativa di un concorso letterario come 8×8?
Beh, è molto interessante. Intanto perché fa un lavoro di scouting. Questa è tra l’altro una cosa che facciamo anche noi con i ragazzi nelle scuole, intendo con la fondazione Bellonci. Li invitiamo ogni anno a raccontarsi attraverso poche pagine e ci siamo accorti, selezionandoli in anni diversi, che spesso tendiamo a selezionare i racconti degli stessi ragazzi, cioè tendiamo a far emergere un talento. Il racconto in questo è secondo me straordinario come rivelatore del talento, in poche pagine devi fare delle scelte linguistiche molto ponderate, e se ti riescono vuol dire che hai della stoffa e che devi continuare a scrivere.

A cura di Martina Mincinesi e Sara Valente

Ferruccio Parazzoli e la dittatura del mercato

17 dicembre 2016

Cosa è cambiato da allora? «Avevamo paura di Arnoldo: se per caso un libro cadeva per terra era una tragedia: lui sapeva la fatica che gli era costata trasformare quel libro non in un oggetto, bensì in un valore. Oggi lo scrittore non vale più nulla, se non fa spettacolo non esiste. È la dittatura del mercato, ma gli editori dovranno uscirne.» Come? «Smetterla di puntare di volta in volta sull’autore giovane, sul caso, uscire da questa ipnosi da best seller. Ai miei tempi esisteva il libro di successo, che è una cosa diversa. Comunque…»

da Alberto Riva, Quei mostri sacri del Novecento tra virtù e peccatucci, «il venerdì» di «la Repubblica», 16 dicembre 2016

Tutto quell’amore inutile

11 marzo 2016

Eravamo così felici, così felici per niente, amavamo così sterminatamente tutto e tutti da essere sacri solo per quell’amore dilapidato, solo per le nostre gambette nude sotto al saio, quella vanità da passerella che portavamo in giro, le nostre gambette pelose sotto alla gonna santa. Tutta quella sterminata felicità, tutto quell’amore inutile.

Emanuele Tonon, Fervore, Mondadori

Eravamo una famiglia

3 marzo 2016

A rotazione ognuno si prendeva cura di una parte del convento. Era tutto un andirivieni di scope e stracci. Eravamo sedici maschi che pulivano i loro segni in quello spazio sacro, i loro scarti. Qualcuno non sapeva nemmeno tenere in mano una scopa e non avrebbe mai imparato a farlo. Finite le pulizie ci si preparava per lo studio. Si tornava in cella a prendere i quaderni e la penna, si scendeva nella sala dello studio, accanto alla biblioteca conventuale. Non pativamo la gogna dell’accademia. Stavamo lì, composti, con i quadernoni a righe aperti sui banchi ad appuntare le parole del frate di turno che ci impartiva lezioni di storia del francescanesimo, di storia della spiritualità, di teologia ascetica e mistica, di psicologia della vita conscrata. Tu divoravi i libri. Avevi fame, volevi conoscere. Nell’anno di noviziato avevi scoperto Dostoevskij, Melville, il potere della parola che proiettava la tua mente verso il silenzio, verso la liberazione.
Si arrivava, più o meno storditi, a mezzogiorno. Raccoglievamo i nostri quaderni, lasciavamo la biblioteca per tornare brevemente in cella. E poi di nuovo giù a precipizio, in chiesa per la preghiera dell’Ora Sesta. Lasciavamo il Coro per il refettorio, per il pranzo. Chi mangiava piano, chi voracemente. C’erano i secchi e c’erano i grassi. C’era chi ingrassava solo per il vento e chi assottigliava solo per il vento. Eravamo una congrega di sconosciuti che si erano trovati, casualmente, arrivando da terre diverse, alla stessa tavola. Il cibo è comunione. Coi gomiti poggiati sulla stessa mensa percorsa e ripercorsa da generazioni di frati, mangiavamo le fave crude con l’olio e il sale, alla stessa tavola bevevamo il vino centellinato che altri frati avevano provveduto a spremere dal grappolo, a pestare nella tinozza. Dormivamo uno accanto all’altro, in quella sacra promiscuità. Ci inventavamo il mondo e la vita, stavamo tutti dentro quella sacra rappresentazione. Ci amavamo come si amano gli angeli, quegli esseri alati che hanno portato la confusione in questo mondo. Qualcuno, timidamente, provava ad amoreggiare con un altro: c’era chi faceva il maschio e chi faceva la femmina. Chi faceva la moglie e chi il marito. Chi la madre e chi il padre. Chi il figlio, chi il nipote. Eravamo una famiglia.

Emanuele Tonon, Fervore, Mondadori

Allora il capo sono io

1 marzo 2016

 

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«Dobbiamo decidere come faremo a farci salvare.»
Ci fu un brusio. Uno dei piccoli, Einrico, disse che voleva andare a casa.
«Piantala» disse Ralph distrattamente, e alzò la conchiglia. «Mi sembra che dovremmo avere un capo che prenda le decisioni.»
«Un capo! Un capo!»
«Io dovrei essere capo» disse Jack con arrogante semplicità «perché sono maestro del coro e capoclasse. So fare il do diesis.»
Un altro brusio.
«Allora,» disse Jack «io…»
Esitava, e intanto il ragazzo bruno, Ruggero, finalmente diede segno di vita e parlò.
«Facciamo le elezioni.»
«Sì!»
«Eleggiamo il capo!»
«Ai voti, ai voti!»
Questo gioco delle elezioni era quasi divertente come la conchiglia.
Jack cominciò a protestare, ma il desiderio generale di avere un capo si mutava clamorosamente nell’elezione proprio di Ralph, per acclamazione. Nessuno dei ragazzi avrebbe potuto darne una buona ragione: se qualcuno aveva dato prova di intelligenza era Piggy, mentre era ovvio che Jack aveva la stoffa del capo. Ma c’era qualcosa di eccezionale nella calma con cui Ralph sedeva immobile, ed egli era alto, bello: c’era soprattutto, oscuro ma potente, il fascino della conchiglia. Chi l’aveva fatta suonare, chi li aveva aspettati sulla piattaforma con quella cosa fragile sulle ginocchia, era diverso dagli altri.
«Quello della conchiglia!»
«Ralph! Ralph!»
«Facciamo capo quello che suona la tromba.»
Ralph impose il silenzio con la mano.
«Va bene. Chi vuole Jack come capo?»
I ragazzi del coro, obbedienti e funerei, alzarono la mano.
«Chi vuole me?»
Tranne il coro e Piggy, tutti alzarono la mano immediatamente; poi anche Piggy tirò su la sua di malavoglia.
Ralph contò le mani.
«Allora il capo sono io.»

William Golding, Il Signore delle Mosche, Mondadori, traduzione di Filippo Donini

Portavamo nella nostra carne di foca il peso di una felicità impossibile

4 febbraio 2016

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Saltavamo come foche impazzite, e non sapevamo saltare. Saltavamo come foche su un campo minato, pieni d’amore per quel Dio che ci avevano insegnato a adorare. Stavamo fuori da quel mondo che aveva misconosciuto l’adorazione, che ne aveva orrore. Adoravamo un ciborio, ci squagliavamo davanti a una pala d’altare, ci faceva male tutto, sanguinavamo dal costato, inzuppavamo di miele una maglia della salute che conservava memoria del sudore di frati ormai abitatori dell’altro mondo, ormai depositati nel cimitero conventuale. Portavamo nella nostra carne di foca il peso di una felicità impossibile e saltavamo sul prato goffi, goffi come solo gli angeli e le foche sanno essere. Ma non sapevamo niente. Prendevamo in mano il badile e lo affondavamo nella terra, ci si inspessivano i palmi, ci facevano male, a sera. C’erano quelli così delicati che cadevano a terra e squittivano come topolini, c’erano quelli così forti che zappavano anche per altri due topolini; eravamo quel bestiario sacro, quei campi che aprivamo con la zappa nell’attesa di una nascita. E gli squarci che facevamo nella terra, per gettarci poi il seme, andavano richiudendosi, lasciavano fermentare il seme che poi riapriva la terra, buttava davanti ai nostri occhi quella meraviglia di germoglio che sarebbe diventato frutto, che ci avrebbe nutriti. Tra la terra e il cielo c’erano le nostre bocche ansiose, il nostro bisogno di ruminare, di bere. C’erano le nostre preghiere inutili di cui il mondo aveva bisogno per diventare grano da macina, per diventare pane, perché tutto fosse ricondotto a quel Dio fattosi pane, quel Dio che adoravamo, che amavamo come sposi impazziti di desiderio, gelosi fino alla malattia, fino al furore con cui ci cingevamo i fianchi, ci spremevamo i lombi, noi sterili, noi figli di un batterio diventato pesce, noi pesci zampettanti, noi foche da circo, eunuchi che avevano l’ardire di salvare il mondo solo salmodiando e zappando, così certi della fine da indossare tuniche marrone, da ridurci ad angeliche scimmie sterili nell’attesa di un imminente altro mondo, di un regno di sola felicità.

Emanuele Tonon, Fervore, Mondadori

Mi basta sentire il richiamo della vecchia casa

29 gennaio 2016

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La prima volta che vidi questa spiaggia ero con un uomo che durante il nostro soggiorno si paragonò a Gesù, il suo modo per non considerare quel viaggio una perdita di tempo. La seconda volta mi ci portò qualcun altro. Affittammo per un giorno un cottage davanti alla spiaggia, con molta atmosfera e qualche sedia umida. Gli dissi che era il mio compleanno. Mi lasciò da sola nel cottage e tornò con un pezzo di torta al cioccolato. Non c’erano né piatti né forchette. Mi guardò mangiare la torta. Io dissi: “Cosa c’è, sono coperta di glassa?”. “Ogni giorno della tua vita”, mi rispose, e andò a casa dalla moglie.
La terza volta mangiai quei pancake.
Rimarrò per tutto il tempo necessario. Non chiamerò nessuno della mia lista. Non gli amici di amici che vivono da queste parti, smaniosi di mostrarmi il loro giardino e presentarmi i loro figli. Né visiterò la famosa riserva naturale dove viveva una sterna in via d’estinzione. Perché dovrei conoscere quello che resterà, o che se ne andrà?
Chi cerca balene di peluche e granchi di gomma arancione, magliette e tazze, tovagliette con la mappa della zona, deve andare più su lungo la costa. Qui c’è un negozio che vende solo cartoline. Per me va bene. Non devo andare a caccia di souvenir. Mi basta sentire il richiamo della vecchia casa, che demolisce la nuova.

Amy Hempel, “Il nuovo inquilino”, Ragioni per vivere, Mondadori, traduzione di Silvia Pareschi

Casalinga

4 gennaio 2016

Andava sempre a letto con il marito e con un altro uomo nel corso della stessa giornata, e poi utilizzava il resto della giornata, quel che ne rimaneva, per recitare l’incantesimo: «Film osé, film osé».

Amy Hempel, “Casalinga”, Ragioni per vivere, Mondadori, traduzione di Silvia Pareschi

Essere giovani

7 dicembre 2015

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Ogni palla deve parere la luna. Ida invece doveva sapere ciò che presto doveva accadere.
Si può essere giovani così giovani da andare a fare il bagno e a nuotare. Ida lo era stata. Non proprio a nuotare una imparava e l’altro insegnava.
Questo voleva dire essere giovani a San Francisco e i bagni si chiamavano Lurline Baths. Ida era giovane e lui anche erano entrambi buoni tutti e due lei e lui le insegnva a nuotare, si chnò su di lei e le disse forza con le gambe la teneva sotto il mento e le stava ritto accanto, l’acqua non era profonda, e le disse forza i piedi lei obbedì e lui allora camminandole d’accanto la teneva sotto il mento, forza i piedi le diceva e coi piedi ella scalciava e con lui sempre vicino un gran calcio gli vibrò. Egli allora la lasciò urlando Cristo le mie palle andò a finire sott’acqua e lei pure, nessuno dei due affogò ma avrebbero potuto affogare benissimo.
Fatto strano, lei non pensava mai a Frank, così egli si chiamava, non le riusciva di ricordare il suo cognome, ma ogni qual volta sentiva odore di cipolle selvatiche si ricordava quando era andata sott’acqua e che nessuno dei due era affogato.
È difficile non essere state più giovani ma Ida quasi non era mai stata più giovane.

Gertrude Stein, Ida, Mondadori, traduzione di Giorgio Monicelli