Posts Tagged ‘racconto’

Ero convinta che gli scrittori fossero gente calma

9 aprile 2017

Non credevo in lui. Non avevo capito quanto fosse necessario da parte mia dargli fiducia. Lo ritenevo senz’altro intelligente e dotato, ma non ero certissima che sarebbe diventato uno scrittore. Non riconoscevo in lui l’autorevolezza che, a mio giudizio, uno scrittore doveva possedere. Era troppo impaziente, troppo permaloso con tutti, troppo megalomane. Ero convinta che gli scrittori fossero gente calma, malinconica, esageratamente consapevole. Li consideravo naturalmente speciali, dotati dalla nascita di una qualità rara, luminosa e impressionante, di cui Hugo non disponeva. Pensavo che un giorno o l’altro se ne sarebbe accorto. Frattanto, Hugo abitava una realtà fatta di riconoscimenti e castighi che mi erano imperscrutabili e bizzarri quanto quelli vissuti da uno psicopatico.

Alice Munro, “Materiali”, Una cosa che volevo dirti da un po’, Einaudi, traduzione di Susanna Basso

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Omaggio a Pastorale americana

31 ottobre 2016

La sua stanza era in fondo a un’ulteriore rampa di scale, in una cantina, in effetti. C’erano una branda, una vecchia scrivania a scomparti assai malridotta, e un paio di sedie rigide senza poggiapiedi.
«Le sedie reggono, sta’ tranquilla» le disse. «Quasi tutto quello che abbiamo è rimediato in discarica, ma sulle sedie esigo che ci si possa sedere.»
Con un senso di sfinimento, Sally sedette.
«Che cosa sei?» chiese. «Che cos’è quello che fai? è una specie di casa di accoglienza per detenuti o malati di mente, questa?»
«Ma no. Qui accogliamo proprio chiunque arrivi.»
«Compresa me.»
«Compresa te» disse lui, senza sorridere. «Non abbiamo nessuno che ci finanzi, tranne noi stessi. Ci arrangiamo con un po’ di riciclaggio dei rifiuti che raccogliamo in giro. Quei giornali. Bottiglie. Tiriamo su qualcosa qui e là. E, a turno, sollecitiamo gesti di solidarietà.»
«Cioè, chiedete l’elemosina?»
«Mendichiamo» fece lui.
«Per strada?»
«Quale posto migliore? Sì, per strada. Ma entriamo pure in qualche locale con cui abbiamo un accordo, anche se non sarebbe legale.»
«Lo fai anche tu?»
«Non potrei chiederlo agli altri, se non lo facessi personalmente. Ho dovuto vincermi. Quasi tutti abbiamo dovuto vincere qualcosa. Poteva essere la vergogna. O magari il concetto di “mio”. Se qualcuno ti scuce un biglietto da dieci o anche solo un dollaro, ecco che spunta fuori il concetto di proprietà privata. Di chi sono quei soldi, eh? Sono miei, oppure – aiuto, aiuto – sono nostri? Se la risposta che ci si dà è sono miei, di solito la persona se li spende subito e poi torna col fiato che puzza di alcol e dice, non so come mai, ma oggi ho rimediato un centesimo. Poi capita che si senta in colpa e finisca per confessare. Oppure no, non importa. Li vediamo sparire per giorni di seguito – settimane – e poi ricompaiono quando si mette male. Qualche volta invece li vedi battere le strade per conto loro, facendo sempre finta di non riconoscerti. E non tornano più. Il che va benissimo. Sono i nostri ex allievi, diciamo così. Se si crede nel sistema, ovvio.»
«Kent…»
«Da queste parti mi chiamo Giona.»
«Giona?»
«L’ho scelto io. Avevo pensato a Lazzaro, ma mi pareva troppo compiaciuto. Puoi chiamarmi Kent, se preferisci.»
«Vorrei sapere che cosa è successo alla tua vita. Non tanto cosa ci fai con queste persone…»
«Queste persone sono la mia vita.»
«Sapevo che l’avresti detto.»

Alice Munro, «Buche-profonde», Troppa felicità, Einaudi, traduzione di Susanna Basso

La carne fa male, il tofu fa bene

18 settembre 2016

 

Mio marito mangiava spesso nelle tavole calde prima che ci conoscessimo. Ce n’erano due in particolare che gli piacevano, ma la sua preferita era quella dove servivano un panino al roast beef particolarmente buono. Il roast beef gli piace ancora, e le bistecche, e gli hamburger, con il sughetto e le spezie, magari alla griglia, con spiedini di cipolle e peperoni.
Adesso però sono io che cucino la maggior parte di quello che mangia. Spesso gli preparo pasti interi senza carne, perché penso che la carne non ci faccia bene. Spesso evito anche i frutti di mare, perché anche la maggior parte dei frutti di mare non ci fa bene, e non cucino quasi mai pesce, in parte perché non mi ricordo mai quali tipi di pesce sono sicuri da mangiare e quali quasi certamente no, ma soprattutto perché a lui il pesce piace solo quando glielo servono al ristorante oppure quando è cucinato in modo che non possa distinguere che è pesce. Spesso evito anche di usare il formaggio, per via del grasso. Gli preparo del riso integrale in casseruola, per esmepio, oppure crema di rape con foglie di rapa, oppure fagioli bianchi e gratin di melanzane, oppure polenta con verdure speziate.
“Perché non cucini mai le cose che piacciono a me?” mi chiede ogni tanto.
“Perché non ti piacciono le cose che cucino?” gli rispondo.
Una volta ho marinato delle fette di tofu in salsa tamari, aceto di champagne, vino rosso, maggiorana tostata e funghi secchi sobbolliti nell’acqua. Le ho marinate per quattro o cinque giorni, poi gliele ho servite, tagliate sottili, in un panino con rafano e maionese, fette di cipolla rossa, lattuga e pomodoro. Prima ha detto che il tofu rimaneva comunque molto insipido, che è quello che dice sempre del tofu, poi ha detto che d’altro canto, se non avesse saputo che c’era dentro il tofu, non sarebbe riuscito comunque a sentirne il sapore perché c’erano così tante altre cose nel panino. Ha detto che non era male, poi ha detto che sapeva che il tofu gli faceva bene.
A volte gli piacciono le cose che gli cucino e se è di buonumore me lo dice anche.

Lydia Davis, “La carne, mio marito”, Inventario dei desideri, Bur

La bella bionda di Dorothy Parker

9 febbraio 2016

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Hazel Morse was a large, fair woman of the type that incites some men when they use the word “blonde” to click their tongues and wag their heads roguishly. She prided herself upon her small feet and suffered for her vanity, boxing them in snub-toed, high-heeled slippers of the shortest bearable size. The curious things about her were her hands, strange terminations to the flabby white arms splattered with pale tan spots–long, quivering hands with deep and convex nails. She should not have disfigured them with little jewels.
She was not a woman given to recollections. At her middle thirties, her old days were a blurred and flickering sequence, an imperfect film, dealing with the actions of strangers.

Dorothy Parker, Big Blonde

 
Hazel Morse era una bella donna alta e ben piantata, una donna di quel tipo che induce gli uomini, quando pronunciano la parola “bionda”, a schioccar la lingua e ad alzar la testa con aria furbesca. Era orgogliosa dei suoi piedini e si sacrificava per questa vanità, imprigionandoli in certe pantofoline dalla punta schiacciata e dai tacchi altissimi, della misura più piccola che sia portabile. Ma soprattutto erano curiose le sue mani, lunghe mani oscillanti, dalle unghie incassate e convesse, che terminavano in modo strano quelle braccia flaccide e bianche, sparse qua e là di efelidi pallide. Quelle mani non avrebbe dovuto mai sfigurarle con piccoli gioielli.
Non era donna dedita ai ricordi. A trentacinque anni circa, i suoi giorni erano una fuggevole e labile sequenza, una mediocre pellicola che mostrava solo volti e gesti di sconosciuti.

Dorothy Parker, “La bella bionda”, Il mio mondo è qui, Bompiani, traduzione di Eugenio Montale

 
Hazel Morse era una bella donna alta e formosa, il tipo che spinge certi uomini, quando pronunciano la parola “bionda”, a schioccare la lingua scuotendo maliziosamente la testa. Si vantava dei suoi piedini minuscoli e soffriva per vanità costringendoli in scarpine strette con tacchi a spillo, della misura più piccola che riuscisse a sopportare. La cosa più curiosa erano le sue mani, bizzarre terminazioni di braccia candide e flosce punteggiate di pallide macchie di sole, mani lunghe e palpitanti con unghie profonde e convesse. Non avrebbe mai dovuto deturparle con gioiellini da quattro soldi.
Non era una donna portata all’introspezione. Giunta a cavallo tra i trenta e i quaranta, i giorni passati erano una sfilza di immagini sfocate e tremolanti, un film imperfetto, che parlava di socnosciuti.

Dorothy Parker, “Una bella bionda”, Tanto vale vivere, La Tartaruga Edizioni, traduzione di Chiara Libero

Non capisco come vive la gente

4 gennaio 2016

 

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Mrs Arnold fece un respiro profondo.
«Dottore,» disse «da cosa si capisce se uno sta diventando matto?».
Il dottore alzò la testa.
«Che stupida» disse Mrs Arnold. «Non volevo dire così. È già abbastanza difficile da spiegare, senza andare sul drammatico».
«L’infermità mentale è più complicata di quel che pensa» disse il dottore.
«Lo so che è complicata» disse Mrs Arnold. «Questa è la sola cosa di cui sono veramente sicura. L’infermità mentale è una delle cose che intendo».
«Mi scusi?».
«Il mio guaio è questo, dottore». Mrs Arnold si accomodò sulla sedia e tolse i guanti da sotto la borsetta, mettendoli sopra. Poi li prese e li rimise sotto la borsetta.
«Me ne parli liberamente» disse il dottore.
Mrs Arnold sospirò. «Tutti gli altri capiscono, pare,» disse «e io no. Ecco». Si sporse e parlando gesticolò con la mano. «Non capisco come vive la gente. Una volta era tutto così semplice. Da bambina vivevo in un mondo dove vivevano anche tanti altri e tutti vivevano insieme e le cose andavano avanti così, tranquillamente».

Shirley Jackson, “Colloquio”, La lotteria, Adelphi, traduzione di Franco Salvatorelli

Cavarsela così, senza vedere se si sblocca qualcosa

16 novembre 2015

– Ti ho detto che vado a trovare un mio amico che si è messo a fare la scimmia.
– Sì, ho capito.
– E non ti pare strano?
– Mah, a dirti la verità non è che me ne freghi un granché.
[…]
– Allora?
– Allora che?
– Il mio amico. Quello che si è messo a fare la scimmia.
– Nico, non lo so. Questa sta diventando una conversazione surreale, e io detesto le conversazioni surreali. È per questo che faccio l’agente.
– E allora te la cavi così?
– Te la cavi così come?
– Un tuo amico si mette a fare la scimmia e la cosa più intelligente che ti viene da dire è «io detesto le conversazioni surreali»?
[…]
(a un tassista)
– Il mio amico. Quest’estate si è messo a fare la scimmia e non ha più smesso. Sto andando da lui per vedere se si sblocca qualcosa – disse Nico.

Pietro Grossi, “La scimmia”, da Pugni, Sellerio

I particolari che accumulano significato

8 novembre 2015

Nella narrativa di qualità, certi particolari tendono ad accumulare significato con lo svolgersi dell’azione, e quando ciò accade acquistano un valore simbolico grazie al loro ruolo all’interno della vicenda. Una volta ho scritto un racconto, dal titolo “Brava gente di campagna”, in cui una dottoressa viene derubata della propria gamba di legno da un venditore di Bibbie che aveva tentato di sedurre. Devo ammettere che, parafrasata in questo modo, la situazione può sembrare soltanto uno scherzo di cattivo gusto. Il fatto di assistere al furto di una gamba di legno diverte il lettore medio.
Ma pur non smettendo di allettarlo, la storia riesce, senza dichiarazioni d’intento troppo elevate, ad agire anche a un altro
livello d’esperienza, facendo sì che la gamba di legno accumuli significato.

Flannery O’Connor

Le sai tutte queste cose?

25 aprile 2015

djuna barnes

“La vita” disse “è lurida. È anche spaventosa. C’è di tutto: assassinio dolore, bellezza, malattia – morte. Lo sai, questo?”.
“Sì” rispose la piccola.
“Come lo sai?”.
“Non so” rispose ancora.
“Ecco!” proseguì Madame von Bartmann. “Non sai nulla. Devi sapere tutto, e poi cominciare. Devi essere capace di capire veramente, se no crollerai. I cavalli ti allontanano di corsa dal pericolo; i treni ti riportano indietro. I quadri ti danno una fitta mortale – erano appesi sopra un uomo che amavi e che forse hai ucciso nel suo letto. I fiori ti avvolgono il cuore in un drappo funebre perché un bambino è stato sepolto tra i fiori. La musica incita al terrore della ripetizione. È dove le strade divergono che gli innamorati si scambiano promesse, e le taverne sono per i ladri. La contemplazione conduce al pregiudizio, e i letti sono campi dove i neonati combattono una battaglia perduta. Le sai, queste cose?”.
Dal buio non ci fu risposta.

Djuna Barnes, “Aller et retour”, La passione, Adelphi, traduzione di Lucia Drudi Demby

Non ti scaldare così per una foglia di lattuga

15 aprile 2015

miles city montana alice munro

I had made peanut-butter-and-marmalade sandwiches for the children and salmon-and-mayonnaise for us. But I had not put any lettuce in, and Andrew was disappointed.
“I didn’t have any,” I said.
“Couldn’t you have got some?”
“I’d have had to buy a whole head of lettuce just to get enough for sandwiches, and I decided it wasn’t worth it.”
This was a lie. I had forgotten.
“They’re a lot better with lettuce.”
“I didn’t think it made that much difference.” After a silence, I said, “Don’t be mad.”
“I’m not mad. I like lettuce on sandwiches.”
“I just didn’t think it mattered that much.”
“How would it be if I didn’t bother to fill up the gas tank?”
“That’s not the same thing.”

Avevo preparato dei tramezzini al burro di arachidi e marmellata per le bambine e al salmone e maionese per noi. Ma non ci avevo messo la lattuga e Andrew si irritò.
– Non ce l’avevo, – dissi.
– Non la potevi comprare?
– Dovevo prenderne una testa intera per qualche foglia da mettere nei tramezzini; ho pensato che non ne valesse la pena.
Mentivo. Me ne ero scordata.
– Non pensavo facesse tanta differenza -. E dopo un attimo di silenzio aggiunsi: – Non ti scaldare così.
– Non mi scaldo. È che mi piacciono i tramezzini con la lattuga.
– Non pensavo che facesse tanta differenza.
– E se io non mi preoccupassi di fare benzina, allora?
– Non è la stessa cosa.

Alice Munro, “Miles City, Montana”, Il percorso dell’amore, Einaudi, traduzione di Susanna Basso

Le offese al ritmo del narratore maldestro

8 febbraio 2015

Italo Calvino

La novella è un cavallo: un mezzo di trasporto, con una sua andata, trotto o galoppo, secondo il percorso che deve compiere, ma la velocità di cui si parla è una velocità mentale. […] I difetti del narratore maldestro sono soprattutto offese al ritmo.

Italo Calvino, tratto da RapiditàLezioni americane